Inizio in salita per gli Spurs
Ci sono due modi per costruire una squadra in grado di vincere il titolo Nba.
Tirare su la baracca mattone dopo mattone, pazientando per le eventuali carrettate di sconfitte e gli inevitabili problemi in corso d’opera, oppure provare con il colpo di spugna, tentare di cambiare tutto in un colpo solo, nel breve spazio di un’estate o di una sola stagione, e provare a formare un gruppo capace di vincere subito. Magari non a lungo, ma subito.
In questo secondo caso, a dirla tutta, devono concorrere altri fattori: la possibilità (e l’abilità ) di creare abbondante spazio salariale, la capacità del gm di perfezionare le trades e gli ingaggi giusti, la competenza di staff tecnico e dirigenziale per plasmare il nuovo gruppo e infondere da subito la mentalità giusta.
Qui mi vengono in mente gli ultimi Boston Celtics, perfetto esempio di gestione: una franchigia storica, passata in un amen dallo status di squadra da lotteria a quello di campione.
Certo, non sempre le ciambelle riescono col buco; quello dei Celtics è un caso raro, dove agli ottimi elementi tecnici già presenti in squadra sono stati aggiunti giocatori di classe ed esperienza, affamati di vittoria. Non alcuni, ma quelli giusti.
Un mix letale, che con i dovuti accorgimenti potrà durare nel tempo.
Ma c’è anche chi sceglie la prima via, aggiungendo al puzzle un pezzo dopo l’altro, con pazienza e meticolosità .
A San Antonio, per esempio, la ricetta ha portato 4 titoli in 9 anni, con la creazione di una vera e propria dinastia; e non c’è stata primavera, da allora, che non abbia visto gli Spurs protagonisti in post-season, a giocarsi il titolo, o comunque a vender cara la pelle prima di arrendersi ad un passo dalle Finals.
Ma ora qualche dubbio inizia a serpeggiare, sia nei confronti degli Spurs, che comunque negli anni hanno vinto tanto, che per altre franchigie da tempo al top, ma ancora alla ricerca dell’agognato titolo Nba.
Proviamo ad analizzare la situazione di 4 squadre, diverse per storia e formazione, ma giunte tutte quante allo stesso bivio.
Detroit Pistons
Prima ancora di capire dove potesse arrivare questa Detroit nella stagione appena iniziata, Joe Dumars ed il suo staff hanno piazzato il colpaccio. E mica roba da poco: dopo sei stagioni e 463 partite con la casacca dei Pistons, Chauncey Billups ha fatto le valigie ed è tornato a Denver, nel suo Colorado, nella sua città natale, in uno scambio che ha portato nella Motown niente meno che “The Answer”, Allen Iverson.
Ora si tratta solo di vedere come si ambienterà il talento di Hampton (in scadenza a fine stagione) con i suoi nuovi compagni.
Lasciando da parte i giudizi personali (per me, potenzialmente, la cosa potrebbe funzionare), resta parere di molti che questo gruppo sia arrivato al capolinea.
Lo starting five dei Pistons, come detto più volte, è comunque uno dei più affidabili e concreti della Lega, o almeno lo era con Billups. Ora la squadra ne guadagnerà in fantasia, imprevedibilità , punti, ma certamente verrà a mancare il regista, il cervello che faceva funzionare il meccanismo.
Detroit è tra quelle squadre che hanno scelto la continuità in questi anni, cambiando poco ma in modo mirato: la strategia ha portato alla conquista del titolo nel 2004 (Billups mvp, ndr) e la finale l’anno dopo, con la squadra sempre tra le primissime.
Ma allora chiediamoci: per la franchigia del Michigan è giunto il tempo di rifondare, come qualcuno sostiene da tempo?
Forse. Almeno in parte. Ok, mi spiego: Billups e McDyess sono partiti, Sheed è in scadenza e secondo molti non rinnoverà .
Ora, anche se a fine stagione Iverson e Wallace non rinnovassero, i Pistons potrebbero (ri)partire da un gruppo certamente promettente: i veterani Hamilton e Prince, i giovani Stuckey, Maxiell e Amir Johnson (tutti migliorati molto). A quel punto, lo spazio salariale a disposizione permetterebbe di fare la voce grossa nel mercato estivo dei free agents.
Insomma, a Detroit la trasformazione sembra davvero imminente. Potrebbe essere la fine di un’era, ma anche l’inizio di un’altra. Con un centro di sostanza ed una guardia affidabile, si potrebbe restare in pista.
E quest’anno? Non sarà per niente facile, ma un ultimo squillo di tromba me lo aspetto dai Pistons. Sarà dura, ma tra le squadre che esaminiamo, a mio parere, è quella che potrà fare più strada.
Dallas Mavericks
Da Est ad Ovest, per una squadra giunta forse al capolinea prima di un profondo cambiamento, che potrebbe trasformare radicalmente la franchigia texana. Gli sforzi di Mark Cuban e del suo staff sono stati notevoli, ma il tanto agognato titolo, pur passato più volte sulle strade del Texas, non si è fermato a Dallas.
Non sarebbe giusto sottovalutare i Mavs solo per la prematura uscita di scena agli ultimi playoffs (contro New Orleans), o per la brutta partenza di questi primi giorni. Ma non si può neanche far finta di niente: gli anni passano, e nonostante le triple doppie di Jason Kidd e la solita, straordinaria sostanza di Nowitzki, per Dallas potrebbe davvero essere l’ultimo anno a certi livelli, prima di una inevitabile rifondazione.
Il problema sta soprattutto nel fatto che la squadra, non più giovanissima, è inserita nella division più dura, la Southwest, e a sua volta nella Western Conference. Il che, in parole povere, significa dover dare tutto già in regular season per acciuffare i playoff, con il rischio di esaurire le batterie proprio nel momento topico.
Lo starting five di quest’anno (con Gerald Green), di per sé è competitivo, ma la sensazione è che la squadra, complessivamente, non sia al livello delle principali concorrenti dell’Ovest (Lakers, Houston, Phoenix, Utah, forse anche Portland tanto per citarne qualcuna).
Il collettivo è collaudato, ma rispetto all’anno scorso è cambiato veramente poco, forse troppo poco.
E se prima si poteva accampare, come parziale scusante, una sintonia tutta da trovare con l’arrivo di Kidd nella passata stagione (operazione peraltro non riuscita), ora fallire significherebbe quasi certamente dover rivedere tutto l’impianto della squadra. A fine anno ha pagato Avery Johnson, sostituito da Rick Carlisle.
Personalmente non avrei mai sacrificato Devin Harris, giocatore dal quale si poteva iniziare la ricostruzione. Playoff sicuri, poi tutto si complicherà maledettamente.
San Antonio Spurs
Discorso complesso.
Siamo talmente abituati a vederli là in alto, a maggio inoltrato, nonostante un basket forse non sempre spumeggiante ma efficace come pochi, che rischiamo di aver perso di vista la realtà .
Che è fatta di un roster avanti con l’età (8 elementi su 15 hanno superato la trentina, 3 addirittura i 35), in una Western Conference che non è esattamente stata a guardare.
I Lakers, tanto per chiamare in causa la squadra che li ha estromessi dall’ultima corsa al titolo, ora sembrano lontani anni luce. E forse lo sono.
I texani stanno pagando, in queste settimane, l’assenza di un giocatore chiave come Manu Ginobili, che il marchio da vincente lo porta impresso nel dna, ma ben altri problemi rischiano di oscurare il tramonto sul Riverwalk.
Il reparto lunghi si poggia su Tim Duncan: la Hall of Fame attende solo il suo ritiro per poterlo annoverare tra le leggende del basket. Finchè regge, è doveroso annoverare gli Spurs quantomeno tra le protagoniste del “West side” Nba.
Anche tra gli esterni alla squadra mancano alternative di qualità ai titolari, che pure hanno i loro anni e non possono più garantire minutaggio e produzione (offensiva e difensiva) dei tempi passati. Dal mercato novità di rilievo non ne sono arrivate, e queste prime gare ufficiali stanno mettendo in evidenza tutti i problemi di cui sopra. Per ritrovare un record simile, ad inizio stagione, bisogna andare indietro di decenni.
Tra poco rivedremo l’argentino in campo, e il record passerà in breve tempo in territorio positivo.
Rognosi, difficili come sempre da affrontare: se cambiassero qualcosa a stagione in corso, forse potrebbero essere ancora sperare in una stagione di soddisfazioni, ma la dinastia ultradecennale sembra che stia per scrivere il capitolo finale di una storia che racconta di grandi protagonisti e 4 titoli Nba.
Io credo che arriveranno ai playoff. Dopo bisognerà ricostruire. Per forza.
Phoenix Suns
Ecco una squadra che i primi, sostanziali, cambiamenti ha già iniziato a metterli in atto.
Ecco una squadra che pensavo di vedere campione, negli anni passati.
Credevo che il run & gun di D’Antoni, in un’epoca in cui l’Est non aveva grandi alternative ai Pistons (e agli Heat), prima o poi potesse portare almeno un titolo, una volta superate le resistenze di San Antonio, da questa parte della Lega.
Così non è stato, e la dirigenza ha preferito cambiare, anche perché ormai si era giunti ad un bivio.
Nel corso dell’ultimo campionato è arrivato Shaq, che con Stuodemire forma una signora coppia, anche se in questo primo scorcio di stagione Phoenix è solo 21° per rimbalzi catturati; nell’Arizona sono sbarcati anche Barnes (in questo avvio di stagione, più minuti, più punti e più rimbalzi per lui, ndr) e l’intrigante rookie Robin Lopez.
Anche in questo caso, non considerarli tra i favoriti sarebbe ingiusto, ma proprio come per Dallas e San Antonio l’età di alcuni giocatori chiave di Phoenix non aiuta la causa.
Se la schiena di Nash tiene, potrebbe venir fuori una buona stagione; a lui, come a Shaq o a Grant Hill, non manca di certo l’esperienza necessaria in sede di playoffs.
Il problema è come si arriverà in fondo, e soprattutto in quale posizione, visto che ad Ovest questo non è certo un dettaglio.
La differenza con il passato, anche recente, è piuttosto evidente. L’impressione, se non verrà fuori una grande stagione, è che cambieranno altre cose.
I tifosi, laggiù ai margini del deserto, forse rimpiangono di non poter vedere un talento come Rudy Fernandez con la casacca dei Suns. Peccato, perché poteva essere uno splendido punto di partenza per la ricostruzione di una squadra che, alla fine della prossima stagione, rischia di restare orfana del suo leader.
Playoff sì, ma il futuro è da decifrare.