Negli ultimi Playoff, Nash è finalmente riuscito a sconfiggere gli Spurs…
Dei Play-Off NBA si ricordano le grandi sfide tra squadre, le grandi prestazioni individuali, le giocate decisive e, soprattutto, le squadre che sono arrivate in fondo e hanno disputato le Finali. Comprensibile: vincere un titolo è il sogno di ogni giocatore, di ogni allenatore, di ogni tifoso e, in generale, di qualunque persona che è legata da un qualsiasi vincolo a quella o a quell'altra squadra.
Spesso si sente dire dagli addetti ai lavori che i giocatori non sono interessati al successo della propria squadra, o almeno che non sono interessati di più al successo della propria squadra rispetto al loro successo, al successo individuale.
E' per questo che spesso notiamo un'esasperante rincorsa alle grandi statistiche, ai grandi numeri che assicurano contratti lunghi e milionari, grazie ai quali un ragazzo che gioca nel basket americano potrà dire: "Visto? Ce l'ho fatta!".
In parte è vero. I giocatori sono professionisti, e in quanto tali cercano di ricavare il massimo profitto economico dalle loro prestazioni. Ma, d'altra parte, ognuno di loro sogna di provare la gioia per una vittoria finale, tanto è vero che si sprecano gli esempi di stelle che, trovandosi a fine carriera, rinunciano a molti dollari pur di infilarsi il tanto agognato anello al dito. Per concludere degnamente la storia della propria carriera NBA.
Ma la storia non viene scritta solo da chi vince un anello, e gli stessi Play-Off che sono l'evento principale del basket americano non raccontano soltanto la storia relativa alla squadra che vince il titolo, e alle persone che in quella squadra ci lavorano.
Noi cercheremo di raccontarvi cosa ci rimarrà di questa post-season negli anni a venire, raccontando eventi, storie di personaggi e di squadre che per un motivo o per l'altro si sono distinte in questi elettrizzanti due mesi.
Nash e i Suns abbattono la maledizione-Spurs!
Steve Nash, playmaker dei Phoenix Suns, è uno dei più forti giocatori ad aver calcato i parquet di tutta America senza aver mai vinto un titolo. A volte la squadra intorno a lui non era all'altezza, a volte la sfortuna ci si è messa di mezzo, a volte gli avversari erano troppo più forti.
Ebbene, nessun avversario ha dato a Nash più delusioni dei San Antonio Spurs. Ogni volta che il canadese vedeva di fronte a sé gli uomini vestiti di nero-argento, non riusciva mai a sopraffarli. Questa maledizione è durata per un decennio: un decennio durante il quale gli Spurs hanno eliminato il canadese dei Play-Off per ben 5 volte (2001-2003-2005-2007-2008).
Non solo. Nel 2003 (quando giocava a Dallas), nel 2005 e nel 2007 (quando giocava a Phoenix) Steve militava in squadre che avevano la concreta possibilità di arrivare in fondo e vincere l'anello, se non fosse stato per i suoi acerrimi rivali, pronti a sbarrargli la strada sul più bello.
Nonostante tutto, Nash non si è mai dato per vinto e ha sempre giocato al massimo, mostrando una caparbietà ed un amore per questo sport veramente incredibili. Memorabile il suo abbraccio con Tim Duncan alla fine di Gara-6 del 2007, con il canadese che gli sussurrò all'orecchio: "mi raccomando, ora devi vincerne un altro (anello, ndr)".
In questi Play-Off la maledizione è finalmente finita. I Suns non si sono accontentati di eliminare gli Spurs, ma gli hanno addirittura rifilato un 4 a 0 che non ammette repliche, grazie al proprio gioco spumeggiante e ad un pizzico di organizzazione difensiva in più rispetto agli anni (e alle sconfitte) precedenti. Oltre al solito, grande numero 13 ovviamente, il quale ha giocato una delle migliori serie nella sua carriera.
Le cifre, in questo caso illustrative, recitano: 22 punti, 8 assist, 4.5 rimbalzi e il 55% dal campo. Una bella rivincita per lui, che a 36 anni dimostra di avere la stessa professionalità e lo stesso spirito di qualche anno fa, quando venne premiato con il trofeo di MVP per due volte di seguito.
Thunder, il primo ballo… di una lunga serie
Nessuna squadra, ad oggi, ha un potenziale migliore degli Oklahoma City Thunder. Questi ragazzi hanno disputato una regular season stupenda (50 vittorie contro le 23 di un anno fa!) e degli ottimi Play-Off, riuscendo in un solo anno a dare un segnale di forza davvero molto importante, e che nessuno sottovaluterà .
I giocatori di talento sono molti, e sono giovani: da Russel Westbrook a James Harden, da Jeff Green a Thabo Sefolosha, passando naturalmente per la stella, Kevin Durant. In un collettivo di questo tipo, il rischio è che si faccia fatica a scegliere un leader…o meglio, c'è il rischio che egli non venga accettato dagli altri in quanto tale.
Ad Oklahoma City questo problema è già stato risolto. Tutti riconoscono in Durant il leader, sia dal punto di vista tecnico che emotivo. Il gruppo è affiatato, la voglia di fare c'è, e anche l'allenatore Scott Brooks sembra in grado di gestire le forze a disposizione.
Alla vigilia della prima post-season nella storia della franchigia, c'era grande attesa da parte di tutti gli addetti ai lavori. Avversario peggiore non poteva capitare: i Los Angeles Lakers, campioni in carica e di lì a poco di nuovo campioni.
Incuranti del fatto di avere di fronte a loro la migliore squadra della Lega, i Thunder hanno giocato alla grande, mettendo in serissima difficoltà i propri avversari. Los Angeles vince le prime due gare in casa, Oklahoma City risponde con due vittorie di fronte al proprio pubblico (da brividi, ogni spettatore è rimasto in piedi per tutto il tempo di gioco con una maglietta blu addosso, sulla quale c'era scritto "rise together", ovvero "cresciamo insieme").
Gara-5 è lo spartiacque della serie, e i Lakers non perdonano. Vittoria schiacciante, con 24 punti di scarto. Ma i Thunder non si arrendono e rischiano di forzare Gara-7, se non fosse per una disattenzione difensiva che porta Gasol ad infilare il lay-up del 95 a 94 con un secondo sul cronometro, regalando ai losangelini il passaggio del turno.
Era solo il primo ballo, la musica si è fermata presto, ma per quel poco che si è visto questi ragazzi ci faranno divertire negli anni a venire…
Il terremoto-LeBron
No, non ci riferiamo alle scosse provocate dalle terrificanti schiacciate che LeBron James mette continuamente a segno. Ci riferiamo ad uno degli avvenimenti più importanti degli ultimi anni a livello sportivo, ovvero l'uscita di scena del "Prescelto" quando tutti gli indizi portavano a pensare che questo sarebbe stato l'anno della sua incoronazione.
E invece no. James si è trovato di fronte una squadra difensivamente fortissima e per il quarto anno di fila è partito come uno dei favoriti (se non come IL favorito) per alzare il Larry O'Brien Trophy ma ha fallito.
In origine furono gli Spurs: correva il 2007, l'asso dei Cleveland Cavaliers giocò la prima, e finora unica, Finale della propria carriera, ma non potè nulla contro una squadra più forte e più solida. 4 a 0 e tutti a casa.
Nel 2008 fu la volta dei Boston Celtics: in pochi lo sottolineano, ma uscire sconfitto in 7 gare da quella serie fu un durissimo colpo per il numero 23. Lui ce la mise tutta, certo venne messo in difficoltà ma stava per riuscirgli il colpaccio. I Celtics vinceranno di misura Gara-7 e andranno dritti verso la vittoria del titolo.
Arriviamo così al 2009: anno nuovo, muro nuovo. Stavolta sono gli Orlando Magic a presiedere il posto di blocco, e nonostante il trofeo di MVP, le 66 vittorie in stagione regolare e un eloquente 8 a 0 nei primi due turni di Play-Off, i Cavaliers vengono sconfitti 4 a 2.
Finalmente siamo ai giorni nostri, ma non sembra cambiato nulla rispetto a un anno fa. Secondo trofeo di MVP in bacheca, 61 vittorie in una strepitosa stagione regolare, 4 a 1 contro i Chicago Bulls nel primo turno di post-season.
Nel secondo turno, però, la musica cambia. I Boston Celtics, ancora loro, vanno sotto per 1 a 0, poi per 2 a 1, ma alla fine portano a casa la serie per 4 a 2. Cosa è successo? Che LeBron ha deluso. Per larghi tratti si estranea dalle azioni, il tiro va e viene, e malgrado le infinite opzioni offensive e difensive la sconfitta arriva inesorabile.
Nessuno in America si aspettava un epilogo di questo tipo, e nonostante le eliminazioni degli anni precedenti nessuna è stata più cocente rispetto a quella di quest'anno. Adesso LeBron non avrà davvero più scuse: dovrà guardare il passato, rendersi conto di non essere ancora un leader e trarne le conseguenze.
Il suo talento è devastante, e non c'è cosa che non sappia fare su un campo da basket. Non ha ancora raggiunto la piena maturità , ma rischia di non raggiungerla mai se non incontrerà l'allenatore giusto.
Prendete le squadre che hanno vinto il titolo negli ultimi 15 anni, e guardate chi sono i loro allenatori: Pat Riley, Phil Jackson, Gregg Popovich, Doc Rivers e Larry Brown. Grandiosi conoscitori di basket, ma anche motivatori eccezionali, uomini che sanno reggere la pressione ed hanno capito cosa serve per vincere in questo sport.
Intendiamoci, Mike Brown ha allenato i Cavaliers in modo egregio in questi ultimi anni. Ma non ha il carisma dei suoi colleghi, non sa accentrare l'attenzione su di sé e non riesce ad essere un motivatore. Proprio ciò di cui ha bisogno LeBron…come diceva una pubblicità di qualche anno fa, "la potenza è nulla senza controllo".
Finalmente, Jamal!
Prima di questi play-off, Jamal Crawford veniva considerato come il giocatore più forte, tra quelli che giocano in NBA da almeno 5 anni, a non aver mai disputato una singola gara di post-season.
Questa considerazione è sicuramente giusta: Crawford è una guardia che si sa far valere soprattutto in fase offensiva, dotato di un buon tiro dalla media e anche dal perimetro, oltre ad un ottimo trattamento della palla. Insomma, il classico realizzatore, che sa portare punti alla propria squadra grazie alle sue doti balistiche e al suo istinto.
Fin qui i pregi. I difetti, invece, consistono nel fatto di non saper fare altre cose in modo incisivo. E' un discreto scippatore di palloni, ma non è un buon difensore né un buon passatore, e spesso l'istintività lo porta a prendere decisioni sconclusionate anche in attacco.
Dopo aver militato 4 anni a Chicago, altrettanti a New York ed uno a Golden State, Jamal è approdato agli Atlanta Hawks in cambio di Acie Law e Speedy Claxton.
Fin da subito coach Mike Woodson lo ha utilizzato nel ruolo di sesto uomo, dal momento che nel ruolo di guardia agiva la stella della squadra, Joe Johnson. E Crawford, dal canto suo, nella regular season ha risposto alla grande, partendo dalla panchina in tutte e 79 le partite disputate, con il compito di assicurare punti e potenziale offensivo ai propri compagni.
Gli Hawks sono una squadra che si sposa molto bene con le sue caratteristiche, visto che giocano in velocità e prediligono un basket essenzialmente offensivo. A corollario di questo matrimonio, è arrivato il meritato premio di Sesto Uomo dell'anno da parte della NBA.
Nei Play-Off, però, Jamal ha sofferto di più rispetto alla stagione regolare, come tutta la sua squadra. Nel primo turno, infatti, Atlanta ha battuto i Milwaukee Bucks a fatica (4-3), mentre nel secondo turno è stata spazzata via dagli Orlando Magic, perdendo 4 partite su 4 con uno scarto medio di 25 punti a favore degli avversari!
Tuttavia, a 30 anni Crawford potrà dire di essersi finalmente tolto la soddisfazione di giocare 11 gare di post-season, di aver passato una serie e di aver messo a segno anche delle buone prestazioni. In particolar modo, nella serie contro i Bucks, si è distinto nella sconfitta di Gara-4 (con 21 punti e un buon 6 su 12 al tiro), e nelle vittorie di Gara-6 (24 punti realizzati) e Gara-7 (22 più 6 assist).
Vedremo come si evolverà la sua carriera, ma i presupposti per essere ancora protagonista nei play-off ci sono tutti.
L'esplosione di Rondo
In parte questa storia è collegata a quella di LeBron. Solo in parte, però, perchè Rajon Rondo sta dimostrando qualcosa in più anche rispetto alla serie giocata contro i Cavaliers, che lo ha visto indiscusso protagonista, nonché pronto ad attirare i riflettori su di sé e sul suo gioco fatto di corsa, atletismo ma anche di intelligenza e di letture.
Se Garnett, Pierce e Allen stanno giocando in modo davvero ottimo, considerando l'età non più giovane (102 anni in 3), il merito è anche di Rondo, il quale sia in difesa che in attacco dà loro una mano, rendendo più facile il compito.
Le caratteristiche di questo 24enne playmaker le conoscete tutti. Ciò che colpisce è il suo percorso di maturazione, che è iniziato nel suo primo anno nella Lega datato 2006 e continua ancora oggi. Allora parlavamo di un ragazzo alle prime armi, che ha sfruttato i primi 12 mesi per capire dove era capitato.
L'anno dopo arrivarono Garnett e Allen, e i Celtics diventarono di colpo una seria contender. Merito anche di Rondo, che al suo secondo anno nella NBA ricoprì con intelligenza il delicatissimo ruolo di playmaker, dissipando tutti i dubbi che si erano venuti a creare nei suoi confronti.
Nel 2009, con Garnett infortunato per tutti i Play-Off, il numero 9 bianco-verde si caricò la squadra sulle spalle e mise su diverse triple doppie. Risultato? 14 partite giocate con delle medie mostruose, che recitavano 17 punti, 9.8 assist e 9.7 rimbalzi. Roba da Oscar Robertson!
Quello sembrò essere l'apice della sua carriera, un apice difficile da raggiungere nuovamente. E invece, quest'anno Rondo è riuscito a fare ancora meglio, calando nelle cifre ma aumentando a dismisura la sua leadership all'interno della squadra, da lui guidata verso le memorabili Finals concluse da poco, in cui Boston si è arresa solo a Gara-7.
La serie contro i Cavaliers, al secondo turno, è stata per lui memorabile. In quelle sei partite è risultato la chiave per scardinare la difesa avversaria, fornendo comunque un prezioso contributo in difesa. A corollario, una Gara-4 da fenomeno: 29 punti, 18 rimbalzi e 13 assist per una prestazione da urlo.
Oggi, e in futuro, è lui l'uomo destinato ad essere il trascinatore dei Celtics, e gli stessi Big Three hanno ammesso che "all'inizio neanche noi gli davamo un grande credito, ma poi ha dimostrato con le parole e coi fatti di essere un vero campione. Per noi è giunta l'ora di farci da parte e di dargli maggiormente retta!" Se non è un'investitura questa…
Continua…