Chuck Daly vogliamo ricordarlo così: aggressivo alla guida dei suoi Bad Boys
"Chuck Daly è DIO" riportavano le pagine di "USA Today" dopo una partita tra i Pistons e i Jazz nella stagione '87-'88; a dirle era stato nel post partita Dennis Rodman, non uno esattamente conosciuto perché fosse solito apprezzare gli allenatori; con Chuck però era diverso, piaceva a tutti i giocatori perché dava a questi importanza, dava loro la colpa nelle sconfitte ma soprattutto il merito nelle vittorie.
Non che si tirasse indietro o altro, semplicemente era convinto che la Nba fosse una lega dove contano solo i giocatori, dove sono loro a permettere al coach di allenarli.
Se ti vogliono seguire allora diventi un bravo allenatore altrimenti non vai da nessuna parte
Questa era l'idea di un coach vincente, che esaltava il talento dei fuoriclasse ed il lavoro della classe operaia, apprezzando chi, magari non proprio baciato dagli dei del basket, dava il sangue per questo gioco.
Il 9 Maggio il cuore di chi ama la pallacanestro per un attimo ha cessato di battere.
Come quando nel Maggio del '98 New York si fermò per la scomparsa di Frank Sinatra così, buona parte degli appassionati di Basket con il fulcro nella zona di Detroit ha pianto la scomparsa di Chuck Daly, uno dei più grandi interpreti della storia del gioco, un vincente, nello sport come nella vita.
Da molti "The Dream Coach" era considerato come Re Mida in quanto riusciva a trasformare in oro ogni cosa che toccava; ci riuscì con i Pistons, che portò a due titoli consecutivi , quando erano una squadra con poca rilevanza, con i Nets, portandoli a Play-off, e poi riuscì a compiere quello che tutti consideravano impossibile: nel 1992, a Barcellona, lui rese 12 grandi giocatori (i più grandi) una squadra. Una squadra vera.
Tutto ciò, ma non solo, gli valse l'ammissione alla Hall of Fame nel 1994. Quando arrivò a Detroit, nella stagione '83, il Palace non era il posto che è adesso.
L'amore per il gioco, il tifo sfrenato, a Detroit l'ha portato lui; con le sue vittorie, con il suo stile di gioco, ma soprattutto con il suo carattere, ritenuto inizialmente troppo "soft" per un ambiente competitivo come la NBA, di persona vera; non di un'immagine plasmata e modellata dal sistema, ma sincera e, talvolta anche in modo sconcertante, spontanea.
"Chuck ha lasciato in ogni persona che ha incontrato, sia dal punto di vista professionale che da quello umano un'impressione stupenda. Il suo ricordo sarà vivo in noi per sempre" – Matt Dobek
Jack McCloskey fu la persona che portò Chuck Daly ai Pistons.
La sua idea era quella di assemblare un roster di talento e atletico per attentare a quel titolo che era ormai da troppo tempo affare solo di Celtics e Lakers.
Quei Pistons, due volte campioni, saranno ricordati come la squadra che ha fatto da intervallo tra la lega dei duetti Johnson-Bird e quella di Michal Jordan.
Fortunatamente ora è consuetudine definire quell'intervallo come una dinastia vera e propria, quella dei Bad Boys, che del talento di Isiah Thomas e Joe Dumars e del "lavoro sporco" di Lambeer, Mahorn e Rodman facevano la miscela perfetta per un cocktail esplosivo, shakerato e mixato da un grande artista come Daly.
In quel periodo ogni squadra aveva paura di incontrare i Pistons, perché questi non giocavano, ma aggredivano la partita, difendevano alla morte e gestivano ogni possesso come fosse l'ultimo.
Provocavano paura, quella paura che attanagliava chiunque venisse a Detroit a giocare, già convinto di perdere sopraffatto da quell'intensità e da quella voglia di giocare che Daly tramandava come pochi riuscivano a fare.
Fu proprio la sua abilità nell'imprimere l'amore per il gioco ed il suo grande rapporto con i giocatori a farlo scegliere come l'allenatore che avrebbe guidato la squadra più forte di tutti tempi: ovviamente si sta parlando del "Dream team" di Barcelona '92 cavalcato da Daly verso l'oro olimpico. Chuck riuscì a guidare 12 "hall of famers" alla vittoria, ma soprattutto a renderli una squadra.
"Chuck ha fatto un lavoro straordinario a Barcellona, è riuscito a tenere unita una squadra fatta da tanti campioni. Nessun egoismo, tutti pensavamo soltanto a vincere le partite e non alle statistiche personali" – Larry Bird
Dopo 14 stagioni come coach NBA, condite da 12 partecipazioni ai Playoffs, Daly si ritira nel 1999, all'età di 69 anni. Il suo nome è periodicamente tornato in auge ogni qual volta una squadra di livello cercava un allenatore di esperienza per riuscire ad esprimere tutto il proprio potenziale, ma è solo adesso che ci ha lasciato che riusciamo ad avvertire appieno il grande vuoto che ha lasciato, come tecnico e come uomo.