A suo parere, non ha mai commesso un singolo fallo in carriera….
Di giocatori in grado di produrre per più di una stagione più di 100 triple e più di 100 stoppate, non ne nascono molti, anche all'interno della Lega più competitiva della Terra.
E quando dico "non ne nascono molti", significa che in questa particolare categoria statistica, in quasi 70 anni di storia, la National Basketball Association ne annovera soltanto uno.
Se poi consideriamo che il soggetto in questione è un misto di pazzia, ira, arroganza (cestistica), talento e strafottenza, ci rendiamo conto di essere di fronte ad un uomo davvero particolare, unico nel suo modo di affrontare la vita ed in particolare il campo di gioco.
È giunta in questi giorni la notizia del ritiro della personalità più controversa degli ultimi anni di NBA, Rasheed Wallace.
Croce e delizia per gli amanti del gioco, non ha mai lasciato nessuno indifferente. O lo si adora per l'innata classe ed eleganza, fornito di talmente tanto talento da potersi permettere di dominare in assolo una gara -7 di finale, oppure lo si detesta, lo si colpevolizza e biasima, per il troppo tempo sprecato a rincorrere arbitri che fischiano contro di lui alla prima occasione utile, per le numerose nefandezze compiute, anche al di fuori del palazzetto.
A malincuore, mi devo inserire nella prima schiera.
Dico a malincuore, perché nonostante non possa dimenticare i primi possessi dell'ultima gara delle Finals, in cui ha portato letteralmente "a scuola" il miglior lungo della Lega nelle due fasi del gioco in questo momento storico, stampandogli in fronte due "bank-shot" da manuale della pallacanestro, non posso non pensare cosa avrebbe potuto (e dovuto) fare negli anni più fulgidi della sua carriera, nei momenti in cui non si limitava ad essere un fattore decisivo unicamente con la sua immensa saggezza cestistica, ma anche attraverso un fisico atletico e possente, costruito da Madre Natura con il preciso scopo di dominare sotto canestro.
Sheed ha mosso i primi passi nella pallacanestro nel liceo della sua città , la Simon Gratz High School.
Si dimostrò, oltre che un eccellente giocatore, anche un atleta completo, eccellendo nella specialità dei 400 metri nella corsa. Al momento di scegliere in quale università andare, tutti i college più prestigiosi fecero a gara per accaparrarselo, ma rimase folgorato dall'allenatore di North Carolina, Dean Smith, che promise di fare di lui un giocatore completo e dominante.
Così accadde, e dopo un primo anno discreto, esplose completamente nella stagione da sophomore dove, a fianco del compagno Jerry Stackhouse, portò i Tar Hells alle Final Four, stabilendo il record di stoppate (93) in una singola stagione nella ACC.
Nel '95 decise di rendersi eleggibile al draft, in cui venne chiamato con la quarta scelta assoluta dagli Washington Bullets, che però annoveravano già tra le loro fila Webber ed Howard: così dopo un primo anno di transizione, concluso comunque in doppia cifra per punti (10,1 ppg) e 4,7 rpg, venne spedito ai Blazers, in cambio di Strickland e Grant.
Qui iniziò la sua reale ascesa: chiuse la stagione '96-'97 con 15,1 ppg e 6,8 rpg, costretto a saltare due mesi di stagione regolare a causa di un'operazione, che lo portò a disputare solo 62 partite. Nei due anni successivi vide calare leggermente le sue medie, non riuscendo ad incidere come era capace perché partiva spesso dalla panchina, come sesto uomo.
La stagione '99-'00 è quella della sua definitiva consacrazione: 81 partite giocate, di cui 77 in quintetto, miglior media punti (16,4 ppg) e rimbalzi (7 rpg) sino a quel momento, nonché epica cavalcata nei Play-Off, prima di infrangere tutti i sogni di gloria di un'intera città in gara 7 contro degli imbattibili Lakers (lo spin-lob più famoso degli ultimi 10 anni di NBA).
Nelle annate successive, i numeri di Wallace aumentarono considerevolmente e si diffuse in tutta la Lega una generale presa di coscienza di essere di fronte ad uno dei più grandi talenti della NBA di quegli anni.
Unico giocatore in grado di tenere in "single-coverage" ali grandi del calibro di Duncan e Garnett e dall'altra parte del campo non danneggiarti, aprendo l'area con il suo micidiale tiro da tre o portando in post-basso avversari meno fisici grazie ad uno svitamento in fade away in cui si intravede tutta l'immensa classe di questo giocatore.
L'aria in quel di Portland però iniziò a farsi pesante, soprattutto a causa delle continue eliminazioni al Primo Turno. Anche sul parquet si respirava la stessa tensione, con Sheed molto "incline" a ricevere falli tecnici, bersaglio preferito degli arbitri ogni qual volta alzava anche solo minimamente la voce, in una squadra composta prevalentemente da elementi disgreganti (da qui il soprannome "Jail Blazers").
Stanchi di continue delusioni e risse sfiorate, la dirigenza di Portland decise di scaricare le mele marce che infettavano l'ambiente e così, a 48 ore dalla chiusura del mercato nel 2004, Sheed venne spedito ai derelitti Atlanta Hawks.
Per non farsi mancare ogni tipo di stranezza possibile, Wallace giocò una singola gara con quella maglia, mettendo a referto 20 punti, 6 rimbalzi e 5 stoppate, per poi essere trasferito ai Detroit Piston di coach Larry Brown.
Insieme agli inseparabili compagni Billups, Hamilton, Prince e Ben Wallace, andò a formare un quintetto a dir poco devastante. Le idee del coach erano chiarissime, voleva una squadra più propensa a difendere che attaccare, in cui non vi fosse un unico leader, ma le responsabilità offensive e difensive venissero suddivise tra tutti.
Sheed si integrò perfettamente all'interno del nuovo sistema, formando uno scudo impenetrabile sotto le plance con il compagno di reparto Ben.
In 22 partite di stagione regolare mise a referto 13,2 punti e 7 rimbalzi, ma fu nei PO in cui risultò veramente decisivo. Le cifre rimasero pressoché inalterate, ma con la sua addizione, i Pistons riuscirono a spazzare via, non senza difficoltà , prima i Bucks, poi i Nets (in 7 combattutissime gare) ed infine i Pacers.
In finale dovettero scontrarsi contro gli iper-talentuosi Lakers del quartetto Payton-Bryant-Malone-Shaq; i favori del pronostico erano tutti per i giallo-viola, ma uno spogliatoio in completa deflagrazione (le dichiarazioni di Malone sulla compagna di Bryant, i problemi legali di Kobe ed i litigi per la leadership con Shaq, Gary Payton in toto) non permise di esprimere a Los Angeles tutto il suo enorme potenziale.
Così, grazie ad un Billups in formato MVP ed un Rasheed Wallace in più, i Pistons strapparono completamente dalle mani il titolo ai Lakers e diedero inizio ad una nuova era, costellata da grandi vittorie a livello di regular season ed Eastern Conference, un po' meno per quanto riguarda l'argenteria di valore. Alla fine della stagione '04, Wallace firmò il rinnovo di contratto di 5 anni con Detroit, unico team in tutta la NBA ad aver creduto in lui, nonostante le evidenti lacune caratteriali.
L'anno seguente, sempre sotto l'egida di coach Brown, si ripresentò alle Finals, sfiorando di poco il repeat. Storica la sua topica in gara 5, in cui lasciò completamente libero da oltre l'arco Robert "Big Shot" Horry per raddoppiare Ginobili, il quale, leggendo lucidamente la situazione, scaricò in favore del compagno per un tiro comodo a pochi secondi dallo scadere. Una delle finali più belle ed incredibili di sempre, conclusasi a favore dei dinastici Spurs.
Da quel momento, il rapporto con la città e l'ambiente sembrò lentamente deteriorarsi. L'addio di Larry Brown, accasatosi ai Knicks, la partenza di Big-Ben Wallace verso Chicago ed infine la dipartita del leader dello spogliatoio Chauncey Billups, spedito a Denver, crearono forte malumore all'interno della locker room.
Il nuovo allenatore, Flip Saunders, pareva più dedito ad inserire nuovi schemi offensivi per il neo-arrivato Chris Webber che a ri-assemblare una difesa arcigna come ai vecchi tempi, così Sheed si permetteva spesso in conferenza stampa di criticare apertamente il coach.
In seguito all'ennesima deludente stagione, Dumars decise di disgregare quel gruppo un tempo vincente, non rinnovando il contratto a Wallace e lasciandolo libero di accasarsi dove meglio credeva.
Il resto è storia recente; Rasheed, convinto di dover replicare il suo titolo per passare dall'essere un "vincitore" ad un "vincente" (MJ docet), firma un contratto triennale con i Celtics a poco più di 18 milioni per tre anni.
Completamente atarassico, privo di qualsiasi emozione ed interesse durante tutta la regular season, viaggia col pilota automatico anche nelle prime gare dei PO, ritenendo di dover intervenire solo nei casi di emergenza; finalmente, si accende come un faro abbagliante nelle Finals.
È il miglior difensore in tutta la serie su Pau Gasol, cancellandolo completamente in almeno un paio di episodi con minuti di esperienza e tecnica sopraffina. Nell'ultima gara, dopo averla iniziata con due canestri ed aver sparacchiato da tre per il resto della partita, infila la tripla che lascia l'ultimo bagliore di speranza ai bianco-verdi.
Probabilmente negli anni verrà ricordato più per le sue bravate leggendarie che per le doti cestistiche: memorabili diversi episodi, tra cui quello in cui riuscì a prendere un fallo tecnico, unicamente guardando "storto" l'arbitro, oppure quando attese fuori dal palazzetto che uscissero i tre sventurati per farsi giustizia da sé.
Nella mia mente, rimarrà invece impressa l'idea di un giocatore troppo disfunzionale per integrarsi in un sistema rigido come quello NBA.
Basti pensare che, al suo ultimo All-Star Game, nel 2008, poiché non aveva gradito la chiamata come cambio di Kevin Garnett, prese solo tiri da oltre l'arco, rilasciando con la mano sinistra (ufficialmente, quella debole).
Ma più di tutto, rimane l'idea di un atleta sincero che, quando riteneva di non aver fatto fallo e l'attaccante sbagliava il tiro libero che si era procurato "ingiustamente", afferrava la palla con due mani per riconsegnarla all'arbitro e diceva "Ball Don't Lie".
Ecco chi è il vero Sheed: un ragazzo cresciuto in un ambiente difficile, da una famiglia infinitamente povera, a cui sono stati insegnati valori non inferiori rispetto al resto del mondo, ma semplicemente diversi.
Chi ama questo gioco, non può non apprezzare come lo ha interpretato nei 14 anni della sua carriera e se anche non ha vinto tutto quello che meritava, che importa?
Se qualcuno provasse a farglielo notare, non sfuggirebbe alle sue responsabilità , ma in risposta sorriderebbe con quello sguardo sornione e strafottente, pronunciando poche parole che ti farebbero intendere come osserva il mondo Mr. Sheed.