C’era una volta un Re

LBJ se la ride, contento lui…

Diciamo la verita': ho passato la quarantina, mi avvio verso il trentennale da che seguo l'NBA e sono quindi titolare di una discreta memoria storica. Ma una notte come quella da poco trascorsa non l'avevo mai vissuta.

Ci ho provato in mille modi a cercare un precedente: figlio prediletto di una localita', orgoglio di una comunita', volto mediatico di uno sport, che un giorno, nel pieno della propria maturita fisica e tecnica, decide di lasciare “casa” e andare a portare il verbo del suo gioco altrove.

Alle 4 di stamane mi dico “Ce l'ho: Wayne Gretzky, il figlio di ogni mamma canadese, il piu' grande di tutti, che nel 1988 sciocca una nazione, sorprende il mondo e dice che giochera' a Los Angeles”.

Funziona QUASI tutto, nel paragone, tranne che per QUALCHE particolare: The Great One ha gia' 4 Stanley Cup in carniere, e va a giocare in un posto che, hockeisticamente parlando, rappresenta lo zero assoluto. Praticamente un atto di fede, ancorche' profumatamente pagato.

E, per la correttezza storica, si tratto' di una trade orchestrata tra proprietari, e non di una scelta da parte di una superstar libera di scegliersi la destinazione:

Se ne avete voglia, potete recuperare su Youtube le immagini, se vogliamo piuttosto toccanti nel loro contesto, in cui The Great One non e' neanche in grado di ultimare la conferenza stampa.

Per contro, dato che anche ieri ad Edmonton, come oggi a Cleveland, bisognava trovare un colpevole, questi venne immediatamente identificato nell'Owner della franchigia, tale Peter Pocklington, che fu letteralmente bruciato (anche se in forma di pupazzo) sulla pubblica piazza.
Il paragone quindi, regge sempre meno.

E allora lascio stare queste amenita' e vengo subito al dunque.
Nell'immediato dopo-eliminazione in questi playoff, ad opera dei simpatici vecchietti in biancoverde, avevo identificato la scelta di accasarsi agli Heat come quella piu' “facile”, considerando che il matrimonio James-Wade avrebbe consentito ai due di accorciare la distanza verso il titolo NBA. Chris Bosh doveva ancora arrivare.

Ben piu' affascinanti, soprattutto perche' piu' ricche di ostacoli e difficolta', sarebbero state le destinazioni di New York (la mia preferita), Chicago oppure la permanenza a Cleveland, dove in tanti si auguravano che il Prescelto restasse.

Nell'ultima settimana confesso di essere stato uno dei tanti che han frequentato i vari siti di “calciomercato NBA”, nei quali si e' letto tutto ed il contrario di tutto.

Dalle amicizie con i rapper, alla vicinanza a casa, alla possibilita' di vedere da vicino la propria squadra di baseball del cuore, tutto e' stato utilizzato come chiave di lettura per capire dove sarebbe approdato il free agent piu' concupito della storia.

Ma niente al confronto di quanto e' successo a partire dal 1 luglio, quando la stagione della caccia si e' aperta ufficialmente.

A corollario di alcune firme di giocatori non di primissimo piano, a cifre folli (Atlanta ha dato a Joe Johnson anche la formula della Coca Cola…) 6 dirigenze NBA hanno pensato bene di salire in macchina per dirigersi ad Akron Ohio, nella residenza del Re.

Obiettivo: convincere il Re che alla loro squadra mancasse solo un Lebron James per diventare lo spauracchio della Lega, il team destinato a dettare legge.

Ora, non so voi, ma io ho provato ad immaginarmi le scene.
A parte il calendario modello “chirurgo plastico di chiara fama” che riceve: i Nets dalle 9 alle 10:30, i Clippers dalle 10:30 alle 12, poi pausa pranzo con caffe' pasticcini, poi si riprende con il pomeriggio, i Knicks dalle 14:30 alle 16 e si chiude con Miami.

Inoltre, come vi immaginate si saranno svolte le presentazioni?
Power Point e lavagna luminosa, con un Riley che fa la demo di Miami, l'aiuto GM al PC che passa le slides e, se qualcosa va storto, bisogna riavviare il laptop ed inventarsi qualcosa per ingannare l'attesa e dissimulare il nervosismo.

Oppure, e qui aiuterebbe aver partecipato a qualcuna delle imperdibili dimostrazioni di pentole, cosmetici, Tupperware, Folletto o quant'altro, una fantasmagorica demo nel salotto di casa.

Frasi come “siamo una famiglia, vieni da noi che ti divertirai, l'Arena nuova a Brooklin/la spiaggia di Miami/la statua di MJ a Chicago/il fascino del Madison”. E Lebron che ascolta, fa si con la testa, chiede se l'Arena di Brooklin puo' andare nel microonde, si informa se la crema per la pelle di Miami va bene anche per le scottature, se le Pentole dei Knicks cucinano senza olio e senza grassi, o se il sacchetto dell'aspirapolvere di Cleveland puo' essere tolto anche tenendo l'elettrodomestico acceso.

Una scena un po' triste? Sono d'accordo.
Ma tutti questi venditori di loro stessi, dai Riley agli Walsh, avranno pensato che valesse la pena rendersi un pochino ridicoli per avere i servigi del Re.

Gia', il Re. Ma come decide un Re?
Un Re si consulta coi suoi, ascolta, incamera informazioni, ma poi decide da solo, e tendenzialmente non si trasferisce in regni altrui, altrimenti non e' piu' Re.

Tutti quanti, o almeno tanti di noi, abbiamo pensato che qualunque scelta avrebbe fatto James, lui sarebbe continuato ad essere il Re, del suo vecchio Regno a Clevenland, o di qualche altra Landa. Avrebbe anche accettato di avvalersi dei servigi di Bosh, che Re non e' mai stato e mai lo sara', se non di contesti non vincenti come quando evoluiva in Canada.

Ci sono pochissimi posti in cui uno come Lebron deve concedere almeno una parte del proscenio ad altri protagonisti: uno di questi posti e' proprio Miami.

Quella e' la casa di Wade.
Wade ha fatto da Robin quando Shaq faceva Batman, ma nelle finali della consacrazione (2006) aveva gia' avvisato il mondo che quella era casa sua. Che quello sarebbe stato il suo Regno per il tempo che lui avrebbe deciso di regnare. E per questo, soprattutto per questo, molti di noi non credevano al fatto che un tizio con l'Ego proporzionale al talento come Mr James avrebbe accettato di vedere il proprio nome citato per secondo all'interno del cartellone dello spettacolo.

Nessuno avrebbe ritenuto possibile che, nel 1990, un Micheal Jordan disperato per un titolo che non arrivava, avrebbe accettato di trasferirsi ai Lakers di Magic.

Probabilmente non sarebbe piaciuto a David Stern, perche' questo avrebbe “ucciso” i Bulls, e due Star assolute come Magic e MJ avrebbero finito per fare troppa luce a Los Angeles, creando un contrasto stridente con il buio di altre lande.

Ma io sono io, e Lebron James ha una testa diversa.
Io non sono Prescelto, non ho ancora 10 anni di carriera nei quali devo vincere almeno 5 titoli per provare al mondo che non sono “chiacchiera e distintivo”.

Non ho appena finito una stagione regolare trionfale a Cleveland, buttando tutto nello sciacquone contro una manica di vecchi bucanieri, che hanno messo a nudo la pochezza dei miei compagni e l'incapacita' mia a gestire il mio smisurato talento e la coesistenza con compagni che non possono starmi al passo ma che sono vitali per farmi vincere.

Io non ho un tassametro che corre inesorabile, un ghigno, quello di Kobe e dei suoi 5 titoli, che mi sveglia nel cuore della notte e mi sussurra che gli MVP passano, quello che resta sono gli anelli, ed io sono ancora a zero.

Che mentre il partito di “chi e' meglio tra me e lui” discute, lui gioca tre finali di fila, ne vince due, si permette pure di non giocare al meglio una fondamentale gara 7 ma alza trofei, mentre io devo mettere i baffi anche ai lattanti per superare 2 turni, anche meno.

Io sono solo io, e posso pure ragionare di “sfide affascinanti”, di “decisioni coraggiose”, di “essere grati alla propria franchigia”. La realta' e' assai meno poetica. Kobe ha 6 anni piu' di Lebron, 5 titoli in piu' ed una squadra che, al momento in cui scrivo, e' la chiara favorita per il prossimo titolo.

James queste cose le sa molto meglio di me, ed in questi anni ha maturato un paio di convinzioni. La prima e' che neanche lui puo' vincere da solo, come tutti quelli che sono venuti prima di lui. La seconda e' che e' meglio affidarsi a chi sa come si vince, altrimenti si rischia di perdere del gran tempo.

Queste, in buona sostanza, mi sembrano le molle che hanno spinto Lebron ad abbracciare gli Heat. Credo sia una decisione che gli e' costata e gli costera' moltissimo.

In termini di sentimenti (e' la prima volta che non gioca nel cortile di casa sua), in termini di ego (almeno inizialmente non sara' la sua squadra) in termini di percezione della sua bravura presso il pubblico (e' una decisione “umana”, ma non certo da “onnipotente”) e gli costera' anche nel beneaugurato caso in cui gli Heat porteranno a casa dell'argenteria.

In buona sostanza, “The decision”, intesa come materiale per discussioni estive, ha pienamente mantenuto le attese.

Mr. James, adesso tocca nuovamente a Lei.
Apprezzo il Suo non eccessivo attaccamento al dollaro, ma percepisco la Sua mossa come una (legittima) scorciatoia.

E' un'arma a doppio taglio questa: potrebbe averLe accorciato la strada verso il titolo NBA.

Ma se cercava la gloria, se voleva sedersi al tavolo dei grandissimi del gioco, se voleva essere citato in quelle splendide e sterili discussioni su “chi e' il piu' grande di tutti”, beh, allora avrebbe potuto fare di meglio. Molto di meglio……

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