Marbury punto e a capo

Una grande occasione per Stephon Marbury, lontano da NY.

“Nemo propheta in patria” è un detto latino che ben si addice all’avventura in maglia Knicks di Stephon Marbury. In effetti, gli anni vissuti nella sua città  natale sono stati conditi da risultati a dir poco insoddisfacenti.

Gli ultimi tredici mesi, poi, Starbury li ha vissuti da separato in casa. Episodio eclatante e classica goccia che ha fatto traboccare il vaso la multa di 200 mila dollari comminatagli per essersi rifiutato di giocare.

“Non avevamo altra scelta – ha spiegato il presidente dei Knicks, Donnie Walsh – non si può dire di no se ti viene chiesto di entrare in campo.”

La situazione si è complicata sempre più e, dopo innumerevoli tentativi di scambio sul mercato, il 24 Febbraio Knicks e giocatore hanno concordato un buyout “liberatutti”.

Starbury ha dunque voltato pagina con un colpo di teatro degno della sua fama.
Tre giorni dopo aver chiuso con NY si è accordato con i campioni in carica dei Celtics. I termini del contratto non sono stati resi noti, ma diverse fonti giornalistiche hanno riferito che Marbury ha messo nero su bianco fino al termine della stagione per 1.3 milioni di dollari, ovvero il minimo salariale per un veterano. Tutto ciò con la seria opportunità  di portarsi a casa l’anello. E, al contrario di come si è comportato a New York, ha accettato di fare il backup a Rajon Rondo.

Danny Ainge si è detto entusiasta di avere in squadra “un giocatore del calibro di Steph”. Aggiungendo che il team al completo “confida e crede che Stephon possa dare un grosso contributo alla squadra per vincere un altro titolo”. Ray Allen sa cosa vuol dire adattarsi al nuovo corso dei Celtics, “anche Kevin e Paul si sono adattati, Stephon è stato un giocatore franchigia e se anche lui si adeguerà , allora ci potrà  aiutare parecchio.”

Marbury è nativo di Coney Island, ad ovest di Manhattan, un luogo definito da Woody Allen “il grande sogno americano, l'illusione di un mondo meraviglioso in cui tutti sarebbero stati felici”. Qui a fine ‘800 fu aperto il primo parco dei divertimenti chiamato LUNA (da cui deriva il termine luna park) e leggenda vuole sia stato inventato l’hot dog.

Da questi quartieri e playground provengono anche Sebastian Telfair (cugino di Marbury) e Lance Stephenson, grande promessa diciottenne della Lincoln High School (la stessa di Starbury e Telfair), entrambi point guard (sarà  un caso?).

Fin da molto giovane è considerato un piccolo genio del basket, un talento naturale, esplosivo, agonista e soprattutto leader. Al Rucker Park di Harem e nella gabbia di West 4th Street in Lower Manhattan lo conoscono tutti.

Dopo un eccellente primo anno all’Università  (da freshman tiene una media di 18.9 punti, 4.5 assist e 3.4 rimbalzi) con Georgia Tech (Bobby Cremins al timone), si rese disponibile per il Draft NBA 1996. Lo scelsero i Milwaukee Bucks al primo turno (quarta scelta assoluta) e fu subito scambiato con i Minnesota Timberwolves per Ray Allen (chiamato al 5).

Nella sua prima stagione NBA, Marbury ha realizzato una media di 15,8 punti più 7,8 assists a partita. Nella sua carriera, Marbury ha giocato per i Minnesota Timberwolves, i New Jersey Nets, i Phoenix Suns e infine per i New York Knicks.
E’ stato NBA All-Star nel 2001 e nel 2003.

Starbury è un giocatore dalla forte personalità  e dal carattere superbo e cocciuto, conosciuto per l'abilità  nel palleggio e la velocità . Spesso, però, è stato definito un egoista con propensione al tiro più che al passaggio e c’è da dire che le squadre di cui ha fatto parte non hanno avuto risultati brillanti (in dodici stagioni NBA ha vinto poco più del 40% delle partite giocate e ha disputato solo 18 incontri di playoffs).

La sua “leggenda” è iniziata quando nel 1999 ha chiesto di essere lasciato libero dai Wolves perché guadagnava meno di Garnett, un comportamento vietato dal regolamento.

Marbury ha giocato anche nel Dream Team IV (Olimpiadi del 2004) tornato a casa con una medaglia di bronzo e si è fatto ricordare in particolare per dichiarazioni e controdichiarazioni contro il coach Larry Brown.

Un siparietto visto e stravisto quando poco dopo quando Larry Brown è andato ad allenare i Knicks. Qualche esempio?

Marbury a Brown (a mezzo stampa): «Parla di cose che ha fatto. Ma la gente di New York vuol sapere cosa farà  per far vincere i Knicks. Quello che è accaduto nel passato, è passato».

E spiegando col solito ego smisurato che la cattiva stagione della squadra è colpa della poca libertà  concessagli in campo: “Non gli permetterò più di dire cose su di me e non risponderò più. Glielo ho lasciato fare nei primi mesi, ha usato la stampa. Ha sempre superato il limite. Ormai è una cosa personale, il basket non c' entra più”.

La risposta di Brown è lapidaria: “Prendo tutta la responsabilità  di aver vinto solo 17 partite. Quando hai la migliore guardia della Lega e perdi è colpa del coach…”

La fama di sfascia-spogliatoio se l’è conquistata sul campo, non c’è che dire. Il problema è che la superbia è un serpente cocciuto che si morde la coda e diventa, nel corso degli anni, un’etichetta che è difficile a staccarsi.

Sarà  quindi tutto da vedere l’impatto col pianeta Celtics, un vero e proprio terno al lotto per dirla all’italiana.

In un'intervista rilasciata al New York Times ha detto che ora si dovrà  adattare al sistema dei Boston Celtics. “Volevo provare ad andare in una squadra dove dare il mio contributo per vincere il campionato. Questo e' l'unico pensiero che ho ora nella mia mente.”

Può rappresentare una bomba per lo spogliatoio o potrà  davvero essere utile con la sua esperienza? Accetterà  di giocare da comprimario? Alla prima occasione contesterà  allenatore e general manager?

Quello che è certo è che può portare leadership e talento offensivo aumentando le rotazioni di una panchina orfana di PJ Brown, James Posey e Sam Cassell, aiutando Rajon Rondo e favorendo l'impiego di Eddie House nel suo ruolo naturale di guardia tiratrice, dove è effettivamente più utile che in cabina di regia.

Lo scorso anno “Ubuntu” è stato una specie di mantra che ha aiutato molto i Boston Celtics a sentirsi squadra e a vincere il titolo NBA.

Coach Rivers ha spiegato che nella lingua del Sudafrica “Ubuntu” è solo una parola, ma ha dentro di sé un concetto forte che parla soprattutto d’altruismo.
Significa: “le persone diventano persone grazie ad altre persone”.

Desmond Tutu dice che ”una persona con ubuntu è aperta e disponibile agli altri, solidale con gli altri, non si sente minacciata dal fatto che gli altri siano validi e buoni, perché ha quella sicurezza che deriva dal sapere di appartenere ad un tutto più grande, e che siamo feriti quando gli altri sono umiliati o feriti, torturati o oppressi”.

Il bene comune può essere dunque raggiunto solo tramite l'impegno congiunto di ciascuno. Valori positivi, di squadra, che sembrano non appartenere a Marbury, un giocatore immaturo dall’ego smisurato che sembra un corpo estraneo in un nucleo che ha “Ubuntu” come marchio di fabbrica.

C’è però da dire che i Celtics sembrano sicuri di poter sfruttare al meglio le potenzialità  dell’esplosivo talento di Coney Island e la “chimica” della squadra è forte e coesa.

E Starbury è perfettamente cosciente che un’occasione come questa forse non si ripeterà  più.
Staremo a vedere.

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