Via JRich, via il Barone, della grande squadra dei Playoff 2007 è rimasto solo Stephen Jackson…
Un’ estate e un paio di mesi di regular season: è stato questo il tempo necessario ai Warriors per gettare molto probabilmente al vento le fondamenta tecniche costruite nel biennio precedente, mettendosi nella condizione di ricostruire praticamente tutto dall’ origine.
Il biennio scorso (2006/08) era stato promettente non solo per i risultati ottenuti sul campo (il grande upset nella serie contro Dallas nel 2007, e le 48w della passata stagione) ma per l’ immagine che i Warriors erano riusciti a dipingere di sé sia dentro che fuori dal campo: quella cioè di una franchigia emergente, giovane, divertente, con uno stile di gioco, magari poco gradito agli intenditori più puri, ma di sicuro “controcorrente” e accattivante.
I Warriors soprattutto erano riusciti a trovare i giocatori simbolo di quella che avrebbe dovuto essere una crescita continua: la leadership del Barone, l’ agonismo di Step Jackson, il talento “in fieri” di Ellis e Biedrins. Sarebbero state sufficienti poche mosse di mercato ma ben piazzate per dare ulteriore consistenza a questa franchigia anche in prospettiva futura: rifirmare il Barone, trovare un giocatore da quintetto al posto del mai esploso e discusso Harrington, qualche ritocco alla panchina.
Ciò che contraddistingue una franchigia vincente è proprio questo: saper fare la cosa giusta al momento giusto per dare continuità e costanza ad un progetto. I Warriors invece, per l’ ennesima volta, hanno confermato questa loro inquietante quanto deleteria attitudine nel fare sempre la mossa sbagliata al momento sbagliato, neutralizzando in poco tempo la positività di scelte precedentemente azzeccate.
È una tendenza questa che storicamente ha sempre contraddistinto la società californiana, ovvero un profondo e perverso autolesionismo, quasi genetico, per cui sembra davvero impossibile seguire la direzione della competitività anche quando questa è indicata piuttosto chiaramente, e farsi risucchiare invece nel limbo della mediocrità .
Una mediocrità che non è mai anonima, poiché spesso le decisioni della società sono talmente sorprendenti e imprevedibili che i Warriors fanno comunque notizia per le gesta poco edificanti dei loro dirigenti e per l’ instabilità che queste sanno creare.
Gli ultimi sei mesi, da quando si è deciso di non estendere il contratto al Barone (che invece era assolutamente disposto a rimanere sulla Baia…), sono stati infatti una successione di scelte quantomeno azzardate, spesso rinnegate, e di conflitti intestini alla dirigenza, il tutto confluito inevitabilmente nel caos attuale sia tecnico che societario, e da cui si intravvedono a fatica spiragli di luce e ottimismo.
Tra la delusione per i risultati del presente e i dubbi relativi al futuro, quello che preoccupa di più sono i secondi, soprattutto in relazione agli obbiettivi che la società si era prefissata per quest’anno: far crescere i giovani, trovare dei leader, dare una precisa impronta tecnica alla squadra, creare le basi per il futuro.
Se da un lato infatti, il record perdente attuale poteva anche essere preventivabile visto quello che era successo in estate tra mercato ed infortuni con i conseguenti problemi di amalgama che ne sarebbero derivati, dall’ altro è molto più difficile accettare una situazione in cui la squadra, dopo tre mesi di campionato, appare ancora senza struttura e affidabili punti di riferimento.
È questa la grande paura che sta aleggiando sinistra su questa franchigia: la concreta sensazione che quest’anno possa essere archiviato senza costrutto, e che le difficoltà del presente non siano la tappa necessaria di un processo di crescita futura ma solo l’ inizio di un lungo periodo frustrante e deludente.
Per ricostruire occorrono idee chiare e possibilmente qualche punto fermo, qualche leader attorno al quale sviluppare gradatamente un progetto: è stata questa, la mancanza di un punto di riferimento, la prima ed evidente lacuna che i Warriors hanno mostrato, soprattutto in campo, fin dall’ inizio poiché il leader che c’era prima si è pensato bene di non rifirmarlo (Baron Davis), quello che era stato ufficialmente investito per questo ruolo si è lasciato andare alla superficialità dell’ età (Monta Ellis), quello che avrebbe dovuto esserlo nel frattempo è stato travolto dal marasma generale (Step Jackson).
La prima serie di gare si è rivelato quindi un autentico calvario nel tentativo di individuare chi potesse rappresentare il male minore (se non proprio la soluzione ideale…) come play titolare.
Marcus Williams, acquistato in estate dai Nets per coprire le spalle a Ellis, avrebbe dovuto essere in teoria il titolare del ruolo e tappare il buco in attesa del rientro di Monta, ma il giocatore è stato messo subito fuori rotazione da Nelson per problemi di peso e perché poco adatto ai ritmi del suo sistema.
Nelson, allora, ancora una volta ha stupito tutti lanciando come play titolare Demarcus Nelson, undrafted da Duke, giocatore che poteva essere interessante per l’ esplosività fisica e l’ aggressività difensiva, ma l’ esperimento è naufragato in pochissimo tempo visti le sue notevoli lacune tecniche, di comprensione del gioco e di esperienza. Cabina di regia affidata quindi a C.J. Watson ma anche in questo caso i risultati sono stati negativi poiché il peso delle eccessive responsabilità non ha fatto altro che acuire ancora di più quei limiti tecnici e di razionalità che il giocatore aveva già mostrato nella sua esperienza italiana a Reggio Emilia.
A quel punto quindi, Nelson ha attuato un’ idea che già era circolata nell’ ambiente durante l’ estate ma che in teoria doveva rappresentare una soluzione ultima ed estrema: Jackson da point-guard, un ruolo che Step aveva già ricoperto durante la High School ma che non aveva mai sperimentato durante la sua carriera da Pro. Nelson sperava di sfruttare le qualità passatorie (spesso sottovalutate) di Jackson, i pick&roll con Biedrins, la sua leadership nei confronti dei compagni ma, come poi hanno ampiamente dimostrato dai fatti, si trattava esclusivamente di un estremo rimedio dettato dalla disperazione del momento.
I problemi tecnici di Jackson, impiegato nel suo nuovo e insolito ruolo, sono emersi in tutta la loro evidenza in modo addirittura impietoso: il trattamento di palla è stato da sempre una sua debolezza anche a causa di una postura troppo rigida del corpo durante il palleggio, mentre le sue doti di passaggio e di visione di gioco sono discrete per una guardia ma non sono sufficientemente solide per un playmaker. Jackson inoltre è un attaccante abituato a aggredire il canestro con l’ istinto più che con la logica, il che non è evidentemente compatibile con la mentalità altruistica e razionale di chi invece deve coinvolgere i compagni; inoltre è un eccellente giocatore di complemento quando può sfruttare lo spazio creato dai compagni (Davis…), ma non dispone di un talento o di una esplosività tale per poter essere il principio di un attacco.
Le conseguenze inevitabili sono che il giocatore non è mai riuscito a interpretare il ruolo con naturalezza, trovando magari un giusto bilanciamento tra le soluzione personali e quelle per i compagni: Jackson alternava fasi di gara in cui si ostinava a creare qualcosa per i compagni forzando così passaggi e situazioni di gioco, ad altre in cui invece ricercava con insistenza le soluzione personale nel tentativo di trascinare la squadra.
Le sue statistiche attuali ampiamente deficitarie e persino ingenerose per un giocatore con quel carattere, quell’ agonismo e quella dedizione (38% dal campo, 28% 3p, quasi 4p.perse), sono tuttavia lo specchio fedele di situazioni in cui i limiti tecnici si sommano a decisioni poco lucide. Alle difficoltà di Jackson nel ricoprire un ruolo e un’ importanza per la squadra che vanno probabilmente al di là delle sue caratteristiche e abitudini tecniche, si sono aggiunti poi altri problemi che hanno aggravato ulteriormente la situazione offensiva dei Warriors: le carenze tecniche nel reparto esterni e i principi di Nelson.
Se si considerano infatti i (molti…) giocatori di perimetro dei Warriors, un dato è emerso evidente e impietoso in varie partite: la scadente qualità nel trattamento di palla, nel passaggio e nella lettura delle più banali situazioni di gioco, in definitiva in quei fondamentali che sono indispensabili per la costruzione e l’ esecuzione di un gioco offensivo.
È un problema questo che va in gran parte ricondotto alle caratteristiche dei singoli, poiché giocatori come Jackson, Maggette, Azubuike, Morrow sono tutti in grado di mettere punti a referto ma sono decisamente in difficoltà quando si tratta di far circolare la palla e coinvolgere i compagni; inoltre, l’ utilizzo eccessivo (Watson) o anomalo (Jackson) di alcuni elementi e l’assenza di una point-guard affidabile che potesse se non altro dare sicurezza alla squadra, hanno esasperato la questione.
Per di più, il classico sistema offensivo voluto da Nelson e basato sugli isolamenti in 1c1, non ha di certo aiutato l’ attacco a sviluppare un sistema corale. In questo modo, i difetti e le tendenze individualistiche di alcuni giocatori, invece che essere parzialmente nascosti, sono stati messi a nudo ancora più spudoratamente: Maggette, già noto per essere un accentratore alla ricerca continua di tiri liberi, ha accentuato il suo egoismo a tal punto che, quasi sempre, le sue recezioni in attacco erano anche quelle che concludevano l’ azione. Jackson, analogamente, quando non si intestardiva in assist improbabili, tendeva a risolvere le cose da solo rifugiandosi in isolamenti che spesso producevano però tiri forzati se non addirittura scriteriati.
La miscela tra i limiti della squadra e la filosofia di Nelson ha partorito un attacco asfittico, statico, senza strutturazione e assolutamente incapace di generare tiri e opportunità ad alta percentuale. L’ esecuzione è stata faticosa e sgradevole come raramente si vede, senza ritmo e continuità , che non di rado si risolveva in un passaggio a chi, di volta in volta, fagocitava la palla per la soluzione individuale. Non si sono sfruttati in questo senso nemmeno i miglioramenti di Biedrins che sembra più affidabile e più aggressivo in post-basso rispetto agli scorsi anni: la mancanza di buoni passatori e la perimetralità dell’ attacco hanno costretto il lettone ad accontentarsi dei soliti canestri di rapina.
I punti segnati in media dai Warriors (104.9ppg, 2° attacco della Lega) non deve ingannare poiché la produzione offensiva è comunque favorita dall’ alto numero di possessi, dal tiro rapido e dal fatto che con l’ acquisto di Maggette, i Warriors sono diventati una delle squadre con più viaggi in lunetta (29.3, 3° nella Lega); le statistiche che invece danno l’ esatta misura della situazione sono quelle relative alle percentuali di tiro (43.9% complessivo e 32% 3p), alle palle perse (14.8) e agli assist (19.8, 23° nella Lega), il che lascia chiaramente pochi dubbi sulla qualità delle scelte.
Per togliere un po’ di sofferenza al gioco e restituire alcuni giocatori ai loro ruoli più naturali, la dirigenza è intervenuta sul mercato scambiando Harrington, perennemente insoddisfatto del suo utilizzo da parte di Nelson e ormai senza stimoli, per Jamal Crawford.
Con l’ arrivo dell’ ex-Knicks, la società sperava in un deciso update nella posizione di play (ruolo comunque non naturale Crawford) e di trovare un giocatore che, in prospettiva futura, potesse aiutare Ellis nella sua conversione da point-guard.
I benefici però sono stati molto approssimativi: l’ arrivo Crawford ha garantito un’ altra bocca da fuoco al team, ha restituito Jackson al suo ruolo di guardia e Watson a quello di cambio. Tuttavia la qualità del gioco non è complessivamente migliorata: il ball-handling di Crawford è nettamente più solido, questo però non significa essere il faro di un attacco.
Crawford è, per genesi, più un realizzatore che un costruttore e di conseguenza nemmeno lui è in grado di garantire, con continuità , razionalità ed equilibrio nell’ esecuzione a metà campo. Con il nuovo arrivato i Warriors hanno trovato semplicemente un altro catalizzatore di palloni e un’ altra vittima di questo marasma tecnico a tal punto che persino le sue statistiche sono crollate rispetto a quelle di New York (dal 43.2% dal campo al 40.2%, dal 45.5% da3p al 29.7%).
La cattiva esecuzione, inoltre, si nota ancora di più poiché i Warriors sfruttano poco l’ arma del contropiede, specialità in cui gli uomini di Nelson primeggiavano durante la scorsa stagione e che rappresentava una risorsa essenziale per un attacco, in certi casi, un po’ monocorde. Nel campionato in corso, viceversa, il contropiede è innescato raramente: questo costringe la squadra a giocare quasi sempre a difesa schierata e ad esporsi maggiormente a certi vizi strutturali.
Il problema del contropiede dipende tanto dall’ attacco quanto dalla difesa. Innanzitutto con la partenza del Barone e l’ infortunio di Ellis, sono venuti a mancare i due principali interpreti del gioco in velocità del passato biennio: il Barone era una delle point-guard più potenti e veloci nel guidare il contropiede, mentre Ellis era uno dei migliori finalizzatori in velocità della Lega.
Quest’anno invece mancano giocatori con queste caratteristiche: Jackson, Maggette, Azubuike non sono né velocisti naturali né tanto meno sono in grado di condurre un contropiede, mentre le letture di Watson in velocità sono a volte persino tragiche.
E non abbiamo ancora parlato della difesa…
(Continua)