Bosh e Stat: 2 stelle con ancora molto da dimostrare…
Quando negli USA, in ambito sportivo ti affibbiano un etichetta addosso, in linea di massima te la porti dietro per il proseguo della carriera.
C’è chi riceve l’appellativo di “soft”, chi di “perdente”, e chi viene rallentato nella sue evoluzione dalla pressione di essere considerato un “giocatore franchigia”.
Chris Bosh e Amar’e Stoudemire fanno parte di quest’ultima categoria, grandi giocatori, talenti incredibili, additati da tutti e da ormai qualche anno come giocatori di prima fascia, elementi di primo piano nel panorama NBA e sicuramente importanti nelle loro squadre, ma ancora non in grado di fare quel decisivo passo avanti per essere consacrati veri e propri giocatori che fanno la differenza, come i loro rispettivi team si aspettano e come su di loro hanno puntato, oltre che soldi, anche i rispettivi progetti tecnici.
Il loro destino per certi versi è parallelo, perché nei loro anni da rookie hanno mostrato lampi di classe cristallina e tanto potenziale da sviluppare, ma dopo il primo lustro abbondante passato nella lega sono ancora alla ricerca della definitiva consacrazione, da leggere come assoluta necessità di maturità .
Maturità non ancora trovata non certo esclusivamente per propri demeriti ma anche per pressioni di ogni sorta che in parte hanno rallentato il loro processo di crescita, come l’onore e onere di essere da subito considerati pietre angolari dei rispettivi club, iniziando come rookie per poi di punto in bianco trovarsi le chiavi della squadra in mano ma senza la patente adatta a pilotarla verso il successo.
E la patente è il paragone più calzante possibile con la maturità di cui accennavo sopra.
Per certi versi è come se fossero stati viziati dai rispettivi front office ed adesso non siano in grado di portarli dove loro vogliono andare, ovvero ai piani alti delle lega puntando innanzitutto su loro due.
Anzi, uscendo spesso all’attenzione dei media con alcune dichiarazioni o immagini non proprio brillanti, come la “corsa al voto” di Bosh lo scorso anno per partire titolare all’All Star Game pubblicizzata su ogni sito disponibile in rete, mentre la sua squadra non stava vivendo un periodo particolarmente brillante o alcune dichiarazioni di metà novembre in cui a seguito di numeri straordinari (3° marcatore della lega a quasi 29 di media) diceva che era pronto a puntare al titolo di MVP, numericamente alla mano ma avendo bisogno dei risultati della squadra per entrare realmente in lizza per quel premio, come a dire che più che vincere per il bene dei Raptors considerava le vittorie come un mezzo per un concorrere a un premio personale.
Pure Amar’e non ha certo avuto uscite felici con i media, contestando alcune decisioni in pubblico di D’Antoni che hanno creato frizioni tra giocatore e allenatore che poi hanno avuto la loro parte nel divorzio d’intenti tra il baffo e la dirigenza dei Suns.
Certe volte si è pure lamentato di avere pochi palloni giocabili per mano, di essere ritenuto una sorta di sponda nello spumeggiante gioco dei Suns.
Questi episodi per molti addetti ai lavori valgono più di doppie-doppie di media.
Quindi per loro, questo e il prossimo anno sono a tutti gli effetti da considerare le stagioni della verità , quelle che in vista dell’ormai emblematica estate 2010, sanciranno il giudizio definitivo sul loro status di giocatore, se vale o no il caso di annoverarli nella lista dei “campioni”, nella quale fanno parte i coetanei James, Wade, Paul e altri come Kobe, Pierce, o nella lista degli all star da cui pretendere poco più che una semplice apparizione ai play off, ma grandi cifre individuali e numeri da capogiro.
Può sembrare esagerato per due giocatori di 26 e 24 anni essere già giunti al punto di esami, nemmeno a metà del loro percorso professionistico e con il futuro dalla loro parte, ma riflettendoci bene, è giusto esigere da loro risposte, non ancora risolte, e che nell’imminente futuro dovranno trafugare molti dei dubbi che aleggiano sulle loro teste: riusciranno a essere i veri leader delle proprie squadre?
Apparentemente è una domanda senza senso, perchè dai numeri non dimostrano certamente di essere gregari, anzi, entrambi viaggiano al limite della doppia-doppia di media e sono le principali opzioni offensive delle rispettive squadre .
Ma per leadership non si intende solo quello.
Entrambi nei momenti clou della stagione hanno la cattiva abitudine a eclissarsi, a sparire, a ridurre il loro apporto e lasciare in cattive acque le proprie navi.
Bosh per due anni di fila ha portato i Raptors dell’era Colangelo ai play-off, la prima volta da sorpresa della stagione, l’ultima per il rotto della cuffia, con il medesimo risultato, una bruciante eliminazione al primo turno e tanti dubbi proprio sulla sua leadership.
Stat (il suo nickname… emblematico) è nella NBA dalla stagione 02-03 e i suoi Suns in questi 6 anni hanno raggiunto i Play off per 5 volte, ogni volta, tranne nel 2006, buttati fuori dai San Antonio Spurs con molti rimpianti.
E nel 2006, anno in cui Amar’e giocò solo 3 gare per via dei problemi al ginocchio che si è trascinato dietro per diverso tempo, esattamente la famigerata microfrattura che ha rovinato le carriere di giocatori come Webber e Penny Hardaway, i Suns privi del loro terminale offensivo principale arrivarono a un soffio dalla finale NBA, sconfitti dai Mavericks, esprimendo in assoluto il loro miglior gioco di sempre.
Non esattamente un bel biglietto da visita per certificare la propria attitudine alla leadership, anche se con diverse attenuanti, tra cui inesperienza e ingenuità contro la vecchia volpe Duncan e il volpone Horry.
Diventeranno dei vincenti?
Tanto alla fine si va sempre a finire lì, spesso il giudizio finale su una carriera si basa su quanto e come un giocatore ha vinto, per essere ricordato come uno dei più grandi di questo gioco, ed in qualche modo questa domanda è strettamente collegata a quella espressa qualche riga sopra.
Si perché mettere numeri altisonanti conta fino a un certo punto se poi non vengono finalizzati alla ricerca del risultato come primo e unico fine. E questo è il nodo fondamentale per cui Bosh e Stoudemire sono dei grande giocatori, ma non considerati come vincenti.
Perché per produrre come producono loro, trentelli a iosa, giocate spettacolari o segnali di dominio durante la partita, serve avere talento smisurato e abilità tecniche che pochi comuni mortali possiedono, ma per farti vincere una partita occorre anche una certa mentalità che i due al momento non hanno, vuoi per un motivo o per un altro.
Perché magari nella solita partita fanno 30 punti in 3 quarti e poi nell’ultimo quarto vengono annullati o non riescono a incidere, prendono 15 rimbalzi in 47 minuti e 40 secondi, ma si lasciano sfuggire di mano quello decisivo per la vittoria, fanno il muso duro quando segnano con fallo, ma protestano da scolaretti con gli arbitri per un mancato fallo fischiato a favore che ha prodotto una banale palla persa, talvolta sono egoisti e non fanno il bene della squadra ecc…
Dicevamo mentalità , quella piccola cosa che ha reso grandi, giocatori meno dotati dal punto di vista del talento, che pochi hanno innata, perché viene acquisita anche con l’esperienza e gli sbagli, che deve essere coltivata.
E Bosh e Stoudemire in questo preciso momento delle rispettive carriere hanno bisogno di supportare il loro sconfinato talento con la giusta mentalità , il meccanismo che li renderebbe i dominatori del ruolo nel prossimo decennio.
Perché proprio adesso?
Semplice, perché entrambi stanno vivendo una sorta di cambiamento, Bosh ha visto il suo miglior amico, Ford, essere tradato e il suo mentore, Mitchell, accantonato senza rimpianti da Colangelo.
Stoudemire, forte di grande credito verso la dirigenza, ha vinto la sua pseudo-battaglia con D’Antoni, ma adesso deve dimostare a Kerr che prendere le sue difese è stata la scelta giusta, e con il nuovo coach può incanalare il suo potenziale offensivo nella giusta direzione.
Suona come dispregiativo, ma entrambi sono stati messi un po’ con le spalle al muro, nelle condizioni di dimostrare realmente il loro valore al netto delle attenuanti, per poi nel 2010 trarne le valutazioni del caso, anno in cui entrambi possono uscire dai rispettivi contratti e in cui almeno 20 squadre NBA hanno messo loro gli occhi addosso.
Il compito non è semplice, la strada che dovranno percorrere, quasi in simultanea è ancora lunga e irti di pericoli che possono cambiare le loro carriere, ma hanno i mezzi per esplodere o implodere definitivamente.
Il loro destino è nelle loro mani, possono diventare campioni o diventare cast di supporto per altri campioni, a loro la scelta.