White Chocolate, la follia bianca del basket.
Jason Williams si ritira. 10 anni di carriera NBA e un soprannome, "White Chocolate", che spiega tutto.
Era il 2000, All Star Game di Oakland. Il più bell'All Star Game di sempre.
A un certo punto è come se il mondo fosse cambiato in un attimo. Una rivoluzione. Jason Williams, biondino dei Kings, passa la palla indietro con un colpo di gomito. Vince Carter, nella stessa arena, porta l'arte della slam dunk ad un livello superiore.
Era il 2000. Era davvero l'inizio del terzo millennio, l'inizio di una nuova epoca.
Ora una di quelle due colonne ci ha lasciati. A lui è dedicato questo pezzo. In onore della sua follia.
WHITE CHOCOLATE
La città di Sacramento non aveva mai fatto tanto parlare di sé. Prima che vi si insediasse Arnold Schwarzenegger era già stata la città di quei Kings, di Chris Webber, di Vlade Divac, di Peja Stojakovic, di Doug Christie e di Jason Williams.
Ho ancora una VHS di una loro gara a Chicago contro i Bulls. Erano la squadra più spettacolare della lega, Jason Williams la sparò da tre ben oltre l'arco. Prima si era pulito la suola della scarpa.
L'Arco Arena era infuocata, i tifosi impazziti. Per la prima volta nella storia avevano una squadra vincente. Lo spettacolo lo conduceva dalla panchina Rick Adelman, coach offensivista. I suoi Kings erano la squadra che giocava meglio dai tempi, eccetto i Bulls di MJ, degli Utah Jazz dello Stockton to Malone.
Jason Williams era l'anima di quello show. E si rivelò con uno shock nel mondo del basket che parallelamente provavano solo l'hip hop con Eminem e il golf con Tiger Woods.
Il mondo era cambiato, si diceva prima. Un bianco che gioca da nero, una point-guard in stile playground con la pelle color latte. Ancora oggi mi chiedo. Ma è successo veramente ?
Ricordo un servizio dell'inserto della Gazzetta. C'era delle pagine a lui dedicate. Per arrivare anche qui in Italia questo ragazzo aveva fatto davvero qualcosa di speciale. Niente di più. Era la guardia più spettacolare della NBA. O meglio, lo è stato con i Kings, poi diventò borghese.
Il bianco più spettacolare della storia di questo gioco era stato Pistol Pete Maravich, un eroe, una vera leggenda. Jason Williams si è adattato semplicemente ai tempi. Sì, è stato l'Eminem della NBA.
Passaggi dietro la schiena, palleggi folli, tricks da campetto che solo in parte si erano già visti. Il colore della pelle risaltò tutto di più. Mi confesso, candidamente. Ho la pelle bianca come lui ma vorrei essere nero per giocare a basket proprio come un ragazzo di Bed Stuy, o magari di Harlem.
Riguardo alla NBA sono stato sempre una specie di razzista al contrario. Non sopporto i giocatori bianchi, non mi piace il tiratore che non salta un foglio di giornale, non mi piace il centrone con l'agilità di un elefante. Per me il basket è sempre stato, soprattutto, Michael Jordan o Allen Iverson.
Jason Williams mi ha riconciliato. Era bianco, ma in fondo era un nero. Chris Webber era spesso il destinatario dei suoi passaggi. Magari in contropiede. Magari con un passaggio tra le gambe. Come diceva il commentatore di quei Kings, "If you don't like that, you don't like NBA basketball". Non c'è altro da aggiungere.
Per me la storia di Jason Williams finisce qui. Poi passerà a Memphis. Nella stagione 2002 quasi 15 punti e 8 assist di media. Aveva accettato il compromesso di fare senza follie il playmaker della squadra. Era diventato borghese, come quei ragazzi che hanno fatto il '68 convinti di dover cambiare il mondo e poi finiti come tutti a fare l'impiegato. Magari nella stessa scuola dove poco prima occupavano.
Nel 2006 vince l'anello con i Miami Heat grazie a Dwyane Wade. Soddisfazione personale, coronamento di una carriera. Ma J-Will non sarà ricordato per questo. Il suo vento rivoluzionario soffia ancora forte a distanza di anni.
Ricordo come fosse oggi tutte le puntate di NBA Action con Courtside Countdown in coda. Non mancava mai. Ogni sua azione era come un pugno nello stomaco. Nostalgia dei bei tempi andati, succederà spesso anche a voi immagino.
Come a Jason adesso che si è ritirato. Gli mancherà di certo Chris Webber, gli altri Kings di quel tempo, i tifosi che lo veneravano, Rick Adelman che lo faceva sedere in panchina nel quarto periodo. Gli mancherà Randy Moss, suo compagno di liceo in West Virginia e al college a University of Florida.
La Nike ha magnificato il loro sodalizio con un meraviglioso spot (guardalo qui), si divideranno poi per le rispettive carriere nei pro ma in fondo resteranno sempre uniti. Una ricezione di Randy, magari ad una mano, magari su un passaggio sul turf da 60 yards è l'equivalente nella NFL di una streetball move di J-Will.
E' l'amicizia che resiste, l'origine comune di un grande spettacolo. Un filo conduttore nel più eccitante che ne possiamo ricavare.
Quella sera ad Oakland c'era qualcosa di magico nell'aria. Jason Williams e poi Vince Carter.
Era il 2000, l'inizio del Terzo Millennio.
Oggi onoriamo uno dei due eroi di quella notte, di quel periodo.
Grazie Jason, grazie della tua allegria pazzia.
Sempre quel filo conduttore che ci unisce. Tu in campo, il folle. Noi che ti vediamo, le folle. Estasiate e commosse.