Dick Allen, prima superstar di colore a Philadelphia
Prendendo spunto dalle discussioni che ogni anno vengono suscitate dalle scelte per l'ingresso nella Hall of Fame, tracciamo qui un profilo di un giocatore che è considerato probabilmente il più forte, o uno dei più forti, tra quelli che non hanno avuto l'accesso a Cooperstown, e che sicuramente ha segnato una svolta nella lotta al razzismo nel baseball e nello sport americano in genere: Dick Allen.
Nato in Pennsylvania nel 1942 e cresciuto in una cittadina non lontano da Pittsburgh, ultimo di tre fratelli allevati da una madre single, Richard Anthony Allen (questo infatti era il suo vero nome) non aveva incontrato il razzismo in gioventù, in quanto il suo talento naturale di atleta polivalente lo aveva sempre fatto rispettare da compagni e amici durante l'epoca delle scuole.
E parlando di razzismo bisogna ricordare che a quei tempi i neri giocavano in un campionato a loro dedicato, per tenerli separati dagli atleti bianchi, la “Negro League“, oggi spaventosa solo a sentirla nominare, che restò in vita fino alla fine degli anni '40, dopo che il primo atleta di colore, Jackie Robinson, ruppe le barriere firmando un contratto con i Brooklyn Dodgers, nella National League. Ma una cosa era l'ambiente che si respirava in una metropoli come New York, ben altra cosa erano i pregiudizi razziali che ancora sopravvivevano nella società di stati più conservatori, come appunto la Pennsylvania o l'Arkansas, dove nel 1963 andò a giocare nella formazione di triplo A di Little Rock, dell'organizzazione dei Phillies. Lui ricorda il suo debutto in squadra come un incubo, per via di insulti e cartelli denigratori ovunque fra il pubblico sugli spalti e del terrore provato camminando verso l'auto nel buio parcheggio dello stadio, alla fine dell'incontro. Ma nonostante ciò il giovane Richie in quell'opening game, batté due doppi, il secondo dei quali diede il via alla rimonta che portò alla squadra la vittoria. E i numeri a fine dell'anno parlavano chiaro: .289 di media battuta, 33 fuoricampo e 97 punti battuti a casa, sfiorando la virtuale tripla corona per una minima differenza nella media battuta, ma questo non servì a mitigare l'odio che parte del pubblico nutriva nei suoi confronti e verso il crescente movimento di atleti neri che sempre più spesso venivano reclutati nelle squadre professionistiche.
Al contrario i managers della Major League guardavano questo fenomeno con interesse, e infatti nel settembre dello stesso anno arrivò la chiamata per il debutto nella squadra maggiore. Lì incontrò Gene Mauch, manager della squadra, che oggi lo ricorda come il giocatore più talentuoso con cui abbia avuto a che fare in carriera, e con cui instaurò inizialmente un ottimo rapporto.
E così al suo primo anno di Majors, Allen, nonostante qualche carenza in difesa, dovuta anche allo spostamento dalla posizione di shortstop a quella di terza base, vinse il titolo di Rookie of the Year quasi per acclamazione da parte della critica, mentre il pubblico di Philadelphia era diviso tra chi continuava a manifestare intolleranza nei suoi confronti e chi iniziava a credere di aver finalmente trovato il giocatore che serviva per vincere il pennant, unitamente ad altri campioni che portatono la squadra a primeggiare la division per gran parte della stagione, fino a quello che viene ancora ricordato come il più grande late season-collapse, e che a seguito di 10 sconfitte consecutive, prese il nome di “September Swoon“. In quella squadra militavano tra gli altri, i pitchers Chris Short, Jim Bunning, autore quell'anno di un perfect game, e potenti battitori come Johnny Callison e il veterano Frank Thomas.
E Mauch era il manager perfetto per una squadra composta da giocatori che provenivano da realtà differenti, bianchi, neri ed ispanici, avendo egli stesso giocato in gioventù in una lega cubana, ed avendo vissuto in prima persona l'evento di Jackie Robinson, quando militava nei Dodgers. Così altri giocatori di colore si unirono al gruppo e tra questi c'era un certo Johnny Briggs, outfielder molto giovane e molto amico di Allen, che fu la causa di un litigio tra Allen e Frank Thomas, citato prima. Questi infatti, era solito deridere i compagni quando giocavano male o commettevano degli errori, soprattutto se di colore: e proprio in una di queste occasioni Thomas passò il limite con Briggs causando la reazione di Allen che intervenne in sua difesa: l'evento culminò in una violenta lite, in cui Thomas colpì lo stesso Allen ad una spalla con una mazza. Sedata la lite i Phillies persero quel giorno l'incontro con i Reds, nonostante due tripli battuti da Allen e un fuoricampo di Thomas, ma il giorno successivo la spalla colpita si infiammò e lo tenne lontano dal campo per una settimana. In conseguenza di questo evento Thomas fu allontanato dalla squadra, e Allen fu costretto a tacere l'episodio alla stampa per non mortificare l'ambiente di Philadelphia che stava facendo di tutto per scrollarsi di dosso l'immagine della città razzista che l'aveva accompagnata in passato.
La reazione della dirigenza a quell'episodio convinse Allen di quanto egli stesso fosse importante in quell'ambiente, e in termini sportivi per il suo smisurato talento, e in termini umani per il fatto che, essendo la prima star di colore in una squadra di Philadelphia, stava riuscendo ad ottenere consensi da una parte sempre maggiore di pubblico, mentre il razzismo era sempre più spesso confinato a sporadici episodi; purtroppo egli non fu in grado di gestire completamente questo consenso, usandolo spesso a sproposito, tanto che alcuni giornalisti lo accusarono di essere non solo una vittima del razzismo ma anche uno scaltro manipolatore.
Questo creò una tensione tra l'ambiente ed il giocatore che sul campo iniziò a rispondere con prestazioni altalenanti, dovute principalmente ad una totale assenza di disciplina; molteplici furono gli episodi in cui Allen non si presentava o arrivava in ritardo agli allenamenti o alle partite, ogni volta portando delle improbabili giustificazioni; un giorno, in cui era in cartello un importante match contro i Mets, Allen si presentò allo stadio in ritardo dicendo di essere rimasto bloccato nel traffico, e Mauch lo punì facendolo rimanere in panchina e suscitando le sue ire; un'altra volta, sempre a New York, rimase ad assistere ad una corsa di cavalli nel New Jersey e quando si accorse del ritardo si precipitò allo stadio in auto e mentre guidava apprese alla radio di essere stato sospeso e multato dalla squadra; per ben due volte perse l'aereo che lo doveva portare a St. Louis per una serie chiave contro i Cardinals. E molteplici erano le voci maligne che iniziavano a circolare sulla sua vita al di fuori del ballpark: oltre al fatto che sempre più spesso veniva visto in locali notturni e birrerie di pessima fama, una volta fu coinvolto in una lite in cui subì una coltellata ad una mano, quella con cui tirava, il che causò lo spostamento della sua posizione in campo dalla terza alla prima base, e la squadra lo coprì facendo passare la ferita come un infortunio di gioco.
Ma la classica goccia ci fu quando una volta si presentò ubriaco ad una partita: il rapporto con Mauch si deteriorò definitivamente e lo stesso fece sapere al presidente Bob Carpenter che uno dei due doveva andare via. Il presidente scelse di tenere Allen, in cui continuava a credere ciecamente, e questi, forte della sua posizione, sbandierava apertamente come episodi di razzismo tutte le sospensioni o multe che gli venivano inflitte, al punto tale che questa sua abilità di manipolare i fatti gli valse il nome di “troublemaker”.
Al fianco di questi pasticci rimanevano delle prestazioni impressionanti nelle giornate di vena e comunque in generale ben al di sopra della media. Ma quando l'ambiente a Philadelphia fu saturo, mortificato dagli eventi ed indeciso tra il ritiro e la partenza verso altri lidi, Allen fu incoraggiato dalla madre ad andare avanti, e così accetto il trasferimento ai Cardinals nel 1970, dove continuò ad impressionare con il suo talento al piatto e battendo peraltro in una gara contro gli ex compagni dei Phillies due HR che valsero la vittoria, senza tuttavia riuscire a far fare alla squadra il salto di qualità . Seguì una anno ai Dodgers, nel frattempo migrati a Los Angeles, quindi tre a Chicago, sponda White Sox, durante i quali vinse un AL MVP Award nel 1972, ma soprattutto lasciò il ricordo di molte palle scagliate dove nessun altro giocatore era mai riuscito prima.
A dispetto dell'annunciato ritiro, nel 1975 ritornò a Philadelphia, incoraggiato dal nuovo manager Danny Ozrak che era convinto che Allen avesse ancora molto da dare al baseball, ma non trovò l'ambiente che si aspettava, non trovò il calore del pubblico per il ritorno del campione, non trovò più il suo talento ormai in declino, anche a causa di una serie di fastidiosi infortuni e di una condotta di vita non proprio da atleta, e quando i Phillies nel 1976 incontrarono una serie di 10 sconfitte su 11 gare, che li tagliarono fuori dalle posizioni alte di classifica, Allen decise che fosse giunto il momento di abbandonare una volta per tutte la città , e dopo una stagione incompiuta agli Oakland Athletics, si ritirò definitivamente, lasciando comunque dei numeri di valore assoluto nel totale (351 Home Runs, 1,119 RBI, .292 media battuta e .534 media slugging) e in modo particolare se considerati nel contesto in cui fu costretto a giocare i primi anni della sua carriera; in particolare l'anno del debutto ottenne numeri migliori di quelli di Babe Ruth, che pure aveva giocato 50 anni prima.
Oggi Dick Allen resta uno dei giocatori più enigmatici e discussi di ogni epoca; talento cristallino capace di fuoricampo da ben oltre 500 piedi, capace di far impazzire qualunque lanciatore (tra l'altro pareggiando il record della National League di 5 Basi ball in un'unica partita), e soprattutto emblema delle vessazioni razziste e della lotta contro di esse, sebbene con atteggiamenti e modi di fare discutibili, non è comunque riuscito ad ottenere la targa di bronzo nella Hall of Fame quando divenne eleggibile, nel 1982, suscitando polemiche che ancora non si sono placate.
Forse la frase più emblematica a rappresentare la sua carriera e la sua vita, l'ha detta lui stesso nella propria autobiografia “Crash“, pubblicata nel 1989 riportando quello che vorrebbe come epitaffio:
“Sono stato classificato come fuorilegge e subito dopo lo sono diventato: ancora mi chiedo quanto sarei potuto diventare forte.”