Darius Miles e Quentin Richardson in una foto d'epoca…
Non sono certo questi, gli anni in cui la fazione "povera" di Los Angeles potrà sperare di vedere ribaltato il proprio ruolo all'interno della gerarchia cittadina.
Oggi come allora (ovvero il biennio che ricorderemo in questo revival- dal 2000 al 2002), i Clippers sono regolarmente estromessi dai Playoff; i Lakers, come di consueto, non possono esimersi dallo stravincere.
Sono due le parentesi più felici nella storia recente: il 2004, con i Lakers senza Shaq, quando il record dei Clippers fu migliore di quello dei cugini, e ovviamente il 2005- '06. Per chi non lo ricordasse nell'immediato, si parla non solo di Playoff, bensì di un'eliminazione al secondo turno, prolungato fino gara 7, contro dei grandiosi Phoenix Suns. Ma questa, è storia chiusa con Sam Cassell.
Vi fu, però, un momento felice e "minore", nel quale i Clippers sfiorarono la post-season in due occasioni consecutive, con un team che era sì un perenne cantiere, ma dotato di grande qualità e di (apparentemente) sicuro avvenire.
Nei giorni in cui si celebra il superamento di Jerry West nei marcatori lakersiani di tutti i tempi, ad opera di Kobe Bryant, ne ritornano alla mente gli esordi: e proprio nei primi anni in cui il figlio di Jelly Bean iniziava a frantumare i venti di media, l'altra sponda della città covava aspettative grandi e segretissime, tutte rivolte al potenziale di uno straordinario gruppo di giovani.
Ognuno di questi si contraddistingueva per una particolare specialità . Al contrario del roster attuale, incentrato su due garanzie nei rispettivi ruoli, quali Baron Davis e Chris Kaman, quei Clips erano accomunati dall'età , dall'iniziale entusiasmo, dai numeri e dall'esposizione ad una pressione mediatica decisamente elevata. Con quelli di oggi, hanno il solo nesso di essere rimasti fuori dalle prime otto (dodicesimi ad Ovest).
Furono, inoltre, spesso legati tra loro da una "fascetta", a volte rossa, a volte bianca, con possibili abbinamenti: un team sempre imprevedibile, la cui freschezza si combinava con altrettanta inesperienza, i cui membri emanavano puro divertimento durante il gioco.
Senza perdersi in excursus sulla scaramanzia legata alle fascette, già in voga nella NBA da tempo come rituale collettivo (si ricordano intere serie di Playoff con gli Hornets di Derrick Coleman ed Elden Campbell tutti rigorosamente muniti del talismano), quei Clippers erano un team dal potenziale simile agli attuali Grizzlies dell'ex-clippersiano Randolph; in qualche anno, si diceva, avrebbero potuto ambire ai Playoff.
Alle esultanze, per converso, un romantico accenno è doveroso, poiché si tratta di un altro elemento unificante. Si ricorda nitidamente un gesto, raffigurante delle corna: pugni rovesciati, stretti sulla testa…
Colonne portanti della squadra furono - procedendo dal successo all'insuccesso: Corey Maggette; Quentin Richardson; Keyon Dooling; Darius Miles; Michael Olowokandi.
Vanno esclusi da questa lista i due veri leader della formazione, Lamarvellous Odom ed Elton Brand, sui quali non vi sono molte parole da spendere in fatto di carriera. Odom si è tramutato in un vincente e in un sesto uomo di lusso, con un rendimento sempre costante nei vari tipi di minutaggio (e di ruolo!) che ha sperimentato, mentre Brand è ancora uno dei lunghi più affidabili della NBA, anche ai Sixers.
Ora, come i peggiori cercatori di meteore nella galassia cestistica, ci interrogheremo su "che fine abbiano fatto" i suddetti atleti, per catturare gli ultimi frammenti di quel raro potenziale da Playoff.
Non prima di aver riassunto l'ossatura generale del team di quel tempo.
2000/2001 - Ci ricorda Ralph Lawler, "storico ufficiale" dei Clips, che dopo un'annata disastrosa, chiusa con un record di 15-67 e legata al binomio Chris Ford-Jim Todd, la panchina losangelina venne occupata da coach Alvin Gentry.
Il roster recitava: Odom, Olowokandi, Dooling, Richardson, Miles, Maggette. Accanto a questi: i piccoli Jeff McInnis ed Earl Boykins; i lunghi Cherokee Parks, Brian Skinner e Sean Rooks; il tiratore Piatkowski; i tappabuchi Tyrone Nesby e Derek Strong.
Il team concluse con un sorprendente 31-51, raddoppiando le vittorie dell'anno prima. Il sesto posto nella Pacific Division non era, forse, troppo indicativo dei progressi svolti dal gruppo.
2001/ 2002 - Il roster restò sostanzialmente immutato, fatta eccezione per l'arrivo di Elton Brand, che si stabilì subito su medie stellari (miglior marcatore con 18,2 e miglior rimbalzista con 11,6). Questa volta il 50% fu davvero sfiorato: Gentry riuscì nell'impresa di concludere a 39-43, quinti nella Pacific. Non restava che migliorare.
Invece, tra le annate 2002/2003 e 2003/2004, a conclusione del nostro breve ciclo, l'organico non cambiò in meglio. Si alternarono solo alcuni nomi altisonanti, ma non di qualità : il precursore di Yao Ming, Zhi Zhi Wang, di cubaniana memoria; leggendarie "comparse" della statura di Doug Overton e Randy Livingston; veterani di lusso all'ultima spiaggia (Glen Rice ed Olden Polynice); europei di media, se non di bassa caratura, come nel caso di Predrag Drobnjak.
Quanto ai diretti interessati, il discorso è differente. Chi di loro può davvero dirsi "promessa non mantenuta" ?
Corey Maggette (1979)
Arrivava da Duke, come Brand. Dopo un primo anno a Orlando a mezzo servizio (1999-2000), avvenne il passaggio ai Clippers, ove Corey rimase per otto stagioni, distinguendosi come realizzatore e divenendo praticamente uomo-franchigia, punto di contatto tra quei Clippers e i Clippers di Camby e Cassell.
Nei primi cinque anni i punti lievitarono progressivamente (10.0; 11.4; 16.8; 20.7; 22.2), nei tre successivi fu un'altalena: 17.8 e 16.9 con Corey dalla panchina, 22.1 nello strepitoso ultimo anno da titolare. A Golden State non si sta smentendo, e sta collezionando cifre persino migliori rispetto al 2008-'09 (da 18.6 ppg a 20.7 ppg), sebbene con impiego lievemente ridotto (sta anche tirando da 2 con il 52%, massimo personale!) a causa della compresenza con Monta Ellis.
Tuttavia, nel biennio preso in esame, Maggette non aveva tanto più spazio dei suoi colleghi. Anzi, si dirà , faticò un poco ad inserirsi, e non era certo così indispensabile, come divenne a partire dall'anno seguente.
Il primo campionato fu chiuso a 10 punti netti per gara, in 20 minuti scarsi; nove volte titolare in sessantanove partite. Certo, erano evidenti le doti di Maggette in penetrazione e acrobazia, ma l'integrazione non fu immediata.
Neppure i progressi apparenti, a dire il vero.
Nel 2001-'02, Maggette iniziò ad avere il sapore del "bluff", quando si notò che, alla prima effettiva occasione di giocare, le cifre parevano addirittura peggiorate. Infatti, al terzo anno di NBA, il secondo a Los Angeles, Corey era sì salito nei punti, ma arrestandosi ad appena 11.4: se messo in rapporto con gli oltre 25 minuti a partita, e la partenza in quintetto 52 volte su 63, un simile score era deludente. Salito da 1.2 a 1.8 apg, il saltatore da Duke era calato nei rimbalzi (da 4.2 a 3.7) e nelle percentuali al tiro. Che le maggiori aspettative, a quel punto, dovessero essere riposte su qualcun altro?
Quentin "The Q" Richardson (1980)
Il giocatore, la cui fama pare sempre più legata all'iniziale del suo nome, venne scelto al draft del 2000. Restò ai Clippers per quattro stagioni (sempre al Rookie Challenge), per poi passare ai Phoenix Suns.
La carriera di Richardson rappresenta uno di quei rarissimi casi in cui, da un punto di vista statistico, si può ottiene una perfetta diagnosi sulla personalità dell'atleta. Un'avvertenza: cercate di evitarlo nel vostro Fantabasket. Quest'estate sembrava non trovare pace: tra Knicks e Heat ci sono di mezzo "ripensamenti" divisi tra Grizzlies, Clippers e TimberWolves.
Ha giocato in piazze importanti: Los Angeles; i Suns di Nash; il Madison Square Garden per quattro stagioni; ora gli Heat di Wade. Eppure, in modo molto simile a Maggette, non è mai stato titolare "inamovibile". E' stato, certo, spesso in quintetto, ma ad un rendimento che negli anni non ne ha legittimato l'impiego, tanto che non esiste regular season in cui The Q sia stato sempre schierato dall'inizio, con la differenza che Maggette spesso ha "reso" al meglio subentrando.
Chi altri, nella Lega, ha statistiche più curiose? Guardando ai punti segnati, ad ogni anno di crescita fa seguito una stagione in calo.
Un breve elenco, relativo a quest'ultimo decennio: per le annate dispari abbiamo 8.1 ppg; 9.4 ppg; 14.9 ppg; 13.0 ppg; 10.2 ppg, mentre per le annate pari 13.3 ppg, 17.2 ppg (l'ultimo anno ai Clippers, il migliore in carriera), e poi 8.2 ppg, 8.1 ppg, fino agli 8.2 ppg in maglia Heat. Per i rimbalzi, vale pressappoco lo stesso discorso, con le migliori prestazioni a New York nel 2007 (collezionò 7.2 rpg). Poi, magari, ripassando la stagione a Phoenix, si scopre che frantumò il record di Dan Majerle per le triple realizzate in un'unica stagione.
E invece, ritornando alla prospettiva che di lui si ebbe agli esordi, era un Richardson in crescita quasi esponenziale. Giocò 157 incontri, salì da 8 a 13 ppg, migliorò in assist, rimbalzi, stoppate e recuperi. Tirando da 3 in modo semi-discreto, ma senza dignità dalla lunetta. Ad ogni modo, fino al 2004, la dirigenza lo tenne con sé. E' il responsabile di quel "gesto", di cui sopra.
Keyon Dooling (1980)
Anche Keyon, come Quentin, arrivò nel 2000 e partì nel 2004. E neppure Keyon ha mai rimpolpato i quintetti delle franchigie per cui ha giocato. Potremmo limitarci ad indicarne i minuti in carriera (19.7), invece andiamo oltre: è un giocatore che ha al tiro, quasi gli stessi valori da 2 e da 3.
La presente stagione ai New Jersey Nets, squadra su cui ogni ulteriore commento è inopportuno, non ha risparmiato neppure Dooling: 33% dalla lunga, 39% dalla media, con l'evidente scusante di non essere mai stato lo Stojakovic, ma nemmeno lo Hubert Davis, delle triple. Vicino alle 600 presenze, è stato titolare 59 volte.
Da rookie collezionò 5.9 ppg e 2.3 apg, considerato tra i più utili elementi di backup. Ma all'anno seguente fu frenato dal fisico, disputò appena 14 incontri e scese a 4.1 ppg e 0.9 apg. Le avvisaglie del fatto che non fosse un fuoriclasse parvero subito evidenti, ma Dooling ebbe, col tempo, anche la possibilità di elevare le difficoltà del proprio basket.
Ha attraversato scenari più competitivi, trasferendosi ad Est e giocando in Florida, un anno a Miami e tre ad Orlando (un percorso evidentemente gradito a molti altri playmaker, come si apprende dal via-vai di Rafer Alston, Jason Williams, Carlos Arroyo).
E' passato ai Nets nel 2008, momento in cui ha ritoccato i propri career-high: quasi 27 minuti a sera, 9.7 ppg, 3.5 apg, sopra il 40% in entrambe le specialità dal campo.
Allo stato attuale è il modello del terzo play in rotazione (anche a New Jersey).
Michael Olowokandi (1975)
E' l'anomalia rispetto ai parametri stabiliti a inizio articolo. Era il più anziano (già 25 anni), ma era al terzo anno. Ed era, con Joe Smith e Pervis Ellison, già nella storia delle peggiori prime scelte, nella speranza che "gettando di peso" un lungo africano nella NBA si potesse ottenere un Olajuwon o un Mutombo (ma si veda, tra i presenti, Hasheem Thabeet di Memphis).
Se mai si volesse individuare un apice nella carriera di Olowokandi, questo ebbe inizio nel 2001, con questi giovani colleghi e l'apporto devastante di Elton Brand, compagno di reparto perfetto. Nel 2000-'01 era al di sotto della media-carriera, fermo a 8.5 ppg e 6.4 rpg., ma l'anno dopo si migliorò fino a 11.1 ppg e quasi 9 rimbalzi. Il 2002-'03, che non fa testo, lo vide ai massimi.
Darius Miles (1981 )
Si guadagnò il primo quintetto di matricole, fu presenza fissa al Rookie Challenge. Andato via Miles, l'esultanza di Richardson perse di significato, così come tutto lo spirito quei Los Angeles Clippers. Miles fu vittima sacrificale, da "non considerare" o su cui "non insistere" in prospettiva futura.
Impressionò per le doti atletiche, ma sulla forza fisica si doveva lavorare. Di fatto ebbe, in due anni, 9.5 ppg; 5.7 rpg; 1.8 bpg: statistiche che non bastarono a trattenerlo a Los Angeles. E l' "investimento" fu ad opera dei Cleveland Cavaliers di Boozer ed Illgauskas, nella stagione precedente all'arrivo di LeBron James. Nei Cavs, al tempo, si era in piena fase "mitologica" in fatto di nomi: c'era l'eterno Tyrone Hill, ala grande che racimolò doppie-doppie fino a fine carriera; giocava ancora Vernell "Bimbo" Coles, caro a tutti gli italiani, longevo play tra Miami e Golden State; Milt Palacio, uno che a ventidue anni emozionava il Boston Garden e poi non esplose mai, scomparendo nel 2006 a ventotto anni.
E poi: Jumaine Jones, Michael Stewart, Tierre Brown, DaJuan Wagner. Miles non poteva non avere un minutaggio di prima fascia, ed ebbe, in effetti, 30 minuti a sera. Deluse clamorosamente: 9.2 ppg e 5.4 rpg erano le cifre peggiori che D-Miles avesse mai avuto in carriera, tanto da essere persino inferiori di quelle ai Clippers. Nel 2003, dopo le prime quaranta partite di LBJ da professionista, Miles fu ceduto senza esitazioni ai Portland TrailBlazers.
Le medie erano sempre più in ribasso, 8.9 ppg e 4.5 rpg. Ma ai Blazers qualcosa mutò.
Miles prese coraggio e confidenza, divenne sempre più spesso titolare, e tornò a giocare 27-28 minuti a gara. Nei due anni e mezzo trascorsi in Oregon, Miles incrementò la propria vena realizzativa (12.6, poi seguiti da 12.8 e 14.0), rimase a 4.6 rpg, 2.0 apg, corredati da una stoppata a sera. Tirò da 2 con il 49%, dimenticando il 42% complessivo ai Cavaliers.
A Portland si iniziò a pensare che l'arrivo di Miles fosse quasi un buon affare. Fino a che il dramma non prese corpo. C'è un "buco" nella carriera del giocatore, tra 2006 e 2008. Questo è in virtù degli infortuni, che lo tolsero dal parquet per due intere stagioni.
Prima del disperato tentativo di ritorno nel 2009, ai Grizzlies, su nba.com campeggiava (e c'è tuttora) una sua foto in maglia Celtics, con il numero 7. Peccato che Miles, ai Celtics, non si sia mai visto. E ci siamo dovuti accontentare degli spiccioli raggranellati a Memphis, pari a 3.5 ppg e 1.7 rpg in nove minuti scarsi. Al momento è free agent, senza che però abbia annunciato il ritiro.
Riassumendo, sulla base delle carriere, andrà promossa a pieni voti l'evoluzione di Maggette, la sola "promessa mantenuta". Saranno assolti con riserva Richardson e Dooling, l'uno incostante, l'altro mai esplosivo.
Quanto ad Olowokandi e Miles, occorrerà congedarli tristemente.
Per i più romantici, c'è anche un riferimento cinematografico: il documentario The Youngest Guns (che il redattore non ha mai visto e provvederà a procurarsi!), i cui protagonisti sono proprio Miles e Richardson. Si racconta dei loro inizi tra i "pro".
Non avrebbe senso, ovviamente, condannare qualcuno per le aspettative disattese, sia individualmente che a livello di squadra. Quei Clippers andranno rispettati, quantomeno per aver fatto dono alla NBA di due annate di puro divertimento, nonché di uno dei sogni infranti nel modo peggiore.
Due soli dati, per finire. Prima di loro 15-67. Dopo di loro 27-55…
Giustamente si chiedeva Ralph Lawler: "Were they ready?"