Intervista a Joe Isaac

Un salto nel passato sulle ali della memoria del grande Joe Isaac

"E dunque, uomini Americani, non chiedetevi cosa il vostro paese può fare per voi ma cosa voi potete fare per la vostra nazione. Il mio modello di cittadino del mondo non si chiede cosa l'America possa fare per lui, ma cosa si possibile fare tutti insieme per la libertà  dell'uomo".

Con questo genere di discorsi a cavallo tra gli anni 1950 e 1960 John Fitzgerald Kennedy infiammava le platee di tutti gli Stati Uniti, esponendo il suo pensiero e i suoi progetti di Nuova Frontiera.

Il primo (e ultimo per ora) presidente cattolico d'America viaggiava di continuo, tra piazze e università .
Nel 1962 tenne un discorso all'Iona College di New Rochelle,NY, e ad ascoltarlo c'era un giovane studente di colore innamorato della vita e della pallacanestro che da circa quaranta anni ha legato il suo destino a quello della nostra Italia, associando al suo nome fama e vittorie: Warren Joseph Isaac.

Un breve profilo tecnico per descrivere una straordinaria macchina da pallacanestro come Joe è fornito dal suo ex compagno a Milano Dante Gurioli.

Dante ricorda come sin da subito si capì che era un giocatore in grado di fare la differenza. Fu ingaggiato come centro semplicemente guardando le sue cifre (doppia-doppia costante) salvo poi scoprire che poteva giocare in qualsiasi ruolo del campo i suoi 2 metri gli permettessero di arrivare. A conferma della sua atipicità  poteva segnare sia da vicino sia da lontano (tanto valeva sempre 2 punti!), cosa straordinaria per un 2 metri dell'epoca. Insomma, in poche parole: un giocatore che ha fatto epoca.

Questo è il racconto di uno straordinario colloquio tenuto con Joe, attuale allenatore della squadra di basket dell'Università  LIUC di Castellanza (Va), colloquio che dimostra come per viaggiare nel tempo non servano macchine particolari, fotografie o film, ma basta la straordinaria memoria di un uomo semplice.

Joe ha vissuto sulla sua pelle e nel suo cuore gli Stati Uniti degli anni '50 e '60, totalmente diversi rispetto a quelli che conosciamo oggi, e non ha mai voluto abbassare la testa a quel tumore maligno che la società  non vuole sconfiggere: il razzismo.

Il colloquio inizia con le presentazioni e con un'ammissione importante di Joe: "Il basket non è il primo sport al quale ho giocato, è il baseball il mio primo amore. Ho iniziato come shortstop e successivamente mi sono spostato in prima base."

Matteo: Va benissimo, spendiamo due parole sul baseball. Lei è newyorchese purosangue; oltre che sul passaporto anche lo è anche nella fede sportiva?
Joe: Assolutamente sì, fino al 1957 (ultimo anno a Brooklyn prima del trasferimento a LA) ero un agguerrito sostenitore dei Dodgers, poi sono rimasto fedele alla City e sono passato agli Yankees. Inutile dire che non apprezzo qualsiasi cosa arrivi da Boston, sia essa bianco-verde o dai calzini rossi. Mi dispiace vedere inoltre che negli ultimi anni i Mets non riescano a confermare a settembre quanto fanno di buono per tutto il resto dell'anno.

Matteo: Chi vincerà  allora queste World Series?I Cubs ce la faranno a rompere la maledizione?
Joe: Sarà  una bella lotta, nell'American vedo degli Angels davvero forti ma, purtroppo, i Red Sox ai playoff sanno il fatto loro. Nella Nationals i Cubs di sicuro sembrano valere più di tutti.

Matteo: Parliamo di basket. Lei nasce nel 1947 a New York e inizia a dare spettacolo sui parquet sin dall'High School. Contribuisce ad alimentare la leggenda di Power Memorial Academy, leggendario liceo situato nell'Upper West Side di Manatthan a due passi da Central Park. Ha giocato lì dal 1957 al 1961, cosa si ricorda di quel periodo?
Joe: Eravamo una squadra fortissima, siamo sempre arrivati ai playoff della New York City Catholic High Athletic Association (CHSAA) vincendo anche dei titoli. Di quegli anni ricordo bene l'allenatore, Jack Donohue, un grande uomo. È stato un marine canadese (si è per questo guadagnato una croce al merito postuma da parte del suo Canada) e di conseguenza la parola chiave con lui era: disciplina!
Nonostante questo era un uomo molto gentile, ma dal carattere e dalle idee molto forti: un atleta deve sempre dare il massimo, in qualunque sport e in qualunque posizione del campo. Lui stesso dava il buon esempio allenando anche la squadra di Power Memorial di baseball.
È stato grande amico di Bobby Knight e di Mike Krzyzewski, e non era raro vedere due o più di questi tre grandi allenatori passare intere serate a discutere di basket.

Matteo: Erano tanto duri gli allenamenti, vero?
Joe: Assolutamente, più volte è successo di trovarmi già  in palestra alle 6 del mattino prima di iniziare le lezioni.
Inoltre Donohue creò i primi campi estivi per la pallacanestro. Si svolgevano a Shugerties,Ny e duravano circa quattro o cinque settimane durante l'estate. I partecipanti erano i migliori giocatori delle high school della zona di New York, dunque sono molto orgoglioso di averci preso parte. E fu qui che vidi per la prima volta un certo Lew Alcindor.

Matteo: Lo stesso Alcindor che dal 1971 si sarebbe fatto chiamare Kareem Abdul Jabbar?
Joe: Esatto, aveva tredici anni quando lo vidi le prime volte venire ad allenarsi con noi. Era già  alto poco più di 2 metri, e non era certo molto aggraziato, anzi. Sappiamo tutti come sia finita però: Donohue ci vide giusto decidendo di portarlo al camp, anche se Alcindor non era ancora all'età  da high school.

Matteo: Al 1961 preso il diploma alla Power Memorial decise di andare all'Iona College, cosa ci può dire di quell'esperienza?
Joe: Iona College è stata una continuazione logica rispetto alla mia high school, essendo un college privato dal forte stampo cattolico. Sono stato spinto dagli insegnanti (fratelli) di Power Memorial a continuare i miei studi in delle scuole cattoliche.
A livello sportivo i risultati sono stati sicuramente positivi, specialmente nella stagione senior, quella 1965, dove chiusi con 25 punti e 19 rimbalzi fatti segnare a referto per ogni partita. Questo mi permise di vincere l'Haggerty Award come miglior giocatore di college dello stato di New York (questo premio l'hanno vinto anche giocatori del calibro di Walter Barry e Jeff Mullins, più recentemente Marcus Hatten, il "mickey mouse" di Scafati).

Matteo: Una volta laureato in finanza e completati i suoi studi finalmente i cancelli dell'Nba si aprirono per lei. Fu chiamato al quinto giro dai Cincinnati Royals, i bisnonni dei Sacramento Kings, una squadra che poteva vantare mostri sacri del parquet come Oscar Robertson o Jerry Lucas. Parliamo della sua esperienza con i pro?
Joe: Era davvero durissima emergere a quell'epoca
[Nota_dell'_Autore: si ricordi che in quegli anni c'erano solo 10 franchigie, non le 30 di oggi]. Al draft i Royals scelsero ai primi due giri giocatori come il centro Nate Bowman o Flynn Robinson (che sarebbe poi diventato un all star), ala che può benissimo segnare dall'ultima fila del parcheggio di ogni arena. Quindi al quarto giro fu chiamato Bob Love, guarda da Southern University, io fui scelto al quinto e al sesto fu scelto Robert McCullogh, realizzatore pazzesco da Benedict College.
Il rookie camp durò una settimana e fu diretto dal newyorchese Jack McMahon, head coach della franchigia, ed era composto dalle sei scelte al draft più i giocatori cosiddetti "undrafted" e i free agent, tutti ovviamente con un kit di coltelli tra i denti. C'erano tre allenamenti al giorno in una Cincinnati torrida, indimenticabile [NdA: segnaliamo come già  negli anni '60 i rookie in America facevano tre allenamenti al giorno, mentre in Italia addirittura certi giocatori dell'Olimpia Milano lavoravano oltre a giocare a basket.]

Matteo: Che cosa successe dopo la settimana di camp?
Joe: McMahon mi disse che per me non c'era posto in squadra, essendo il mio ruolo già  coperto. Anche Love e McCullogh furono tagliati.
[NdA: Robert è lo zio di quel Jerry McCullogh che ha imperversato a Cantù, Milano, Varese ed è tuttora a mettere da parte tonnellate di rubli a Kazan per la pensione. Robert è descritto come una persona straordinaria, è il co-fondatore di Each One Teach One, un programma per cercare di salvare i ragazzi dalle strade di Harlem per provare a farli studiare.]
Noi tre fummo spediti nella squadra satellite dei Royals nella Eastern League, l'attuale CBA. Però io non ci andai e scelsi di venire in Europa.

Matteo: Ecco, questa è stata una decisione storica, un po' come l'anno 1965 per gli Stati Uniti d'America, con l'avvio della mattanza nel Vietnam e dei gravissimi episodi in seguito a movimenti per i diritti civili dei neri. Sono collegate queste cose con il suo arrivo nel bel paese?
Joe: Come detto nel 1965 mi sono laureato, ho rifiutato l'arruolamento e la spedizione nel sud est asiatico, sia perché ero troppo alto sia perché volevo continuare a giocare a basket. Quindi decisi di venire in Italia e continuai a studiare all'Università  Cattolica di Milano.
La guerra è una pazzia: molti amici, colleghi, compagni di vita sono stati uccisi o feriti in Vietnam.

Matteo: Che cosa ricorda di quell'anno dal punto di vista dei diritti umani?
Joe: Inutile negare che i problemi di razzismo che ho incontrato sono stati tra i motivi che mi hanno spinto a venire qua. Nonostante sia cresciuto nel nord degli Stati Uniti ho sempre avuto problemi per il colore della mia pelle. Un esempio di quanto sia vergognoso questo schifo? Un giorno mentre mi stavo recando al college vidi una donna con la macchina in panne a bordo strada. Mi fermai e scesi per aiutarla, quando arrivò un poliziotto bianco mi vide e cercò di arrestarmi incolpandomi dei problemi alla macchina della donna. Per fortuna non esistono solo persone cattive e questa signora prese le mie difese dicendo che ero stato l'unico automobilista a fermarmi per dare aiuto. Purtroppo episodi del genere erano la routine, durante il terzo anno di college, quello junior, fui arrestato per sbaglio e trattato come il peggiore dei criminali. Era davvero troppo.

Matteo: Davvero delle brutte avventure, le sue e quelle di tutto il popolo di colore (e non solo, il razzismo non è mono tipo) che vive tra Messico e Canada. Non ha mai più pensato di riprovarci nell'Nba?
Joe: Tutt'altro. Dopo la mia prima stagione in Italia, all'Onestà  di Milano, i Saint Louis Hawks presero i diritti del mio cartellino. L'allenatore era Richie Guerin, considerato il più famoso giocatore di Iona College prima del mio arrivo, e gli feci buona impressione.
Al termine del camp estivo firmai il mio primo "garantito" nella Nba, che mi avrebbe fatto guadagnare molti soldi anche giocando a carte in panchina tutto l'anno.
Ancora una volta però il razzismo ruppe tutta la poesia che può disegnare una stoppata o un jump shot: un giorno ricordo di aver avuto male ad un dente e di aver preso l'autobus per recarmi dal dentista. Una volta salito l'autista mi obbligò a sedermi in fondo al pullman solo per la mia pelle scura.
[NdA: si ricordi che Rosa Parks rifiutò di scambiare il suo posto ben 11 anni prima del 1966].
Dissi definitivamente basta. Nonostante la mia firma depositata sul contratto con gli Hawks decisi di tornare in Italia.

[NdA: Dove giocò da protagonista altri cinque anni all'Onestà  Milano diventando il primo giocatore straniero ad essere nominato capitano di una squadra italiana.
Quindi nel 1971 tornò in America per chiudere la carriera e collaborare con l'Iona College, prima di tornare in Italia nel 1982 per allenare Varese, Reggio Emilia e Napoli con buoni risultati fino al 1994.]

Matteo: Ultima cosa signor Isaac, le piace l'Nba di oggi?
Joe: Non troppo, si giocano davvero troppe partite. Tra pre-stagione, regular season e playoff, Boston è arrivata a giocare oltre le 100 partite lo scorso anno, davvero troppe. E poi mi pare di notare che si curino meno i fondamentali rispetto ai miei tempi, sia molto data più importanza alla spettacolarità  di una schiacciata che all'impostazione di un tiro.

Matteo: Grazie signor Isaac, è stato un immenso piacere.
Joe: Prego, si figuri.

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