Robinson in azione contro gli Hawks
Chi è quel giocatore NBA che sta a sedere 14 partite consecutive per punizione, viene “sbattuto” in campo e segna 41 punti trascinando i suoi compagni alla vittoria?
Vi diamo alcuni indizi: ha vinto una gara delle schiacciate, è alto 170 cm a volergli bene, è un folle ma in fondo è anche un ragazzo di cuore
Si avete indovinato, è proprio il solo e unico, Nate “The Great” Robinson, il folletto croce e delizia di Mike D'Antoni a New York. Il piccolo grande uomo che divide come pochi altri nella storia dei Knicks i tifosi, il coaching staff e gli analisti dell'entourage della Grande Mela.
Un ragazzo con una grande passione per il pallone e il canestro, che abbinata alla sua altezza, alla sua potenza fisica e al suo (presunto) ruolo di playmaker ne fanno un caso particolare e unico del panorama NBA.
Una piccola bomba atomica pronta a esplodere in 30elli a raffica o implodere con serate oscene per scelte e percentuali di tiro che poi si ripercuotono sul gioco della squadra. Ne sa qualcosa appunto Mike D'Antoni, che da sempre, prima da giocatore e poi da coach, ha predicato un concetto di gioco frizzante e sbarazzino ma sempre ordinato e fondato su rigide regole tattiche, che il buon Nate con la sua interpretazione di basket non sempre rispetta a discapito dei nervi del baffo e dei tifosi.
Che un giorno lo amano, e lo ergono a loro beniamino come il ritratto del rinnovato spirito battagliero dei guerrieri blu-arancio e il giorno dopo lo vorrebbero alla graticola come l'ultimo degli eversori. Il classico giocatore “paradosso” dal punto di vista tecnico ma anche caratteriale, con i suoi occhioni da cucciolo e la sua ferocia agonistica da squalo.
Essere Nate Robinson d'altronde non deve essere facile, perché se hai il sogno della NBA da quando eri ragazzo e smetti di crescere da quando hai toccato i 168 cm di altezza già questa è una rigida selezione naturale che lascia poco margine di manovra.
Il margine di manovra invece Nate se l'è creato e ampliato con la determinazione, con la cura del corpo, con i muscoli abbinati ad un atletismo da paura che lo proiettano a almeno 1 e mezzo da terra quando accende la miccia dei garretti, e con il cuore, il vero spartiacque tra il riuscire e il fallire anche quando sei alto, bello e biondo.
A queste caratteristiche ha abbinato nel corso dei suoi anni al college di Washington giocando al fianco di Brandon Roy una qual certa propensione al fare canestro, affinando i propri “skills” per quanto riguarda il trattamento di palla e precisione al tiro dalla lunga distanza.
Ma anche palleggiando come un globetrotter e tirando da tre come una macchinetta non ci arrivi in NBA se devi guardare tutti dal basso verso l'alto. E qui torna in gioco il cuore, il suo ardore per la sfida e l'intensità nonostante i deficit fisici.
Isaiah Thomas, ha mille difetti e una bella faccia a schiaffi, ma ha un dono particolare, ovvero quello di riconoscere il talento anche nei giocatori più “atipici” per usare un eufemismo. Ha colto da subito l'essenza del gigante bonsai, e lo ha reso scelta al primo giro nel draft del 2005, assieme a Channing Frye e in ultima battuta David Lee.
A 4 anni di distanza, e con molta acqua passata sotto i ponti del fiume Hudson, è stato proprio Robinson con Lee a resistere a tutte le inondazioni o carestie che si sono abbattute nella Big Apple cestisticamente parlando.
In questi anni Robinson ha sempre vinto le sue sfide personali. Non era adatto alla right way Browniana, ma è stato uno dei più positivi nella tragicomica stagione 2005/2006, perché non ha mai mollato, come invece giocatori con più pedigree e soldi in banca avevano fatto. Non avrebbe avuto chance in un backcourt affollato da (ex)All Star in declino fisico e motivazionale, ma nel marasma della gestione Thomas è stata una delle poche luci newyorchesi.
In questi due anni poco esaltanti per i Knicks, si è costruita l'immagine di Robinson come beniamino del Garden, sempre l'ultimo ad arrendersi e uno dei pochi ad andare oltre i propri limiti per non fare mai un passo indietro di fronte a nessuno.
Ovviamente ciò ha comportato anche effetti collaterali, come la rissa nella partita di dicembre 2006 contro i Nuggets, in cui Nate recitò un ruolo da “protagonista”. Errori di gioventù, ma apprezzati dal pubblico abituato nella decade scorsa a tipini niente male com John Starks, Xavier McDaniels e Charles Oakley.
Poi l'arrivo di D'Antoni e il solito dubbio sull'utilità di Robinson nel nuovo corso, forse il primo progetto serio a New York da un lustro buono a questa parte, anche in vista del contratto in scadenza e da rinnovare.
Non è stato facile adeguarsi per Nate Robinson, perché finora i Knicks che conosceva erano quelli allo stato brado voluto da Thomas, con D'Antoni che aveva dichiarato fin da subito che avrebbe voluto addomesticare anche i più facinorosi pena la panchina senza guardare il faccia la talento o al conto in banca.
Ancora una volta Robinson non ha battuto ciglio, si è messo al lavoro, si è affidato alla sua determinazione e al suo istinto e ha sfornato una stagione da 17 punti di media uscendo dalla panchina per cambiare il ritmo e le partite ai nuovi Knicks sperimentali.
Numeri che lo hanno messo in lizza per il ruolo di sesto uomo dell'anno, arrivando terzo. Ma hanno iniziato anche a affiorare i primi problemi, che per un ragazzo con quell'ardore e quel carattere fondamentalmente buono ma senza mezze misure si sono tradotti in comportamenti eccessivi in campo e fuori che contrapposti alla disciplina voluta da Mike D'Antoni hanno creato attrito tra il giocatore e il coach.
Attriti amplificati nel corso dell'estate dal suo contratto da rookie in scadenza ma con restrizioni, che però è stato dilazionato di ancora un anno e stavolta senza restrizioni di alcun genere, con molte parole spese da Walsh, da D'Antoni, da Robinson e dal suo agente che ha un certo punto avevano creato oltre all'attrito vera e propria tensione.
Nate Robinson si aspettava che il suo attaccamento alla maglia, e il suo spirito di sacrificio fosse ricompensato adeguatamente, della stessa opinione era il suo agente, che però ha tirato troppo la corda con Walsh sul prezzo. Un prezzo inaccettabile trattandosi di un estate di transizione per i Knicks in vista dell'estate 2010, il cui obbiettivo era svuotare il monte salari anziché riempirlo.
Walsh e D'Antoni erano inclini a trattenere il prodotto da Washington, ma alle loro condizioni, e dopo un tira e molla durato per tutto il periodo estivo Robinson a settembre ha firmato l'estensione per un'altra stagione ai Knicks, nata non sotto i migliori auspici.
Robinson ha mostrato i primi segni di insofferenza già da subito, più preoccupato salvaguardare il suo futuro professionale che a seguire i dettami di D'Antoni, che contrariamente a quanto fatto solamente una stagione prima, ha lasciato meno libertà creativa al fan sfegatato di Will Ferrell.
Una situazione di stallo che ha avuto un cedimento durante il primo nefastio mese di regular season, con i Knicks incapaci di giocare degnamente a basket e un senso di sfiducia che aveva addirittura costretto Donnie Walsh a metter in dubbi anche la posizione del proprio coach scelto e strappato a suon di dollari alla concorrenza solo un anno prima.
Il punto di rottura è scattato in occasione della vittoria contro i derelitti Nets quando a pochi centesimi da giocare alla fine del primo quarto, su una rimessa dei Knicks e tempo scaduto Nate si rivolge al suo canestro e segna da tre inspiegabilmente scatenando l'ira di D'Antoni.
Tra i due volano male parole e Nate si accomoda per il resto della gara, dopo aver giocato appena 6 minuti in fondo alla panchina. Si ripete appena una settimana dopo, quando nella sconfitta contro i Magic, Kryptonate viene beccato a scherzare con il suo amico Superman Howard rompendo in pratica i rapporti con D'Antoni che regala al suo folletto un mese tondo di punizione con 14 Did Not Play consecutivi per scelta tecnica, nessuno dei quali dovuto a infortuni.
Caso vuole che questo periodo coincida anche con il momento d'oro dei Knicks che centrano 9 vittorie in 14 partite tra l'insofferenza dello staff nei confronti di Robinson e un improvviso gelo caduto tra i rappresentanti del giocatore e la dirigenza, che portano il suo manager Goodwin, ancora con il dente avvelenato nei confronti di Walsh a chiedere a gran voce una trade o un buyout.
Un Natale amaro per Robinson, che anziché assecondare Goodwin, lo smentisce a mezzo stampa professando amore eterno ai Knicks (cosa peraltro che ha sempre fatto anche in tempi non sospetti) e sconfessando i suoi propositi battaglieri.
Dopo la classica multa da parte della NBA per lo spiacevole “equivoco”, il matrimonio tra Nate e i Knicks sembrava comunque a un inevitabile fine, c'erano già offerte per il giocatore da Memphis e Boston, ma ecco l'ennesimo colpo di scena in quella che finora è stata a tutti gli effetti una storia di amore-odio tra Robinson e D'Antoni.
Complici anche gli infortuni che hanno decimato i Knicks con soli 8 giocatori attivi (tra cui Robinson), D'Antoni lo ributta nella mischia, in pratica per non toglierlo più, ottenendo da Robinson una prova stellare.
Una sera da leone, chiusa a 41 punti con 18/24 al tiro dal campo, 8 assist, 6 rimbalzi da trascinatore e anima dei primi Knicks di 2010. Una prova esagerata, in cui le forzature, l'apatia, il nervosismo e la perdita di stimoli sono state dimenticate, messe da parte per far spazio al suo enorme cuore.
Una prova irripetibile, ma che la dice lunga sulla determinazione di questo piccolo grande uomo, che da quando aveva 16 anni ha giocato contro tutti ma soprattutto contro tutto, dallo scetticismo, ai sorrisi maliziosi prima degli scout, poi degli allenatori e infine dei giocatori.
D'Antoni, uno non proprio abituato a elogiare i suoi giocatori e men che meno a relazionarsi con loro, ha speso rare parole di stima nei confronti della sua point guard, spronandolo prima di ogni cosa e offrire alla sua squadra concentrazione e un attitudine diversa, più collaborativa e funzionale.
Quella che era parso un addio certo ora sembra scongiurato, ora si apre davanti a Nate Robinson una nuova sfida, forse la più dura. Quella che è stata l'esperienza più umiliante della sua carriera lo dovrà cambiare, perchè per avere un futuro nella lega il gioco di Robinson dovrà completarsi e affinarsi, dato che un piccoletto di 170 cm che tira ogni pallone che gli capita per mano contro ogni logica di squadra non è interpretato bene da nessun coach NBA, men che meno da uno che fonda i suoi concetti offensivi sulla circolazione di palla.
D'Antoni gli chiede più continuità di rendimento, soprattutto dal punto di vista mentale, più controllo e la dose di giusta di playmaking che comunque non spersonalizzi il suo gioco e i suoi punti di forza, come la capacità di accendersi in un instante e incendiare il Garden.
Il futuro è tutto nelle mani di Robinson, un passo falso ora potrebbe costargli veramente caro.