Focus: Dikembe Mutombo

Dikembe Mutombo: un grande giocatore, un grande uomo, un grande esempio per tutti

Gara 1 dei playoff 2009: uno scatenato Brandon Roy batte Artest e spezza il raddoppio portato da Scola, si invola a centro area, pronto a schiacciare la palla con la mano sinistra; dal lato debole arriva, silenzioso e letale, Dikembe Mutombo "the ageless one", che cancella con inaudita violenza i due punti quasi già  a referto: atterra dopo l'imperioso gesto atletico (43 anni e non sentirli") e scuote il ditone alla folla.

Per Dikembe Mutombo si trattava della sua ultima stoppata, la numero 3.289, costretto a ritirarsi nella gara successiva per uno scontro con il giovane (?) Greg Oden che gli ha causato un interessamento dei legamenti del ginocchio sinistro; altrimenti non si sarebbe mai fermato, avrebbe continuato a dare il sangue sul campo da gioco, qualunque squadra glielo avesse chiesto e per qualunque obiettivo avesse lottato, avrebbe cercato di stoppare ogni tiro avversario, tutto per sacrificio ed in onore della folla, che lo inneggiava al grido di "Not In My House".

Per me il basket è finito, ho avuto 18 anni meravigliosi senza infortuni, quindi voglio lasciare senza alcun rammarico

Il 6 giugno del 1966 a Kinshasa, capitale della Repubblica del Congo, nasce Dikembe Mutombo; in una metropoli come questa, dove il tasso di povertà  è estremamente alto e l'istruzione e l'educazione dei figli è spesso trascurata, Mutombo ha la fortuna di appartenere alla classe più o meno benestante e di usufruire degli insegnamenti del padre (direttore di alcune scuole) che trasferisce a lui e ai suoi 6 fratelli i valori del rispetto degli altri e della fede.

L'infanzia di Dikembe non è comunque paragonabile a quella di un adolescente benestante cresciuto in America o in Europa; sebbene la sua condizione finanziara fosse discreta e il suo livello di educazione buono, tenersi lontano dalla strada e dalle tentazioni che questa offre non è mai facile.

Come tutti i giovani cresciuti in questi posti, il vero eroe è quel connazionale che riesce a fuggire da quel mondo e a trovare una vita migliore in un altro, qualcuno che con i propri mezzi si elevi dal resto del gruppo al punto tale da essere scelto per qualcosa di importante; e per Mutombo, nonostante inizialmente praticasse unicamente il calcio disprezzando il basket, la figura di Hakeem Olajuwon fu fondamentale.

Hakeem Olajuwon rappresentava colui che ci era riuscito, colui che era andato via dall'Africa (dalla Nigeria) con le proprie forze e con quelle si stava creando una nuova vita; si racconta che Dikembe e alcuni suoi amici entrassero addirittura di nascosto nelle case degli ambasciatori o in quelle delle famiglie più ricche dotate di televisione via cavo (all'epoca e in quelle circostanze un vero e proprio lusso) per ammirare le giocate spettacolari di "The Dream".

Furono proprio le sue giocate a far maturare nella testa di Mutombo l'idea che anche lui avrebbe potuto farcela, che anche lui sarebbe potuto andare via, non fuggendo come facevano molti, ma inseguendo un sogno che lo avrebbe fatto diventare qualcuno e quel sogno, visto il suo fisico e la sua crescente passione poteva e doveva essere proprio la pallacanestro.

Dikembe Mutombo, appoggiato dal padre, ottenne una borsa di studio da Georgetown per meriti accademici, non per lo sport, dal momento che il basket fin'ora lo aveva solo guardato in televisione o giocato in qualche partita non propriamente tecnica con la nazionale dello Zaire; ma fu lì che, scoperto da coach Thompson, apprese i fondamentali del gioco e divenne quel giocatore che farà  sognare tante platee americane.

Da quando nel 1991, dopo una grande stagione da senior al college (15 punti, 12 rimbalzi e 4.7 stoppate a partita, numeri che gli valsero il titolo di miglior difensore della "Big East") e una laurea, fu scelto con la numero 4 dai Nuggets, tutto il resto è storia, più o meno, recente.

Dikembe fece subito centro; la sua prima annata fu spettacolare e l'unico motivo per cui non fu preso in considerazione per i premi individuali fu perché vi era un certo Michael Jordan che quell'anno fece filotto e ottenne MVP, titolo Nba e MVP delle finals.

Per Mutumbo si parla di 17 punti e 13 rimbalzi per allacciata di scarpe, ma si parla anche di un giocatore di cui i numeri diranno sempre meno, che affinerà  sempre più la parte del gioco che non viene onorata nelle statistiche ma che tende ad incidere sull'andamento di una partita.

I numeri comunque li mantenne, facendo crescere negli altri anni a Denver le stoppate a 4 per partita mantenendosi stabile nei rimbalzi. Alla scadere del suo contratto decise di provare altri lidi e si trasferì ad Atlanta dove però snaturarono il suo gioco e la sua personalità ; placarono il suo agonismo ai massimi livelli, condannarono la sua allegria e gli vietarono di sventolare il ditone dopo ogni stoppata.

A cogliere la palla al balzo fu Philadelphia, che protagonista della sua migliore stagione da tempo, con Allen Iverson sugli scudi, vedeva prospettarsi la possibilità  di finale NBA. Coach Larry Brown sapeva che per battagliare contro la fisicità  delle squadre dell'ovest, bisognava implementare il roster, aumentare i chili sotto canestro e dotare quella squadra giovane di un veterano che avrebbe potuto condurli.

Detto fatto, in uno scambio che coinvolse tra gli altri Theo Ratliff e Tony Kukoc, Mutombo sbarcò nella città  dell'amore fraterno. Purtroppo per Dikembe, sui cui gravava la non indifferente responsabilità  di essere "l'anti-Shaq", quell'anno i Lakers erano di una superiorità  nei confronti di ogni altra franchigia a dir poco agghiacciante ed i suoi Sixers furono spazzati 4-1 generando però 2 giorni di panico puro a Los Angeles violando in gara 1 lo Staples Center, cosa che nessuno era mai riuscito a fare in quei Playoff che assegnarono il secondo titolo del "Three-Peat".

Persona a cui l'onore non venne mai meno, e che recepì a pieno i duri ma saggi insegnamenti di suo padre, non si montò la testa, non sperperò i suoi guadagni e non accrebbe a sua superbia. Restò un uomo umile, che aveva la consapevolezza di essere qualcuno ma anche il buonsenso di rispettare ed aiutare chi magari non lo era diventato.

Non investì il proprio successo ed il proprio denaro in cose che gli avrebbero regalato attimi di felicità  fasulla, non duratura, ma dedicò il resto della vita che il basket gli lasciava alla cura del matrimonio, con la moglie Rose, dei suoi 6 figli e delle diverse associazioni umanitarie, che si preoccupavano di favorire l'inserimento dell'Africa nel mondo, di cui era promotore.

Dopo l'annuncio del suo ritiro, pochi giorni fa, sono partite diverse campagne che vorrebbero l'ammissione di Mutombo alla Hall Of Fame; sarà  difficile che la richiesta verrà  accolta perché sebbene Dikembe sia stato un grande difensore ed una delle figure più longeve della storia del basket, ha sempre difettato della fase offensiva, caratteristica che lui, da lottatore puro, come Dennis Rodman, volutamente non approfondiva fermamente convinto che le partite si vincessero in difesa; e chi lo sa, forse avevano ragione loro.

C'è ancora qualcuno che crede (io stesso non ci giurerei) che Dikembe Mutombo non abbia realmente finito la sua carriera, ma che, come tante volte in passato, ritorni a sorpresa rinascendo dalle proprie ceneri più forte di prima.
Ma almeno per ora, bisogna dare per buone le sue parole, poi chissà .

We'll miss you Deke. Thank you for your laughter and your hard play.

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