Hall of Fame 2010: i premiati

Scottie Pippen, introdotto nella Hall of Fame da Michael Jordan

Le lacrime di Karl Malone sono il simbolo di questa classe 2010, per effetto della quale si è sancito, ad Indianapolis, il superamento dei trecento membri della Hall of Fame.

Tra i premiati, distinguendo per categorie: due squadre nazionali USA, quattro giocatori NBA equamente suddivisi per epoche storiche, un'atleta leggendaria direttamente dalla WNBA, uno "straniero" che è ormai mitologia, un indimenticabile coach ed un "contributor" assai singolare.

Ciò che importa notare, a parte le immancabili polemiche circa la mancata inclusione di alcuni a vantaggio di altri (Chris Mullin su tutti, il cui "contentino" è però la presenza, tra gli immortali, del Dream Team che fu anche suo), è senz'altro il fatto che ognuno dei nomi che andremo a menzionare ha rappresentato la storia dell'ultimo cinquantennio cestistico: fatto, almeno questo, che trova tutti d'accordo.

Andiamo dunque a visionare quali personaggi sino stati, ad honorem, accostati al nome del padre fondatore Naismith. Procederemo per gruppi, secondo un principio di libere associazioni che l'autore spera verranno condivise.

U.S.A. OLYMPIC TEAM '60 & DREAM TEAM '92
E' la consacrazione degli States medesimi, intendendo con questo le nazionali che li hanno rappresentati.

Non era, per entrambe, contemplata l'opzione della rinuncia alla convocazione da parte del giocatore, come sta tristemente avvenendo da anni per lo stesso team U.S.A. o -esempio quasi banale- nel mondo del calcio.

Parliamo della squadra di Oscar Robertson e Mr. Logo, e della Squadra dei Sogni per definizione; di un team che ne dava 42 di media ai propri avversari, e di uno che a più di trent'anni di distanza arrivò a darne più di 43: le due nazionali maschili più devastanti di sempre, allenate da Pete Newell e Chuck Daly.

Pur nel dispiacere di non nominare tutti gli assistenti allenatori, nonché tutti i cognomi dei giocatori che composero le due squadre, siamo certi che non ce ne sia grande bisogno, sia perché gli appassionati potranno andare a ripassarseli quando vorranno, se già  non li conoscono a memoria, sia perché il loro ricordo è, a tutti gli effetti, ormai eterno.

Una piccola postilla: imperdibile l'intervista a Riley, che rileva quanto "epocale" sia stato il Dream Team a suo tempo.

JERRY BUSS & BOB HURLEY
Sulla popolarità  di Jerry Buss c'è poco da aggiungere.
"Avrei semplicemente fatto il proprietario dei Lakers", rispose il baffuto ad un'intervista che seguiva una partita di poker trasmessa in diretta, in cui gli si domandava che vita avrebbe avuto se non avesse giocato a Texas.

Domanda certamente ingenua, risposta sintetica e quantomai veritiera. Buss non è solo il sinonimo di Lakers dal 1979 ad oggi (9 titoli, svariate finali, infinite vittorie della Western); nominiamo, tanto per gradire, anche L.A. Kings (NHL) e L.A. Sparks (WNBA). A 76 anni, eccogli riconosciuto il giusto merito per aver sostenuto e portato al trionfo lo sport losangelino.

Bob Hurley, il cui omonimo figlio calcò i parquet NBA, rappresenta invece l'altro lato della medaglia, che ben si contrappone alla figra dell'owner zeppo di dollari. Parliamo di una figura legata (la terza nella Hall of Fame dopo Morgan Wootten e Bertha Teague) al basket liceale: nato nel 1947, Hurley allena dal 1972 la St. Anthony's High School, nel New Jersey. Tre volte U.S.A Today National Champion (1989, 1996 e 2008), due volte coach dell'anno eletto dalla medesima rivista, più di 900 vittorie nella sua carriera.

Nel caso non fosse abbastanza, ricordiamo che esistono, su Hurley, un libro ed un documentario.
E la Hall of Fame non può dunque non farsi carico di due avventure irripetibili, che ebbero inizio negli anni Settanta.

I DUE JOHNSON: GUS & DENNIS
Entrambi scomparsi intorno a cinquant'anni, Gus a 49 (nel 1987) e Dennis a 53 (nel 2007), appartengono a due epoche cestistiche decisamente diverse. Anzi, quasi si diedero "il cambio".

Gus fu bandiera dei Baltimore Bullets, con i quali arrivò alle Finals senza vincere, nel 1971: nella stessa stagione fu nel primo quintetto difensivo della Lega, fatto che era già  avvenuto l'anno prima. Venne inoltre convocato in cinque occasioni per la partita delle stelle, fu quattro volte secondo quintetto assoluto e nell'All Rookie Team della sua annata, il 1963-'64.

Nel 1972 lasciò i suoi Bullets, e la NBA dopo poche partite a Phoenix: da quel 1970-'71 non si era più ripreso, e le cifre rispecchiavano questo inesorabile declino. Approdato nella ABA proprio in concomitanza con la creazione del tiro da tre punti, statistica che si vide conteggiata proprio nel suo ultimo anno di carriera, riuscì a risollevare le sorti della stessa. Vincendo, con gli Indiana Pacers, il titolo ABA.

Dennis, sontuoso rubapalloni, giocò invece sempre nella NBA, dal 1976 al 1990. Di lui si ricordano 1100 incontri tra i pro tra Seattle, Phoenix e Boston (Gus ne giocò 632), cinque presenze all'All Star (come Gus), sei inclusioni nel primo quintetto difensivo e tre nel secondo (affine anche in questo all'ex Baltinore), e un primo quintetto assoluto.

La particolarità  è che quest'ultimo riconoscimento gli venne assegnato nel 1978-'79: vinsero l'anello i Seattle SuperSonics, e Dennis fu MVP delle Finali. Per questo motivo, più che per i due anelli ai Celtics (1984 e 1986), è da annoverare tra coloro che hanno fatto la storia.

KARL MALONE & SCOTTIE PIPPEN
Ci chiediamo quale possa mai essere l'opinione di Pippen sui titoli vinti da Kobe senza Shaq: se Pippen non avrebbe mai potuto vincere senza quel tale in maglia 23, è pur vero che non sapremo mai se M.J. avrebbe potuto fare lo stesso senza Scottie.

Scossi da questo grande dubbio (e dal ritorno di fiamma di un argomento sempre più caldeggiato, quale il paragone Bryant-Jordan), ci interessa pure l'opinione del Postino sul medesimo argomento.

Lui che si è dovuto aggregare, quarantenne, proprio all'accoppiata Kobe-Shaq, perché per colpa di Jordan-Pippen venne vanificato ogni tentativo di Stockton-Malone. E mentre The Mailman non ce l'avrebbe mai fatta, l'altra aggiunta di lusso a quei Lakers, alias Payton Gary, ci sarebbe riuscito in maglia Heat.

Chiediamo scusa a Rodman e Hornacek, a Russell e Toni Kukoc, ma non si può non ragionare in termini di "duo". E nel celebrare la consacrazione di un duo di storici rivali, accomunati, guarda caso, dal Dream Team, ci divertiamo a trovare, nelle carriere di ognuno, qualche piccola imperfezione: con immenso sforzo, giacché entrambi hanno rasentato l'assoluto.

Prima di cominciare, qualche intreccio curioso: parliamo di due nazionali, di due plurifinalisti, di due MVP dell'All Star Game, di due che hanno giocato 200 partite di post-season a testa (193 Karl, 208 Scottie), di due da primo quintetto assoluto e da primo quintetto difensivo. Di due da più di 100 milioni di dollari di salario complessivo.

A Malone si può rimproverare non tanto la mancanza di anelli (non è da questi particolari che si giudica un giocatore - cit.), quanto l'ultimo anno di carriera. Per la prima volta dal 1985, nel 2003-'04 Karl cambiò squadra e numero di maglia (da uno storico 32 Jazz ad un insignificante 11 Lakers).

Per la prima volta saltò più di due partite in una regular, perdendone addirittura quaranta; soprattutto, ebbe la media punti più bassa della carriera, facendo peggio del suo anno da rookie e scendendo sotto il ventello dopo 17 stagioni. E, ancora, giocò un anno in più rispetto a John Stockton, senza riuscire ad adornare il proprio anulare.

Quanto a Pippen, il periodo post-jordaniano è stato pieno di alti e bassi. Il 33 è stato un giramondo, capendo che la Eastern non era più la Conference di riferimento. E così abbiamo, nell'ordine: Houston nell'anno del lockout (senza anelli); i Blazers migliori di sempre, dal 1999 al 2003, con il grave smacco delle Finali di Western del 2000 (contro chi persero, è storia nota"), e ancora senza anelli.

Per fortuna, la redenzione finale è sopraggiunta in concomitanza con l'ultimo, romanticissimo, ritorno ai Bulls nel 2003-'04. Poi il ritiro, di Scottie, e di Karl.

Tant'è. E, credeteci, nulla è mai stato più difficile di questa "caccia ai difetti": è, semplicemente, impossibile.

CYNTHIA COOPER & MACIEL PEREIRA
Prima le signore, seguendo una prassi cavalleresca che non cade mai in disuso.
Madame Cooper è un'istituzione del basket al femminile; medagliata con gli U.S.A. in tutte le competizioni, con ori mondiali, olimpici e ai giochi panamericani, i suoi record nella WNBA hanno avuto vita breve a causa della giovane età  della Lega per signore.

Niente da dire: grande alla high school, grande al college, grande in Europa (Spagna e Italia), così come nella WNBA. Per Lisa Leslie, Tina Thompson e Sheryl Swoopes ci sarà  tempo; per la Cooper la Hall of Fame non poteva attendere.

Analogamente, l'apertura della "bacheca" ai vari Meneghin o Drazen Petrovic, ci impone di elogiare la grandiosa carriera di Maciel "Ubiratan" Pereira, star indiscussa del basket brasiliano ed internazionale: probabilmente il più grande pivot verdeoro di sempre.

Per lui un solo dato, che esula dagli innumerevoli successi ottenuti a livello di club: in sedici anni di nazionale, otto medaglie, dall'oro casalingo ai mondiali del 1963, al bronzo di San Juan, ai Panamericani del 1979.

In attesa che per Chris Mullin (Laettner è, purtroppo per lui, tutt'altra cosa) venga fatta giustizia, la Hall of Fame vede ora il prossimo traguardo: quello dei quattrocento.

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