Il Borsino dei Playmaker NBA

Gli anni passano, ma Steve Nash è sempre il miglior playmaker NBA

Comandare il ritmo, leggere il gioco per mettere in condizioni i compagni più caldi di non raffreddarsi, trovare equilibrio tra soluzioni personali e assist per compagni, avere la solidità  mentale di prendersi le proprie responsabilità  e fare scelte giuste per vincere.

Queste sono in minima parte alcuni tra i compiti più difficili ma affascinanti che sono chiamati a svolgere i playmaker quotidianamente, in un contesto cruento come è il basket ed in particolare la NBA.

Perché per essere al top nel ruolo in NBA non conta avere solo un bagaglio tecnico di primo livello o un fisico atletico che ti permette di fare coast to coast in 4 secondi netti, ma devi avere molte delle qualità  elencate di sopra. Qualità  che si possono insegnare fino a un certo punto, che possono essere affinate, ma che per la maggior parte sono innate, donate da madre natura e sviluppate con il tempo.

All'interno della "casta" dei playmaker NBA c'è una sorta di elite destinata a durare ancora molto nel tempo, con un ricambio generazionale lento ma costante, con vecchie volpi che non ne vogliono sapere di passare di mano lo scettro e giovani leoni che costantemente reclamano il loro ruolo di capobranco.

Steve Nash dopo un anno "sabbatico" perso ad aspettare ogni volta che Shaq raggiungesse i suoi compagni in attacco, sembra rinato.

Gentry gli ha riaffidato carta bianca per quanto riguarda la gestione del pallone, dei ritmi (sempre alla soglia delle 88 miglia orarie che possono teletrasportarti nel tempo), e il canadese, tornato a correre a briglia sciolta nelle sue praterie è tornato a sfornare il basket che lo aveva eletto per due volte MVP: punti, assist, visioni, letture a velocità  inumane, preveggenza, palle e freddezza.

Il non-segreto del gioco spumeggiante e ritrovato dei Suns passa soprattutto da lui, che dopo aver fatto rinascere Tim Thomas, aver fatto esplodere Boris Diaw e permesso a Amar'e Stoudemire di diventare un lungo dominante nel corso dell'ultimo lustro, ha fatto salire alla ribalta il nome di Channing Frye, effetto collaterale importante delle ritrovata verve dell'ex fidanzato di Geri Halliwell.

Passando dall'Arizona al Texas, chi sta impressionando è Jason Kidd. Un Jason Kidd che ha perso molto dello smalto fisico dei tempi belli, ma non ha certo perso il tocco elegante, pregiato e spregiudicato sul pallone che rende felice tanti compagni in quel di Dallas.

Carlisle non è certo il coach adatto a dare sfogo all'estro del prodotto dei campetti di Oakland, ma l'intuito del Jasone non lo puoi imbrigliare e la sua conoscenza del gioco è sempre molto importante per soddisfare le bocche da fuoco dei Mavericks, siano esse volanti (Marion e la sorpresa Beabuois) o di artiglieria (Dirk e Terry).

Lo stesso Kidd, capendo che il fisico non risponde più agli impulsi cybenertici del calcolatore a 256 GB di ram che ha istallato nel cranio, ha ridotto la sua irruenza offensiva a pochi camei, tenendo comunque sempre alta la sua efficacia in altri settori del gioco.

Ultimo esemplare di un era di playmaker da sbarco è Jason Williams, alla sua ultima reincarnazione in quel di Orlando, nella sua natia Florida, dopo un anno di inattività  e sembrerebbe poca ruggine da smaltire.

Catapultato in quintetto dall'infortunio di Nelson, dopo averne fatto con molte lodi il vice nel primo
mese di regular season (il tempo necessario a ritrovare la condizione ottimale), ha ripagato coach Van Gundy con tanta energia, poche sbavature e una concretezza impressionante per un giocatore storicamente molto fumoso e poco affidabile.

Avesse avuto questa maturità  quando spennellava il pallone di gomito probabilmente avremmo accostato il nome di Jason Williams non a marachelle extrabasket ma ai più grandi interpreti del ruolo.Gli anni passati sotto Pat Riley hanno tolto lo strato di cioccolato bianco che contraddistingueva il suo gioco sempre ai limiti ed adesso ci godiamo con colpevole ritardo un play che gestisce alla perfezione i ritmi, punisce i raddoppi e entra in zingarata a piacimento senza mai mandare all'aria la chimica di gioco dei Magic.
Il ritorno di Nelson può aspettare.

A New Orleans siamo nella tana di Chris Paul, un Paul che per la verità  non sta entusiasmando più di tanto, per quanto ha nelle sue corde si intende, complice il marasma tecnico che ha coinvolto gli Hornets, in questo inizio soft che è costato il licenziamento di coach Scott e l'affidamento della panchina al GM Tim Bowers accompagnato dai suoi baffoni, senza dimenticare l'infortunio alla caviglia che lo ha tenuto fermo ai box.

L'ex Wake Forest sta vivendo la prima vera stagione di impasse nella sua comunque breve carriera.
Dopo aver duettato nelle ultime due stagione con Deron Williams per lo scettro di miglior play del globo e con Bryant, James e Wade addirittura per il trofeo di MVP stagionale, gli Hornets non hanno sfruttato la sua fame di successi e di vittoria creandogli attorno un ambiente non più positivo ma laconico che ha un po frenato la sua vertiginosa ascesa.

Sia chiaro, che questo quando decide di giocare porta quasi tutti a scuola, è un leader acclamato e di
valore, potente quanto rapido, tecnico quanto intelligente per dirigere una squadra di alto livello, ma
attualmente da l'idea di essere depresso e pronto cambiare genere rispetto al Jazz della Louisiana.

Deron Williams invece di Jazz se ne intende, a lo sta suonando alla grande a Salt Lake City.
D'altronde, nel corso della sua carriera NBA finora, non ha mai stonato e dopo una forta ascesa sotto uno dei coach più esigenti della storia della NBA come Sloan, si è assestato su un livello di eccellenza che rischia di non essere sfruttata appieno nello Utah dove i risultati di squadra sono sempre buoni ma mai ottimi.

Rientrati i problemi di chimica di squadra con i Jazz che sono tornati a macinare il proprio gioco articolato e esteticamente da palati fini, Williams sta sempre di più prendendo per mano la sua franchigia e la sta conducendo ai soliti eccelsi risultati stagionali nella sempre più agguerrita Western Conference. Quello che stupisce è la sua capacità  di sfornare dozzine di assist senza perdere di vista il canestro e senza mettere in crisi gli equilibri di squadra.

Cresciuto molto nel corso degli anni e oramai stella di assoluta grandezza, che come tale può permettersi anche pause senza perdere posizioni nel ranking è Tony Parker. Il signor Longoria, allevato da coach Popovich e uno dei play più rapidi, istintivi ma paradossalmente con uno dei migliori controllo del corpo di sempre, è un rebus ancora irrisolvibile per ogni difesa NBA e per ogni squadra che lo affronta, soprattutto ai playoff.

Se gli Spurs possono considerarsi da 10 anni a questa parte un egenomia nella NBA, molto meriti sono di Parker, in coabitazione con Ginobili e Duncan, e al pizzico di imprevedibilità  che sempre sotto l'egidia dell'ex CIA in panchina dispensa al gioco dei texani.

La lista dei nomi dei migliori playmaker che stanno in questa parte di stagione calcando i parquet NBA è già  bella corposa, ma ancora lungi dall'essere conclusa, per la presenza di altri giocatori che stanno offrendo contributi solidi anche senza i picchi, al momento, dei nomi già  citati.

E' il caso di Chanucey Billups, una specie di Re Mida, che con la sua leadership e grande carisma è riuscito a rivoluzionare i Nuggets in una squadra di alta fascia dando loro consapevolezza e togliendo pressione a uno che fino a 12 mesi fa non la reggeva come Anthony.

A Boston, quelli che fino a poco tempo fa erano considerati Big Three, hanno accolto nel loro club, che ora è diventato Big Four, un altro membro, il razzente Rajon Rondo, ad un tiro da tre affidabile dall'incombere sul duo Paul-Williams come miglior play giovane della lega, dotato di poco talento tecnico, ma tanta tenacia e energia che lo hanno reso il preferito di Garnett con il quale contraccambia la fiducia riposta in puntuali alley hoops quotidiani.

Rondo non ha molti punti nella mani, più che altro sfrutta gli spazi che creano in campo Allen-Pierce-Garnett per le sue zingarate in campo aperto e difesa schierata, e non è nemmeno un ragionatore, ma passa la palla con i tempi giusti e con le giuste intuizioni, difende instancabilmente sulle linee di passaggio e sul portatore di palla, e cm per cm è uno dei migliori rimbalzisti della lega.

Mo Williams, fromboliere poco avvezzo a creare per i compagni ma capace di prendere fuoco come di avere le polveri bagnate subito un secondo dopo è il rapsodico playmaker titolare dei Cavaliers. Non è il massimo del playmaking ma come spacca lui partite come paggio del Re non lo fa nessuno nella NBA e gli va reso atto di essere l'unico play ad aver funzionato con James.

Dopo un rapporto alquanto tormentato con Larry Brown, ci sarebbe anche un outsider, ovvero Raymond Felton, play mano educata dei Bobcats, forgiato non senza difficoltà  da "Mister Right Way" in quel di Charlotte, che all'uscita dal college duellava con Paul e Deron come miglior play del draft salvo perdersi nei primi anni di NBA costretto a fare la guardia per sfruttarne le doti balistiche ma non più abituato a gestire i ritmi.

Spostandoci decisamente a ovest è giusto spendere qualche parola su una piccola rivelazione della stagione, quel Monta Ellis cui madre natura ha donato la capacità  innata di segnare nelle aere NBA a fronte di 80 kg scarsi, molto problematico fuori dal campo, quanto in spogliatoio, quanto non sempre "connesso" mentalmente in campo.

Croce e delizia di coach Nelson, con il quale non lesina furiose litigate private e a mezzo stampa, sembra aver trovato linfa vitale in questo dualismo con il Don e nei pur non entusiasmanti Warriors freschi di smantellmento, si sta ergendo come unica nota lieta della stagione.

Il futuro è Rose(o).
Il play dei Bulls è forse il giocatore simbolo della next generation di fenomeni palla in mano anche se la momento sta un po pagando dazio, faticando a reagire a difese adesso più abili a togliergli il centro area, e soffrendo da matti la mancanza di quel Gordon, che paradossalmente gli apriva spazi ma gli toglieva responsabilità  lo scorso anno.

Alle sue spalle viene subito Russell Westbrook, che play lo è diventato per strategia dei Thunder, e sta ancora affinando le proprie doti al fianco del trio più futuribile della lega, quello composto dal prodotto di UCLA, Durant e Green.

Due parole se le merita Aaron Brooks, diventato un faro dei Rockets privi di McGrady e Yao ma non di motivazioni per mostrare alla lega che le loro fortune sono più da ricercarsi del sistema di Princeton Offense adelmaniana e nella ripartizione delle responsabilità  più che dal talento cristallino ma fragile dei due big.

Quella di Aaron è fare canestro, finalizzare dopo l'uso saggio e intelligente del pick & roll e punire gli scarichi in uno dei sistemi di circolazione di palla più emozionanti della lega.

Sempre parlando di Princeton Offense e delle innumerevoli opzioni per play in grado di giocare con i blocchi, i Sixers di un discepolo di Adelman, ovvero Eddie Jordan, hanno in rampa di lancio Louis Williams, giocatore non sempre costante ma capace di metterla dentro al cesto in modo del tutto naturale in arresto e tiro e da tre punti.Peccato per l'infortunio alla mascella che lo ha tolto dai radar fino almeno a gennaio.

Infortunio che ha permesso a Philadelphia e Allen Iverson di incrociare nuovamente e romanticamente le proprie strade. Iverson è colui che negli ultimi 15 anni ha diviso di più le "menti illuminate" sulla definizione del ruolo di play e che più di tutti ha fatto discepoli/imitatori a ogni latitudine.

Guardia racchiusa in un corpo fragile anche per fare il play, ma cuore e talento da primo da Hall of Famer che abbinato uno spirito da condottiero negli anni belli, quelli della rinascita del basket di alto livello nella capitale dell'amore fraterno, aveva spalancato a Iverson le porte dell'immortalità  cestistica. Purtroppo con l'avanzare dell'età , un ego mai intaccato dagli acciacchi fisici e una testa che ancora lo considera una star di prima grandezza, non ha saputo scendere a compromessi per mettere le mani su un anello meritato e i troppi passaggi a vuoti delle ultime stagioni lo hanno ridimensionato in questa NBA attuale in cui i suoi 20 punti sono ancora utili ma non decisivi.

Ai Sixers ha forse l'ultima chances per dare un senso compiuto alla sua carriera, proprio dove tutto è iniziato.

Un articolo a parte se lo meriterebbe Brandon Jennings, passato dal colosseo ai boschi del Wisconsin e diventato è il principale riferimento per quanto riguarda le point man uscite dal draft. A essere franchi, dopo il primo mese e mezzo di regular season può esserlo anche per molti giocatori, anche veterani.

Dopo aver frantumato il record di punti in una partita dei Bucks ed aver scomodato un certo Wilt Chamberlain, segnando 55 punti in tre quarti contro i Warriors, è salito alla ribalta il suo nome, da semplice prospetto a nuova risposta per il futuro.

Non che ci volessero solo quei 55 punti per capirlo, visto che viaggia a un ventello ad allacciata di scarpe chiavi in mano della squadra di un coach non certo facile da convincere come Skiles. Impressionante è il suo modo di stare in campo da veterano, a dimostrazione che l'anno speso in Italia lo ha maturato molto sotto il profilo di comprensione del gioco e attitudine.

Dopo aver passato in rassegna i nomi più caldi e quelli con più prospettive future è arrivato il momento, dolente, di parlare di chi finora non ha del tutto convinto o non sta offrendo quanto il contratto o il talento o le aspettative auspicherebbero.

E' il caso di Jose Calderon, play titolare dei Raptors, che da quando ha firmato il rinnovo contrattuale e entrato in quintetto dal 2008, ha inciso a fasi alterne. Le cifre personali tendenzialmente giocano in suo favore, ma da quando ha convinto Colangelo a tradare Ford per dargli più spazio, i Raptors viaggiano a un record negativo.

La colpa ovviamente non è tutta dello spagnolo, che è irreprensibile in campo quanto fuori, ma ci sono concorsi di colpa anche del prodotto del Tau di Vitoria, cha ha spalmato su più minuti l'impatto che aveva da cambio in un ruolo differente che richiede più responsabilità . Fino a due anni fa entrava in campo e si faceva rimpiangere quando veniva tolto per Ford, mettendo in ritmo tutti i compagni, giocando di energia e segnando canestri importanti.

Era la risposta spagnola a Steve Nash, con il quale condivide oggi soprattutto la (non) tenuta difensiva che lo rende l'anello debole di un quintetto già  non esaltante nella propria metà  campo difensiva.

Due input fondamentali accomunano ma con motivazioni differenti Gilbert Arenas e Baron Davis. Gli infortuni e le aspettative molto alte non del tutto ripagate.

Agent Zero è tornato a pieno regime dopo due anni di quasi inattività , ma non sta giocando ai suoi livelli, ancora incerto fisicamente in certi frangenti, a con ancora troppa ruggine da togliersi si dosso.

Il personaggio è sempre esuberante, ma se prima questa arroganza genuina veniva vista come carburante per quella miscela di motivazioni che lo rendevano immarcabile in campo, adesso che il motore è un po ingolfato sta gettando molte ombre sul suo completo recupero, soprattutto mentale, perchè in campo il talento è sempre il solito, ma la qualità  nelle cose che fa va un po ad alti e bassi in una sorta di ottovolante che si sta ripercuotendo sui Wizards più in generale.

Il Barone invece dopo essere rinato cestisticamente con Don Nelson, una volta abbandonatolo, richiamato dall'aria di casa angelina e da molti verdoni, sembra essere ricaduto in coma, in un sistema lontano anni luce dalla sua esuberante creatività  e con molta confusione, a partire dalla gestione della squadra di coach Dunleavy ai Clippers.

Non che ci volesse uno scenziato per capire che Davis e Dunleavy condividessero il basket in modi opposti, ma un minimo di comprensione reciproca era lecita aspettarsela, anziché vedere un Davis dalle cifre dimezzate e l'impatto nullo rispetto al "lontano" 2007 in cui assieme a Stephen Jackson trascinò i Warriors a un clamoroso upset ai danni della contender Dallas.

Infine due parole le merita Andre Miller, che da quando calca i parquet NBA, ha sempre offerto sostanza, rendimento e doti di leadership in ogni squadra in cui ha giocato. A Portland, arrivato quasi in silenzio e come rincalzo di lusso ben remunerato, sta vivendo una sorta di crisi d'identità , dovuta anche a un tono fisico non proprio professionale ma soprattutto a contrasti tecnici in una realtà  giovane, con prospettive future ma poco smaliziata come quella dei Blazers.

Inizialmente doveva essere il verterano di riferimento, guida in campo e spalla di Roy, ma attualmente è più un corpo estraneo nella truppa di McMillan tanto che iniziano a girare voci di trade a riguardo.

A nostro avviso sono queste le storie, i profili e le individualità  più di attualità  nell'infinito panorama di playmaker presenti in questa lega, senza dimenticare che calibri come Mike Bibby, Tj Ford, Kirk Hinrich passando per rookie di belle speranze come Flynn, Lawson, in parte Evans (molto più guardia nel linguaggio del corpo e tecnicamente che play) e Collison meriterebbero menzioni e approfondimenti.

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