Intervista a Charlie Yelverton

Lo stile del grande Charlie Yelverton

"Ho superato il punto di non ritorno. Sai qual è? È il punto in cui, in un viaggio, è più conveniente proseguire che tornare indietro" (William Foster)

Di chi è questa frase? Chi può essere così arrabbiato col mondo? Chi è lo sconosciuto William Foster?
È niente poco di meno che l'interpretazione di Michael Douglas nel film del 1993 "Un giorno di ordinaria follia" (Falling Down il titolo originale). Nel film diretto da Joel Schumacher si racconta la storia di un uomo normalissimo che, schiacciato da mille problemi comuni, di colpo esplode e commette una follia dietro l'altra tra le strade di Los Angeles abbattendosi su chiunque gli si pari davanti.

Ecco, questa intervista non parla di un pazzo in camicia e valigetta com'era Douglas nel film, tutt'altro, si parla di uomo straordinariamente umile che ha avuto un momento di debolezza dovuto a problemi ben più grandi rispetto al traffico o ad un divorzio (due esempi tratti dal film citato poco fa).

Questa è la cronaca di un'intervista a quattro mani e due birre fatta con Charlie Yerverton in uno sperduto bar tra le montagne piemontesi, quasi a suggellare l'unicità  del personaggio.

Charlie Yelverton è stato uno straordinario giocatore degli anni 70, visto in Italia con la maglia di Varese e Brescia dal 1974 al 1979.
È entrato di diritto tra gli immortali dell'Eurolega indossando la canotta numero 20 di quella Ignis Varese 1974 - 1975 che in finale battè il Real Madrid lasciando ai posteri un record difficilmente battibile: solo vittorie in Europa. Le altre due finali di Coppa Campioni da lui disputate non arrisero ai lombardi, usciti perdenti sia nel 1978 sia l'anno successivo, ma ciò non tolse a Charlie il titolo di gran protagonista di una squadra rimasta negli annali e nelle menti di tutti.

Vinse anche il titolo italiano nel 1977 - 1978, il primo anno dei due americani in campo, recitando da grande spalla alla micidiale macchina da canestri di nome Bob Morse, prima di andare ad inizio anni '80 a chiudere la carriera poco oltre la frontiera svizzera nel Lugano.

La cosa che più ci si ricorda di Yelverton è sicuramente la sua capacità  di volare, quelle sue sospensioni interminabili, quei suoi tiri a prima vista impossibili contro bestioni molto più grossi ma che fregandosene della fisica e della logica andavano sempre dentro.

Matteo: Salve signor Yelverton, lei come Joe Isaac è newyorchese purosangue, e ha sviluppato tutta la sua carriera scolastica tra il fiume Hudson e l'oceano Atlantico. Che ricordi ha degli anni spesi tra liceo (a Rice High School) e college (all'ultrasecolare Fordham)?

Charlie: Ho dei bei ricordi degli anni accademici, spesi in scuole con team sempre competitivi. A Rice ero compagno di Bob Lienhard, che ha poi giocato a Cantù, e che era chiamato "cuor di leone" (storpiando il cognome in lion heart) per sottolineare il suo grande coraggio. Mi ricordo di grandi sfide con la Power Memorial di Kareem Abdul-Jabbar, anche se lui se ne andò al college quando ero al secondo anno e non ebbi grandi possibilità  di affrontarlo sul campo. Ma rimanemmo grandi amici, sia in campo sia soprattutto fuori.

Matteo: Ha qualche episodio particolare da raccontare sulla sua amicizia con lui?

Charlie: Mi ricordo che una volta lui vide il mio sax e mi disse di possederne a casa uno ma di non saperlo suonare. Preferiva le sue 500 macchine per passare il tempo, piuttosto che quel sax di marca Selmar, le Ferrari dei sax, ed il suo era uno strumento che valeva almeno 2000$. Decise che me lo avrebbe ceduto per pochi dollari, e così quando con i Blazers andammo a giocare contro i Knicks l'11 dicembre 1971 lasciai per qualche momento i miei compagni e andai in taxi a casa di Kareem. C'era sua madre che si ricordava molto bene di me e mi diede l'impolverato sax del figlio.

Matteo: Eravamo rimasti alla sua borsa di studio a Fordham, prestigioso college privato con sedi dislocate nei vari neighbourhood di New York City.

Charlie: Già , entrai nel 1967, proprio alle porte delle grandi ribellioni contro il sistema e contro le guerre ma non potetti muovere un dito. Se l'avessi fatto la mia borsa di studio sarebbe sparita all'istante. La squadra di basket era più che buona, arrivammo anche al torneo NCAA nel 1971. Furono bellissimi ricordi, che però finirono quando nella semifinale del Regional Est perdemmo contro i futuri finalisti di Villanova.
Di quella squadra ricordo Ken Charles, futuro protagonista NBA con i Braves e gli Hawks (NdA: Charles è stato uno dei due cestiti di Trinidad e Tobago ad arrivare sino ai pro), oltre che il mio grande amico PJ Carlesimo.

Matteo: Proprio l'allenatore di Seattle?
Charlie: Vuoi dire Oklahoma?
Matteo: Sì, che stupido lapsus, l'allenatore dei Thunder?
Charlie: Già , Carlesimo era sempre il mio compagno di stanza e durante le trasferte eravamo inseparabili. Si vedeva subito che aveva la stoffa dell'allenatore (NdA: anche il babbo di Carlesimo era head-coach, sedette a lungo sulla panchina di Scranton University e della stessa Fordham). Peter J. venne anche in Italia, quando nell'estate del 1973 si mise alla guida di una selezione americana, il Gillette Team, che frequentava i più importanti tornei estivi.

Matteo: Torniamo a lei, che nel 1971 finisce l'esperienza a Fordham e attende una chiamata dai professionisti. Saranno i neonati Blazers a sceglierla per venticinquesimo, in un draft profondamente diverso da quelli del giorno d'oggi (NdA: c'erano state qualcosa come 237 scelte quell'anno, alcune squadre scelsero addirittura al diciannovesimo giro). Come funzionava il draft a quei tempi?
Charlie: Bè guarda io per sapere se fossi stato scelto e dove ho dovuto comprare il giornale il giorno successivo.

Matteo: E sul giornale lesse Portland, una franchigia appena creata (NdA: 1970 l'anno di fondazione dei Blazers che non furono spostati da altre città  ma creati dal nulla), come andò quell'anno a livello sportivo?
(NdA: Charlie firmò un contratto di due anni, dei quali solo il primo era garantito.)

Charlie: Bè, com'è facilmente immaginabile, non eravamo molto competitivi, mi ricordo che avevamo grandi problemi in trasferta e verso la fine dell'anno piazzammo una streak da 13 L consecutive, abbastanza male insomma, nonostante la squadra fosse composta da ottimi giocatori giovani. I nostri leader erano Geoff Petrie e soprattutto Sidney Wicks (NdA: entrambi vinsero il titolo di rookie dell'anno), quest'ultimo grande realizzatore nero da UCLA e mio grande amico. Finimmo con 18 W e 64 L, chiamiamoli "lavori in corso".

Matteo: Come andava all'interno dello spogliatoio, visto che quelli erano anni di grandi movimenti popolari per i diritti umani e per la cessazione della guerra in Vietnam?
Charlie: La situazione era abbastanza tesa tra di noi, noi neri eravamo cinque e facemmo subito gruppo. In campo però riuscivamo a non far notare quest'aria da tempesta e giocavamo tutti insieme.

Matteo: Ha dimenticato la parte sulla guerra! Come mai lei non andò in oriente?
Charlie: Rimasi in America a causa dell'asma, ma la guerra mi ha colpito gravemente lo stesso. Nella primavera 1972 l'allora presidente Nixon fece un discorso in cui disse che avrebbe presto riportato a casa i nostri compagni dall'inferno vietnamita. Io gli volli credere, e durante i pochi giorni liberi che i Blazers ci concessero per le vacanze di pasqua, tornai a casa, nella mia New York, anche per rivedere i miei vecchi amici d'infanzia che sapevo essere stati arruolati.

Matteo: Li rivide?
Charlie: No, una volta arrivato a New York andai subito a casa di ognuno e sulla porta trovai le loro madri in lacrime che mi dissero che ancora non era tornato nessuno e che non arrivavano notizie dal fronte. Mi arrabbiai davvero tanto con un sistema che mi aveva portato via molte persone care mentendomi pure sul loro ritorno a casa. Come se non bastasse, una volta tornato a Portland tagliarono Willie McCarter, uno dei miei quattro compagni di colore per un episodio davvero stupido.

Matteo: Può spiegare?
Charlie: Ok, eravamo invitati ad una festa per le celebrazioni pasquali assieme a tutti gli altri atleti dello stato, come le squadre di football di Oregon State o Oregon University. A un certo punto nella sala prese la parola un grosso reverendo di colore, che aveva un modo di parlare e muoversi davvero comico (NdA: al che Charlie si alza dal tavolo e cerca di imitarlo, uno spasso). Willie non riesce a trattenersi e gli scappa una risata, viene prontamente visto dal nostro management e il giorno dopo si ritrovò senza squadra. Personalmente lo vidi come un atto razzista. Ok, Willie non era un fenomeno (NdA: Tre anni di NBA con 150 partite e 7 punti di media con Lakers e Blazers), ma non mi sembrava quello un buon motivo per tagliarlo. In due giorni persi sia i miei amici d'infanzia sia un buon amico "sportivo". Ero davvero infuriato.

Matteo: E' qui che arriviamo all'episodio per cui lei è maggiormente ricordato in America?
Charlie: Sì, il giorno seguente avremmo giocato contro i Phoenix Suns del grande Connie Hawkins. Durante la giornata noi quattro Blazers di colore ci trovammo a parlare insieme di quello che era successo a Willie, ma io mi ero veramente stancato di sentire queste storie sul razzismo, decisi che avrei dovuto fare qualcosa. Mi alzai e dissi che durante l'inno prima della partita di quella sera con i Suns non avrei guardato la bandiera e sarei tornato in panchina. Dopo qualche secondo di assoluto silenzio i miei compagni andarono avanti a discutere, facendo finta di nulla. Capii che sarei stato da solo.

Matteo: Che ricordi ha di quella sera?
Charlie: Mi ricordo che prima della partita, mentre gli altri effettuavano la "treccia" per il riscaldamento, mi sedetti in mezzo al campo in posizione yoga. Un arrogante uomo bianco mi ordinò di tornare con i miei compagni a fare gli esercizi ma io risposi che il mio compagno (Willie) non c'era più. Quindi arrivò il momento dell'inno, tutti erano in piedi, muti come pesci, con la faccia rivolta alla bandiera. Dopo tre note dell'inno mi feci coraggio e tornai in panchina, sfidando come pochi mai abbiano fatto il buoncostume NBA. Non tutti capirono subito cosa successe, ma mi ricordo bene che quando entrai nell'ultimo quarto il pubblico m'insultò ferocemente, fischiandomi e dandomi del comunista. Io però riuscì a zittire per qualche momento tutti con una grande schiacciata.

Matteo: Ormai però il danno era fatto.
Charlie: Sì, da quella sera entrai nella lista nera dell'NBA.

Matteo: Lo rifarebbe? Nello stesso modo?
Charlie: Mah, protestare era giusto vista la situazione di merda, ma forse fu sbagliato farlo così. Forse avrei dovuto inginocchiarmi per ricordare tutti i nostri fratelli che stavano morendo in Vietnam.

Matteo: Pochi giorni dopo la vostra stagione finì senza playoff, è stato bello giocare quasi 20 minuti per ognuna delle 69 partite da lei disputate? Le piacque Portland, città  diametralmente opposta alla sua New York?
Charlie: Sì, fu molto bello giocare nell'NBA, anche se ricordo che c'erano moltissime regole di comportamento e tutti dovevano tenere una buona condotta. Mi piaceva molto volare sempre da un posto all'altro per giocare a basket, ebbi la fortuna di vedere molte città .
Portland invece è una perfetta città  a misura d'uomo, mi piaceva molto la sua gente così come trovai perfetto il suo ritmo di vita, completamente diverso da quello frenetico della Grande Mela. Vivere nell'Oregon di sicuro non stressa la mente.

Matteo: Inizia la stagione 1971 - 1972 che succede con i Trail Blazers?
Charlie: Succede che mi fanno capire di essere molto coperti nel ruolo di guardia e di poter fare a meno di me. Quindi non vidi rinnovato il mio contratto e andai a giocare in Pennsylvania in una delle numerose minors americane. Era la stessa lega di Walter Szczerbiak, papà  di quel Wally che di sicuro conoscerai. (NdA: curiosamente nel Real Madrid battuto in finale di Coppa Campioni 1975 dall'Ignis di Charlie lo spot di guardia era occupato proprio da Szczerbiak). Quell'anno fu abbastanza inutile, il livello delle partite era molto basso e spesso si finiva in risse pazzesche. Insomma era meglio far la valigia e provare a venire in Europa per giocare davvero a basket.

E così fece, giocando nel 1972 - 1973 nell'Olimpiakos.
Charlie ha quasi paura a ricordare quella stagione, vissuta in palazzetti al limite dell'agibilità  pieni di tifosi assolutamente pazzi. Con i suoi compagni arrivò sino ai quarti di finale del campionato, dove ricorda di aver giocato due partite con arbitri assolutamente venduti.

Una volta sancita l'eliminazione, prese il più velocemente possibile la porta d'uscita dalla Grecia e tornò in America un anno, lavorando come taxista nella sua New York, prima di venire scoperto da Sandro Gamba e venire ingaggiato dalla Pallacanestro Varese.
La sua storia con gli Stati Uniti si chiuse quasi definitivamente, visto che Charlie rimase in Europa fino alla fine della carriera cestistica e iniziando una carriera di qualità  altrettanto straordinaria come jazzista.

Ma proprio a pochi giorni dall'elezione del primo presidente afro-americano è interessante dare un'altra dimostrazione di quanto sia stato storico il cammino di Barack Obama.
In fondo anche lui non ama giocare a basket?

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