Tutto cominciò nel Febbraio 1985. Michael Jordan vola con l'oro al collo e le scarpe Nike personalizzate
Tutto cominciò nel mese di Febbraio del 1985.
Siamo all'All Star Game. In campo per la squadra della Eastern Conference c'è un rookie da North Carolina che cambierà la storia del gioco. Si chiama Michael Jordan, gioca guardia per i Chicago Bulls.
E' già noto al grande pubblico per aver messo a segno il tiro della vittoria per i suoi Tar Heels contro Georgetown nella gara per il titolo NCAA del 1982. Da rookie poi, si è già fatto apprezzare per il suo gioco spettacolare, qualcosa di mai visto prima.
Ma il giovane Michael decide che quell'All Star Game è il palcoscenico per fare conoscersi meglio, anche oltre il campo da basket. Si presenta al riscaldamento pre-partita non con la canonica divisa della Eastern Conference ma con un proprio completo personalizzato, firmato dalla Nike.
A questo aggiunge delle vistosissime e luccicanti catene d'oro al collo e le scarpe con firma propria, le Nike Air Jordan. La Lega lo ammonisce, gli intima di attenersi al conformismo, alcuni suoi colleghi di squadra più anziani, come Isiah Thomas, cominciano ad odiarlo.
E' qui che comincia tutto. Michael si rifiuta di sottostare alle vecchie regole della NBA, da un anno nelle mani di David Stern, e mette in campo un comportamento che contemporaneamente risuona dai boom-box dei ghetti d'America.
La generazione hip hop è appena sbarcata nella NBA.
Michael è stato un'icona, un mito da seguire. Personalmente non è legato così tanto alla cultura hip hop ma i giovani lo vedono come l'inizio di una nuova epoca, di un nuovo stile di vita che nel frattempo sta prendendo il potere nei quartieri neri delle città d'America.
L'hip hop non è affatto soltanto una musica. L'hip hop è una cultura che comprende l'arte del DJ e dei graffiti, insieme ai movimenti di danza dei b-boys and girls e soltanto alla fine del rap. I primi MC cominciarono a sparare le loro rime a ritmo di musica nei locali del South Bronx nella seconda parte degli anni '70.
E' qui che nacque la musica, la cultura ad essa connessa avrebbe inondato i quartieri neri nel giro di pochi anni. Oggi la cultura hip hop domina incontrastata tra i giovani neri metropolitani e da un po' di tempo è la cultura di riferimento maggioritaria anche nella NBA.
Per capire meglio come l'hip hop abbia cambiato la NBA e quindi il basket dobbiamo fare un passo indietro.
Avrete forse visto un film come Shaft, ambientato a New York nel 1971. Ecco, è un film che mostra chiaramente un quartiere nero, in questo caso Harlem, prima dell'ondata hip hop. I giovani hanno modelli confusi, il sogno americano per loro è ancora una colossale presa in giro.
Il basket è già il loro gioco ma gli anni '70 segnano solo l'inizio. La NBA diventa la lega di strapagati giovani neri drogati e violenti. Un giocatore come Reggie Harding, per esempio, già porta negli spogliatoi una pistola, caso unico e sinistro tra le leghe pro americane, ma solo con l'avvento dell'hip hop comportamenti come questi vengono codificati e portarti all'attenzione del grande pubblico.
Il rapporto tra i ragazzi del ghetto e il basket è molto intenso, ma diventa travolgente solo con l'avvento di Michael. E' lui che porta una ventata di aria nuova, è lui l'eroe che tutti vorrebbero imitare, è lui che ha le scarpe più belle, è lui al quale non interessano le regole perché conta solo affermarsi, fare soldi, diventare famoso e rispettato.
La generazione hip hop inizia così, con folle di ragazzini che fanno la fila ai negozi per comprarsi le loro Air Jordan, oppure le Adidas dei Run D.M.C., il primo grande gruppo dal Queens. Comincia come stile, come modello di vita.
Spike Lee girerà con Michael una serie di spot Nike diventati leggendari, nella parte di Mars Blackmon, uno dei protagonisti del suo film d'esordio, She's gotta have it. Il successo è incontenibile, il basket diventa un veicolo potentissimo di marketing.
It's gotta be the shoes diceva Spike, ovvero, vai ragazzino a comprarti le scarpe e volerai come lui. Like Mike già , altro spot altro giro. I giovani di tutta America sono ai suoi piedi. Letteralmente.
E pensare che proprio l'anno primo delle catene d'oro al collo di Michael Kurtis Blow scalava la classifiche con "Basketball", prima hit dedicata al gioco.
Se il buon vecchio Kurtis avesse aspettato alcuni mesi avrebbe parlato anche di MJ, così il suo pezzo rimane una testimonianza, bellissima, di un modo di giocare a basket che era appena nato ma che avrebbe trovato di li a poco il suo re.
Oggi il legame tra hip hop e basket è quanto di più intenso si possa immaginare. L'hip hop ha cambiato il basket e le canzoni ne sono piene di riferimenti. Non è solo questo.
Il campo da basket è l'agorà di ogni quartiere afro-americano, il luogo sociale per eccellenza. Sul campo si gioca e appena intorno ad esso si ascolta l'ultimo pezzo del rapper del momento, tutto intorno si radunano ragazzi e ragazze che qui coltivano le loro amicizie, magari, anzi purtroppo è anche questo, dietro al canestro lo spacciatore sta vendendo la sua dose di crack.
Oggi l'hip hop è l'unica colonna sonora dei video di basket su Youtube, come di tutto un mondo conosciuto come streetball di cui parleremo più avanti. Si può affermare con più facilità che i giovani afro-americani hanno soprattutto due miti.
"I had a choice.. be like Mike, or be like you – I made a choice, now its be Crip or be Piru" dice The Game, il mio rapper preferito di oggi. La scelta è diventare come Michael Jordan o come Dr. Dre, al quale il brano, anzi tutto l'album è dedicato.
The Game ha scelto il rap, più in particolare il gangsta rap, e quindi la scelta successiva fu quella tra i Crip e i Blood, le due gang dominanti di L.A. Anche di questo parleremo più avanti.
Come ho già accennato l'hip hop basketball è un modo di giocare, e non mi riferisco solo agli shake and bake di Jamal Crawford o ai tricks un po' più old school di Rafer Alston aka Skip to my Lou, ma ad una mentalità che è nella testa della maggioranza dei giocatori neri della NBA.
La storia di questa mentalità ha tappe precise.
Se in principio fu Micheal fu poi il suo grande amico Charles Barkley a dire chiaramente come stavano le cose. Charles è un ragazzo dell'Alabama, profondo Sud, come Michael è cresciuto in una città medio-piccola del North Carolina.
C'entra poco l'hip hop in senso stretto, è per lo più una questione di mentalità nuova che vuole affermare il giovane nero come dominatore del gioco ma ancora prima come una persona dura, determinata, che non è soggiogata dal compromesso e dal potere dei bianchi.
Charles è tutto questo, un duro che dice come la pensa, "un nigga degli anni '90" come ha detto lui stesso. Charles è uno che non si tira indietro, prende valanghe di rimbalzi ed è coinvolto in innumerevoli risse fuori dal campo. E' un nero che i bianchi sono costretti a rispettare, è la prima personificazione del "keep it real". Ovvero, come i soldi e la fama cambiano tutto ma non la testa. Quella è la stessa di quando da ragazzo soffriva la povertà e il degrado.
E' un tipo sincero. Si è sempre sforzato di dire non essere un modello per i giovani. Lui è un tipo vero, non è il risultato della pubblicità buonista che impera nei media.
Il primo grande giocatore a portare anche la musica su un campo da basket è Shaq. Un personaggio memorabile, a cui dobbiamo tanto divertimento. Con Shaq i toni si placano, si ride e si scherza. Già agli Orlando Magic incide i suoi primi dischi, il passaggio a Hollywood fu obbligatorio.
Il suo album d'esordio, Shaq Diesel, del 1993, arriva al 25° posto della classifica di Billboard, anche se a detta di molti il suo rap non è memorabile. Di sicuro è un rap scanzonato, consone a un ragazzo che non odia la polizia come gli N.W.A. ma anzi, sogna un giorno di farne parte.
E' nel draft del 1996 che il simbolo eterno entra in campo.
Di questo parleremo nella prossima puntata, dove daremo anche uno sguardo al college basketball tra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90.
Gli anni '90 sono appena iniziati. Il gioco si fa duro e i duri cominciano a giocare.