Sabato 19 Giugno, al University of Virginia Hospital di Charlottesville, si spegneva la vita di Manute Bol, 47 anni.
Di origini sudanesi, Bol era ricoverato da circa un mese, e versava in gravi condizioni a causa di un'insufficienza renale legata alla sindrome di Stevens-Johnson, dolorosa malattia della pelle che porta alla corposa perdita di brandelli di derma.
La situazione era peggiorata nelle ore successive al suo rientro dall'ennesimo viaggio in Sudan, dove la malattia lo aveva colpito, e dove si trovava per usare la sua popolarità a favore di un corretto svolgimento delle elezioni politiche.
Durante il ricovero, la pelle attorno alla bocca di Bol era così danneggiata da rendere vano ogni suo tentativo di parlare e di nutrirsi.
Al di là delle orrende circostanze della sua morte, però, Manute Bol non era e non potrà mai essere considerato una persona qualunque.
Non solo per le nove stagioni trascorse nella National Basketball Association; e non solo per i suoi duecentotrentuno centimetri, che abbinati ai centodue chilogrammi di peso ne facevano una delle figure più riconoscibili ed indimenticabili della storia della pallacanestro.
Anzi. A dispetto dell'altezza, il suo nome non resterà negli annali della lega quale giocatore professionista più alto di sempre, superato nel 1993 dal romeno Gheorghe Muresan.
Suoi, in coabiltazione, alcuni primati legati alle stoppate inferte in un singolo quarto o in metà partita; suo il singolarissimo record di aver chiuso la carriera con un maggior numero di blocked shots inferti piuttosto che di punti realizzati.
Nessun anello al dito, mai oltre la misera cifra di quattro punti a partita; il solo riconoscimento ufficiale resta un secondo quintetto difensivo del suo anno da rookie, quel 1986 trascorso con i colori dei Washington Bullets e chiuso con 5.0 stoppate a partita. Record tutt'ora imbattuto per una matricola.
Ad una discreta stagione di esordio nella capitale ne seguirono altre due tutt'altro che dispezzabili, prima di essere ceduto, nell'estate del 1988, ai Golden State Warriors.
Fu nel suo primo anno a Oakland che si auto-convinse di avere uno spiccato talento per il tiro da tre. Il fatto, unito al suo carattere giocoso ed alla sua fama di burlone dello spogliatoio, ne fecero ben presto un beniamino dei tifosi della baia, e pur essendo in possesso di una tecnica di tiro a dir poco rivedibile, ci si rese presto conto che la sua convinzione non era del tutto campata in aria.
Ad ogni tripla messa a segno, la Oakland Arena esplodeva.
Ceduto a Philadelphia dopo due sole stagioni da Warrior, Bol iniziò la sua avventura nella città dell'amore fraterno con l'incoraggiante quota di 82 partite giocate, salvo poi piegarsi forzatamente ad un inaspettato e prematuro declino fisico e tecnico.
Fu sul chiudersi della sua terza ed ultima stagione a Philly che Bol scrisse uno degli []highlight più entusiasmanti della sua carriera, realizzando sei delle dodici triple tentate in un incontro con i Phoenix Suns del suo ex compagno e grande amico Charles Barkley.
Nel 1993, lasciata Philadelphia, la sua carriera precipitò: in un anno toccò Miami, nuovamente Washington e nuovamente Philadelphia, scendendo in campo complessivamente per 14 misere partite.
La stagione successiva, la 1994/1995, la iniziò iscritto al roster dei suoi Golden State Warriors, per i quali vestì la casacca numero 1 nell'esplicito intento di imporsi come rimbalzista e stoppatore più dominante della NBA.
Una missione interrotta tristemente il 22 Novembre del 1994, quando, contro i Charlotte Hornets, l'ultimo grave infortunio della sua storia, scrisse la parola fine alla sua incredibile avventura nella lega.
A dispetto del suo indubbio status di VIP, però, l'origine della straordinarietà di Bol non dev'essere cercata nelle nude cifre o nei riconoscimenti. Bol è sempre stato ben lontano dall'essere uno straordinario giocatore; Manute Bol era e rimarrà sempre una persona straordinaria. Un dono.
Perché è questo che signfica il suo nome, Manute: special blessing.
Un uomo capace di mettere da parte il proprio orgoglio e la propria reputazione pur di raccogliere fondi per la sua terra natia. Quel Sudan lacerato da anni di guerre civili, di rappresaglie e violenze inimmaginabili, quel Sudan che Bol ha sempre portato nel suo cuore e non ha mai dimenticato.
Esempi lampanti di tanta dedizione possono essere le sue brevi e, da un certo punto di vista, imbarazzanti esperienze con i guantoni da boxeur e sui ghiacci delle leghe minori di hockey.
Nel primo caso, Bol partecipò nel 2002 ad un incontro di pugilato per celebrità trasmesso da Fox TV, la quale, in cambio, diede visibilità alla Ring True Foundation, un'associazione da lui fondata che si prendeva cura dei bambini nel Sudan meridionale e nella quale aveva investito buona parte dei suoi guadagni.
Bol sconfisse in tre round l'ex defensive tackle di Bears e Eagles William "The Refrigerator" Perry, e donò i 35 mila dollari di premio alla sua associazione.
Nell'autunno dello stesso anno, senza aver mai infilato un alluce in un pattino da hockey, Bol firmò un contratto con gli Indianapolis Ice della Central Hockey League, attratto dall'offerta che il GM Larry Linde gli aveva proposto dopo aver letto delle cattive acque finanziarie in cui navigava l'ex centro NBA.
Bol non posò mai le sue lame sui ghiacci della CHL, ma anche in questo caso la sua comparsata regalò insperata visibilità alla Ring True.
"Alcune persone erano in imbarazzo di fronte a questi avvenimenti", ricorda Tom Pritchard, direttore di Sudan Sunrise, un'associazione che promuove tutt'ora la riconciliazione nel nord del paese, "Ma quando ci si ripensa, diventano gesti eroici. Manute era un uomo disposto ad umiliare sé stesso pur di ottenere un minimo aiuto per la sua gente".
Un uomo la cui grandezza fisica e spirituale andavano di pari passo, una grandezza che solo in parte viene riassunta dalle parole pronunciate il 29 Giugno scorso nella Washington National Cathedral dal senatore Sam Brownback: "Manute ha letteralmente dato la vita per il suo popolo. E' andato in Sudan quando era malato, e ci è rimasto più di quanto avrebbe dovuto, contraendo il disturbo che gli ha poi tolto la vita. Era un giocatore della NBA, sarebbe potuto restare negli Stati Uniti e vivere una vita facile. Non ho mai visto nessuno usare così tanto il proprio status di celebrità , o dedicare maggiormente la propria vita ad un popolo, più di quanto abbia fatto Manute Bol. Questo mi fa guardare ai miei sforzi come se non fossero sufficienti".