Rudy Gady in una delle sue escursioni al livello del ferro…
Pochi giorni fa, compilando il consueto spazio di Power Ranking per il sito di ESPN, il giornalista Marc Stein, scriveva che se all'inizio della stagione, gli avessero chiesto di indicare l'unica squadra con record perdente della Southwest Division, non avrebbe avuto dubbi sottoscrivendo il nome dei Memphis Grizzlies.
Ebbene oggi, quella franchigia ricopre sì, l'ultimo posto della suddetta Division, ma il suo record, con la sconfitta della scorsa notte, segna un più che onorevole 18 vinte e altrettante perse e cosa più importante, sta cercando di ritagliarsi con le unghie e con i denti (tanto per far fede al proprio logo) uno spiraglio di notorietà nella Western Conference della NBA.
Sì, la franchigia del Tennessee, uno state certamente più vicino al Football in quanto a passioni sportive e certamente molto più vicino alla NCAA in quanto a passioni di pallacanestro, è partita anche quest'anno non proprio con i favori del pronostico.
Quando si parla nella NBA di città “siberiane” al di là del paradosso climatico, Memphis può essere indicata come una delle mete meno agognate nelle quali finire a fare il mestiere di giocatore, tecnico e via discorrendo.
La transizione da Vancouver, sembra vecchia molto più dei pochi anni che la distanziano dalla data odierna e ancora più lontane sembravano fino a poche settimane fa le tre consecutive partecipazioni ai play-off sotto la guida di Hubie Brown e Mike Fratello.
La versione 2009/10 della franchigia dei Grizzlies era additata dai più come la franchigia dei Panda, per usare una battuta di un comico a stelle e striscie: talento tanto, gusto per l'estetica (almeno in ambito di gesti tecnici) tantissimo, etica del lavoro, professionalità e testosterone applicato al risultato meno di 0.
Per rimediare a questa spiacevole situazione, cosa aveva fatto la dirigenza nelle sue mosse più azzeccate? Partendo da un po' lontano, bè si è disfatta del giocatore ad oggi nettamente più forte passato dalle parti di Memphis, Pau Gasol in cambio di niente meno della prima scelta più scarsa di sempre, Mr. “mi ha scelto Jordan ma Phil Jackson non mi sa allenare” Kwame Brown; ha lasciato placidamente scappare nel corso degli anni gente come Battier, Navarro, Mike Miller, portandosi in casa gente di sicuro affidamento come Darko Milicic, gente non amante dei riflettori come Zach Randolph e come ovvio, ha scelto al penultimo draft un carattere dolce come quello di O.J. Mayo, fortissimo realizzatore ma noto anche per aver organizzato una spedizione punitiva con frattura della mandibola annessa per il “nostro” Daniel Hackett, suo riottoso compagno di college in quel di USC.
Finita qui? Ma perché?
Alla lista di genialate messe assieme dalla dirigenza si è infine aggiunta la scelta nello spot di shooting guard e di point guard la scorsa estate di due veterani come “The Answer” Allen Iverson, colpito da una scleta di vita che nemmeno Gullit ai tempi d'oro e Jamaal Tinsley.
E la stagione come è cominciata?
8 sconfitte in 9 partite e grazie anche per quest'anno abbiamo subito instaurato un gran rapporto con la nostra gente?
Qui però lo scherzo e lo scherno finiscono.
Perché se è vero che la franchigia bianc'azzurra in questi anni ci si è messa d'impegno per rovinare tante e tante premesse positive, la stagione 2009/10 ha preso una piega diversa.
Tutto nasce con un ribaltamento di prospettiva: invece che rovinare qualche cosa di positivo, a Memphis una notizia che sembrava l'ennesima tegola ha invece definito una inversione di rotta. Soli 45 giorni fa circa, Allen Iverson si è infatti stufato della sua scelta di vita e ha fatto le valigie in direzione Philadelphia.
In tanti sugli spalti del Fedex Forum avranno pensato: ecco il prezzolato che abbandona la nave prima che affondi del tutto. Ma la nave da quel momento ha invece cominciato a risollevarsi.
Le motivazioni sembrerebbero misteriose, in realtà probabilmente sono più semplici di quanto ci si possa arrovellare. Nel gelo di una città che poco li ama e che certamente non forma file oceaniche per andarli a vedere, i giocatori sotto la guida non proprio espertissima a livello di head coaching di Lionel Hollins, (per qualcuno solo il classico traghettatore) si sono forse ricordati che il talento contenuto negli spogliatoi del loro palazzetto è davvero sopra media e che in altre realtà della stessa NBA, anche ben più acclarate (vedi New York) i nomi a roster potrebbero garantire titoli a tante colonne sui maggiori organi d'informazione sportiva non solo della Grande mela.
Con questa piccola presa di coscienza, con un giro di vite nell'intensità e con una distribuzione molto migliore dei palloni, la banda del sud ha cominciato a risalire la china in classifica. Le armi di questa rimonta, sono tante almeno quanto lo erano i difetti fino all'anno scorso: Rudy Gay sta maturando, fino ad una partita fa era il primo realizzatore con 20,3 punti ed il miglior ladro di palloni, con 1,6 rubate per sera; Zach Randolph fa lo Zach Randolph, ma i suoi 20,4 punti per sera e gli 11,5 rimbalzi adesso sembrano essere qualcosa in più che una bella vetrina senza particolare utilità .
Insieme a loro, O.J. Mayo si sta dimostrando un giocatore dal talento decisamente sopra la media e certamente meno disfunzionale caratterialmente delle peggiori previsioni, addirittura la scorsa settimana ha dichiarato alla stampa: “I Grizzlies sono in recupero perché stiamo diventando davvero una squadra: parliamo molto fra di noi, in campo e fuori, ognuno da il suo contributo per un fine comune e pensiamo a difendere tutti assieme”.
Va bene frasi già sentite, ma a parte il parlare, facoltà già nota di molti tesserati, il resto è davvero merce nuova.
Grande importanza poi, deve essere data ai due estremi del quintetto: le chiavi del gioco ad oggi sono nelle mani del meno fenomeno della compagine: Mike Conley, due anni fa prima scelta da Ohio State e oggi leader silenzioso di casa Memphis.
Al suo terzo anno fra i pro, la parola con il quale lo associa più volentieri è maturo: non fa cose sempre scintillanti ma è concreto, un po' alla Billups (senza incorrere in lesa maestà ) sa distribuire i palloni senza paura di “offendere” nessuno e aggiunge al tutto 4,9 assist e 10 punti a partita con “soli” 2 Turnover di contrappeso.
Il vero uovo di Colombo è però rappresentato dallo spot numero 5 dei Grizzlies: Marc Gasol non è ancora e forse non sarà mai, forte, principesco e talentuoso come il fratello Pau, ma è altresì uno dei pochi, davvero pochi centri puri in circolazione nella NBA.
E' più alto del fratello, è più grosso del fratello, è più giovane del fratello, ma ne condivide testa da vincente (le giovanili spagnole restano a mio modo di vedere una fucina degna e forse superiore dei migliori College) e grande opinione di se stesso: risultato, un gioco bidimensionale e difensivo per la sua squadra con pochi eguali, quasi 10 rimbalzi, 14,5 punti, 2,2 assist e perché no, 1.5 stoppate (alcune delle quali andrebbero riviste) a sera.
Con questi ingredienti e la psicologia dell'accerchiamento, la squadra si sta sempre di più compattando e se si aggiunge che anche gente come Marcus Williams, lo stesso Jamaal Tinsley o la prima scelta Hasheem Thabeet, si stanno adeguando al nuovo corso, allora non è detto che la posizione alla fine dell'anno sia quella attuale.
Nella NBA in fondo, il calendario conta: le prossime 11 gare saranno molto importanti e 8 di queste saranno in casa.
Anche se per i Grizzlies la differenza è meno marcata che per altre, arrivare in prossimità dell'All Star Game con un record più solido sarebbe un buon viatico per giocarsi le proprie chances nella parte primaverile dell'anno: alla fine il solo non implodere per questo gruppo sarebbe già la scommessa vinta più importante, poi con una media d'età di poco superiore ai 24 anni, il futuro sarebbe tutto da scrivere.