Nash sa bene cosa voglia dire 'Defense wins championships'…
Pensiamo per un attimo direttamente a Giugno, tenendo i piedi sul presente e guardando al passato (quindi assumendo quasi una posizione yoga…): chi è seriamente in corsa per l’anello?
Cosa ne “pensano” le statistiche?
Ovviamente non ho intenzione di fare il Nostradamus della situazione, né tanto meno c’è una “regola aurea” per prevedere con un equazione chi la spunterà tra le trenta concorrenti ma, retrospettivamente, proviamo a fare un bilancio delle squadre di successo per eccellenza, cioè delle vincitrici dell’Anello.
Per mantenere attuale la riflessione verrà presa in oggetto solo l’Nba “contemporanea”, dunque quella più recente ed accomunata dalle ripercussioni dalla riforma del 2000-2001, che ha innegabilmente mutato gli assetti strategici e tattici del Gioco.
La difesa a zona è stata ufficialmente sostituita nel 2001-2002 dalla nuova regola dei 3 secondi, ma già nel 2000-2001 ogni difesa era legale sul lato forte (George Karl ancora ringrazia), mentre su quello debole doveva risultare all’arbitro, per poter campeggiare nella paint, almeno la parvenza di seguire un taglio, marcare qualcuno o andare a raddoppiare; furono inoltre introdotti alcuni aggiornamenti sulla gestione dei time out, l’innovativo clear-path-to-the-basket, la possibilità di difendere con l’avambraccio solo al di sotto della linea (estesa) del tiro libero, i 5 secondi entro cui dover iniziare il palleggio (sempre in quella zona front-court); insomma, cambiamenti che hanno cambiato il trucco (ed i trucchi…) del Gioco, rendendolo ben diverso da quello di neanche un decennio prima (fatto da hand-checking al limite della sevizia, falli intenzionali fischiati solo quando si sfiorava il penale, e duelli uomo vs uomo degni di una saga epica…).
Passiamo ora ad assumere un “ottica di squadra”: coerentemente all’“assioma IV”, per poter meglio focalizzare la qualità di una squadra nel periodo di riferimento, quindi il suo valore rispetto alla concorrenza, considereremo non i valori assoluti, ma la posizione nella graduatoria di riferimento: sapere che una squadra concede il 45% dal campo non dice molto, se non si considera quanto concedono le altre; sapere invece che è decima per percentuale concessa, tralasciando il valore assoluto, significa poter concludere che è comunque nella “fascia alta” di quell’anno, quindi in una buona posizione; il vantaggio del numero ordinale è infatti che contiene già in sé un riferimento quantitativo al contesto cui si riferisce.
Se fosse possibile individuare una serie di costanti, di caratteristiche che accomunano le prestazioni medie in regular season delle squadre “inanellate”, tali peculiarità potrebbero ragionevolmente essere considerate “condizioni necessarie ma non sufficienti”, non certo per vincere il titolo, ma almeno per essere competitive ad alti livelli (leggi “playoff”).
Fermo restando che l’ultima parola, quella che più conta, spetta al campo ed al fascino dell’imprevedibilità sportiva, proviamo, per gioco, ad incrociare le prestazioni delle vincenti delle ultime 8 Finals (una casistica quantitativamente niente male), basandoci su ciò che hanno combinato nelle 82 gare di regular season, tra alti e basi, contro avversari forti e deboli, e con ogni prestazione notevole o drammatica “spalmata” sugli 82 risultati complessivi. Perché si sa che poi, nei playoff, ogni serie è una storia a sé, e le statistiche di squadra smettono di aver importanza: lì, conta solo il risultato utile.
Ebbene, va subito chiarito che non c’è neanche una costante statistica assoluta che leghi tutte le otto Champions; anzi, il panorama delle vincenti si presenta decisamente eterogeneo (ciascuna graduatoria è in ordine decrescente):
– possessi: i Lakers del 2002 erano sesti, gli Heat del 2006 12esimi e gli Spurs del 2007 27esimi;
– palle perse dagli avversari su 100 possessi: i Celtics dell’anno scorso erano primi, gli Spurs del 2003 12esimi, gli Heat del 2006 29esimi;
– palle perse sui 100 possessi in attacco: i Lakers del 2002 erano 28esimi, i Pistons del 2004 decimi, i Celtics del 2008 secondi;
– percentuale di rimbalzi offensivi (sui disponibili): i Pistons del 2004 erano noni, gli Heat del 2006 17esimi, gli Spurs del 2007 27esimi;
e la lista potrebbe continuare…
Tuttavia… ci sono alcune “ricorrenze statistiche” valide sette volte su otto (quindi nell’87,5% dei casi, per chi se lo stesse chiedendo); l’unico caso anomalo, quell’1/8 che impedisce di parlare di “legge non scritta”, può essere comunque usato per giocare a “scopri l’intruso” o semplicemente essere considerato l’“eccezione che conferma la regola”, soprattutto perché non si tratta mai del caso più recente e quindi è stato sempre “riassorbito cronologicamente” nei casi successivi.
Ecco dunque la lista di peculiarità numeriche che delineano, 7 volte su 8, l’identikit in regular season di quella che è diventata, mesi dopo, la “Finalista che sorride” (l’altra è la “Finalista che rimugina”).
– percentuale dal campo offensiva (in ordine decrescente): esclusi i Pistons del 2004 (18esimi), tutte le altre squadre “titolate” in regular season erano comprese nella Top10; per dirla tutta, se escludiamo anche gli Spurs del 2005, 6 volte su 8 (75%) la campionessa era nella Top5;
– percentuale dal campo concessa (in ordine crescente): esclusi i Lakers del 2001 (12esimi), le altre vincenti erano almeno ottave per percentuale concessa; anche qui: escludendo gli Heat del 2006, la casistica scende a 6 su 8, ma il cerchio si stringe: tutte nella Top4;
– punti segnati per 100 possessi (in ordine decrescente): esclusi i Pistons del 2004 (18esimi), tutte le altre incluse nella Top9;
– punti subiti per 100 possessi (in ordine crescente): esclusi i Lakers del 2001 (22esimi), tutte le altre nella Top9.
– percentuale di rimbalzi difensivi (sui disponibili; ordine decrescente): esclusi gli Spurs del 2003 (17esimi), le altre tutte annoverate nella Top12; escludendo i Pistons del 2004, in 6 casi su 8 si tratta di Top9; non sembra quindi molto rilevante il prendere rimbalzi offensivi (v. sopra), quanto piuttosto il non concederli…
Va notato come ci sia un’altra statistica, ma in valore assoluto (non incrociata con i possessi), che accomuna sette Champions su otto: le stoppate “erogate” a partita: tranne i Celtics dell’anno scorso (la cui difesa non era poi niente male…!), finiti diciottesimi, tutte le altre squadre hanno terminato la stagione nella apposita Top10.
Probabilmente non è una questione di stoppata in sé (“attività verticale che accomuna il basket alla pallavolo”) ad essere quantitativamente indicativa, ma va forse interpretata come indicatore di un aspetto extra-statistico decisamente rilevante: la cosiddetta intimidazione.
Non è questa la sede per dilungarsi sull’argomento, ma sarà sufficiente osservare come, al di là delle stoppate effettivamente registrate, c’è un impatto psicologico dello stoppatore sull’attacco che lo affronta: spesso per non farsi stoppare si forza un extra-pass che diventa una palla persa, spesso si rinuncia al tiro, spesso si alza troppo la parabola per paura di vedere la palla incastonarsi nel tabellone o finire in quinta fila… tutti casi in cui la stoppata non c’è, ma il suo non-esserci fa almeno altrettanti danni…
Tirando le somme: 4 elementi ricorrenti su 6 riguardano la difesa… come se, in fondo, tutti questi numeri non facessero altro che convalidare statisticamente quel vecchio adagio che recita “Offense wins games, defense wins championships” (“l’attacco vince le partite, la difesa vince i campionati”)… ancora una volta dunque, i numeri contano (enumerano), ma si limitano a trascrivere solo parzialmente ciò che più conta: il verdetto del campo da Gioco.
Il cast da Finale
Passiamo adesso dalla macchina agli ingranaggi: è possibile individuare una certa ricorrenza di componenti umane, affini per caratteristiche, all’interno della struttura di squadra delle vincenti dell’anello: c’è una tipologia di giocatore che, seppur in roster differenti, non manca mai alle Finals?
Una occhiata agli assemblaggi delle Champions sembra lasciar intravedere principalmente tre ruoli che l’oscar della pallacanestro made in USA non manca mai di premiare a Giugno: se il vecchio West aveva il Buono, il Brutto e il Cattivo, l’Nba contemporanea ha: l’Interno, l’Esterno e il Tiratore.
L’Interno
Cifre: almeno 18/19 punti a partita, con circa il 50% dal campo, più di 9 rimbalzi per gara
Mansioni: Gioca sostanzialmente sotto, non sempre spalle a canestro, ma è la spina nel cuore della difesa interna avversaria: attira raddoppi, produce scarichi, nobilita la parola “lato debole”, triangola con gli esterni.
Segni particolari: Occupa spazio ed attrae la palla: se questa non è sul suo lato, certamente arriverà quanto prima; padroneggia l’arte del piede perno, del fade-away o è semplicemente un grosso tir diesel (ogni riferimento a O’Neal è puramente non casuale…); rischia di intasare l’area ai penetratori, di cui sfrutta spesso lo scarico, può garantire cruciali rimbalzi in attacco e blocchi sulla linea fondi degni di una betoniera ANAS.
Chi lo è stato (in ordine cronologico): S. O’Neal (due volte), T. Duncan (due volte), S. O’Neal, T. Duncan, K. Garnett.
Eccezione: L’unica squadra campione a non poter vantare un giocatore con queste cifre è la Detroit del 2004; quel mattacchione di Sheed sfiorava i 14 punti per gara con il 43% del campo e “soli” 7 rimbalzi… indubbiamente si tratta di un caso anomalo e, volendo proprio far quadrare i conti, possiamo trovare un attenuante per ogni voce statistica: per i rimbalzi basta considerare la compresenza con l’omonimo Ben (12,4 rimbalzi a gara) e la tendenza di Rasheed ad allargarsi sul perimetro; per quanto riguarda la percentuale, proprio i tentativi (solitamente frontali) effettuati da oltre l’arco producono inevitabilmente un calo delle percentuali di tiro complessive (tirava 3 volte a partita da tre, con un rivedibile 32%); per la media punti, va ricordato che nell’equilibratissimo attacco di Detroit, ben sette giocatori superavano i 9,5 punti a partita e nessuno arrivava a 18.
Di fatto, allora come adesso, quando Sheed gioca in post basso è poesia in movimento per chi lo guarda ed un grosso cruccio per chi deve farci i conti; forse non lo faceva spessissimo, ma la sua presenza interna credo vada definita come vero e proprio “fattore”.
L’Esterno
Cifre: almeno 15 punti con il 45% dal campo ed almeno 4 assist
Mansioni: Riceve fuori area, fronte a canestro, non ha necessariamente un tiro da fuori mortifero come la cicuta, ma attacca il ferro dal palleggio, penetra o fa arresto-e-tiro, esce dai blocchi, punisce la difesa quando si allarga troppo ed i suoi scarichi sono il pane quotidiano per i tiratori piazzati o per l’omone nel pitturato.
Segni particolari: Tratta la palla come uno yo-yo e questo implica che talvolta non riesce proprio a staccarsela dalle mani per darla via; per fortuna ci pensano gli avversari a fargli perdere qualche pallone, quando si infrange contro i raddoppi studiati apposta per lui; spesso si accorge di non essere in giornata solo a partita finita…
Chi lo è stato: K. Bryant (due volte), T. Parker, R. Hamilton (l’unico ad usare il palleggio con parsimonia), T. Parker, D. Wade, T. Parker, P. Pierce.
Il Tiratore
Cifre: tenta almeno 3 triple a partita con almeno il 37% (da 3)
Mansioni: Tira. Lo pagano per questo. Ha in carriera lo stesso numero di schiacciate di Spud Webb (Slam Dunk Contest escluso…), il sottomano lo esegue solo in contropiede, se proprio non può fare arresto-e-tiro. Senza palla, bazzica spesso sul lato debole, talvolta così ai limiti dell’“un-due-tre-stella!” che potrebbe intanto fare stretching (v. Bowen), oppure gestisce ordinatamente la palla, ma si ingolosisce appena la difesa gli concede un metro di troppo.
Segni particolari: Sono possibili differenti versioni: basic (Fox, Fisher, Bowen), deluxe (Allen, Ginobili), multifunction (play-tiratori: Billups, J.Williams), tutte comunque accomunate dai suddetti requisiti statistici.
Chi lo è stato: R. Fox, D. Fisher, B. Bowen (ne tentava 2,8 in 31 minuti, mi concedo l’approssimazione…), C. Billups, M. Ginobili, J.Williams, M. Ginobili, R. Allen.
L’importanza di questi tre pezzi è emblematicamente rappresentata dal caso dei Celtics 2007-2008: avevano già l’Esterno (Pierce), aggiungendo prontamente l’Interno (KG) ed il Tiratore (Allen) hanno completato il cast; la mentalità difensiva e la solidità degli attori non protagonisti hanno poi fatto il resto.
Un’ultima osservazione: in quella che abbiamo definito Nba contemporanea, l’unico a varcare la soglia della Top10 degli assist in una stagione da titolo è stato Wade, che nel 2006 si piazzò, con i suoi 6,7 assist per gara, decimo assieme a R. Alston; converrete che, in fondo, non si tratta proprio di un play-maker, ma piuttosto di un point-maker (all’epoca, 27,2 punti per allacciata di scarpe …).
Perciò, lui escluso, a vincere l’anello partendo dalla Top10 degli assist, vestendo l’abitino di playmaker (ormai quasi vintage) c’è stato come ultimo caso A. Johnson, che nel lontano 1999 finì nono nell’apposita graduatoria con 7,4 assist… prima di lui?
Bisogna risalire sino ai Pistons del ’90 in cui Thomas, con 9,4 assist a partita, fu sesto in campionato, ma (è decisamente il caso di dirlo) “erano altri tempi”…
Forse questa carenza, all’ultimo atto, di passatori quantitativi è dovuta al fatto che con le “nuove” difese post-2000 (curate ed organizzate con possibilità tattiche prima “illegali”), la gestione e l’inventiva del singolo non bastano più, occorre anche la lavagna del coach, ed una conseguente preparazione di squadra che prescinde dalle sole capacità del play di orchestrare “sul momento” il gioco in campo leggendo le situazioni difensive.
Non a caso, l’anno scorso i play delle Finals sono stati Fisher e Rondo, passatori abbastanza affidabili ed ordinati, ma non certo “gestori creativi”; eppure le due squadre, organizzate in campo con vistosa preparazione e perizia strategica degne di Sun-Tzu (l’autore di “L’arte della guerra”), hanno fatto vedere un bel basket offensivo, che non ha certo risentito, grazie alla solidità degli ingranaggi tattici, della mancanza di un play alla Nash o alla Kidd.
Ma forse, più probabilmente, si tratta solo di una coincidenza statistica, quindi “in bocca al lupo” ai vari Paul & compagnia, sperando che sfatino il tabù…
P.S. Per i curiosoni che si stanno chiedendo se c’è una squadra che, superato il giro di boa di metà campionato, presenti affinità numeriche con le “quasi-costanti statistiche dell’anello” individuate sopra, e magari anche i tre ruoli indispensabili, la risposta è…
Boston e Orlando posseggono già tutte le condizioni statistiche ricorrenti nelle Champions… Cleveland quasi tutte: sui rimbalzi difensivi è 13ma, ai margini della “consueta” Top12, ma la stagione è ancora lunga ed è una questione di briciole… anche i Lakers ed i Nuggets sono conformi in tutto tranne che nella percentuale di rimbalzi difensivi, ma in fondo i Lakers sono 16esimi ed i Nuggets 17esimi, potrebbero anche rientrare nelle Top12 a fine campionato… inoltre, tranne la solita Boston, le altre quattro sono già nella Top10 delle stoppate distribuite a partita…
Infine, come terzetti queste 5 squadre sembrano altrettanto promettenti: oltre all’inanellato trio Garnett-Pierce-Allen, abbiamo Gasol-Bryant-Fisher e Howard-Nelson-Lewis; un po’ più atipici sono Ilgauskas-James-West e Nenè-Anthony-Billups, con i due Interni che giocano anche lontano dal canestro (v. Big Z; provvidenziale al riguardo il sussidio di Hot Spots su nba.com) e, soprattutto, non calamitano esattamente raddoppi come Garnett, Gasol o Howard.
Come dite…?
Era già noto che queste fossero le attuali favorite, senza bisogno d’appellarsi a tante analisi statistiche?!
Bene, ciò significa che i conti tornano (e contano, in questo caso confermando il verdetto del Gioco; almeno per ora…).
Buona NBA a tutti.