Stern congratula Gallinari, mentre i suoi futuri tifosi gli danno il benvenuto… a suon di fischi!
Sarà il meccanismo del draft in se stesso, autentica genialata ed applicazione favolosa di quel “Principio della montagna” tutto USA per cui chi è in basso deve salire per raggiungere chi è in alto, creando il tanto auspicato livellamento della contesa.
Oppure sarà quel tocco folcloristico che David “show business man” Stern ha ormai assegnato all'intero ambaradam, con le attese, le facce, i rumors, le voci, le trade, le altalene emotive dei ragazzi nella “green room” (una sorta di “privè sala VIP” in cui sono invitati i papabili top-15), il jingle “dududu-duu” che annuncia l'ingresso del commissioner per la lettura con pause sceniche della stereotipata frase coi nomi dei sessanta prescelti, a cui cambia la vita in pochi istanti.
Forse c'è anche una forte componente che noi oltreoceano riassumeremmo col termine “americanata”, ma negare il fascino e la suggestione di questo evento è impossibile, tanto più se per il terzo anno consecutivo vede grande protagonista anche un nostro rappresentante.
Danilo Gallinari ammicca alle telecamere e gesticola in azzimato abito ovviamente messo a disposizione dal mecenate della casa madre Olimpia: un figurino impeccabile.
Le immagini patinate di ESPN e le luci del Madison Square Garden ad onor del vero rendono tutti più belli ed abbronzati e fanno persino scomparire le occhiaie a Jeff Van Gundy in versione analista, che appare quasi come un uomo gradevole ed un pò padrone di casa insieme al collega Mark Jackson.
Con organizzazione e puntualità irreprensibili Stern fa il suo ingresso all'1.30 italiana e fa iniziare il primo dei trenta countdown di cinque minuti per ogni scelta del primo giro.
Si parte.
Nonostante la presunta superiorità invernale di Beasley (suffragata da numeri e statistiche impressionanti), la prima scelta è diventata sempre più scontata giorno dopo giorno in primavera, perchè – oltre al piano tecnico – un enfant du pays cresciuto nel mito di Michael Jordan abbinato alla mandrakata di Chicago alla lotteria si portava dietro troppe coincidenze volute ed imposte dal destino.
Derrick Rose fuori dal campo è timido, riservato, schivo, cresciuto com'è in una sorta di bolla protettiva creata dalla famiglia e dai suoi fratelli per scongiurare le tante insidie che i quartieracci della Wind City comportano.
Questo carattere mite è emerso anche nella stretta di mano a Stern e nella successiva intervista col cappellino dei Bulls: una freddezza che a molti può apparire presunzione ed arroganza da primo della classe, ma è doveroso invece ricordare che il pargolo è soprannominato “The Pooh” in onore del cartone animato Winnie e che invece di mostri e scheletri ha tatuato sul braccio un mago con bacchetta, un pò alla Tim Duncan.
Cambia di 360° lo scenario con Michael Beasley, che pennella una serie di espressioni cabarettistiche e si candida ad erede di Shaq come personaggio fuori dal campo e per il potenziale da attore. Abbiamo a che fare con una sorta di Alvaro Vitali a stelle e strisce, sciagurato ma adorabilmente simpatico al tempo stesso, per il momento solo un pizzico sopra le righe ma con fedina penale intatta e lontano da guai giudiziari di rilievo.
Persino nelle differenze tra le rispettive madri trova conferma la diversa estrazione delle due famiglie: pacatezza serafica ed un filo di voce per l'anziana signora Rose, stravolta dall'emozione e libera finalmente di pensare alla scelta delle nuove tendine per la mega villa in arrivo, grazie ai quasi quattro milioni di dollari che arriveranno nelle tasche del figliolo nelle future dodici mensilità e che cancelleranno anni di stenti; estroversa e molto più fashion la giovanile signora Beasley, tutt'altro che reduce da una vita stile Mulino Bianco ma all'apparenza meno umile e dal profilo ben più alto rispetto alla “collega”.
E' poi il turno del vostro ideale professore di Ingegneria Aerospaziale o Filosofia Sociale, a scelta tra il campo scientifico e letterario.
Un OJ Mayo trasfigurato con occhialini da intellettuale – clamorosamente identico a Sam Mitchell – irrompe sulla scena Newyorkese, prendendosi la meritata ovazione del già alticcio pubblico del Madison.
Il primo pensiero è proprio rivolto a cosa sarebbe stato questo soggettino alla corte di D'Antoni e sotto la Statua della Libertà , ma dopo un intermezzo poco fashion in quel di Minnesota, OJ sbarca nella terra di Elvis con le sue scarpe a dir poco ammalianti e la sua nuova versione ecumenica da bravo ragazzo. Ne vedremo delle belle.
A lungo cavalcato oltreoceano, alla numero quattro si sfalda nel giro di pochi minuti il presunto scambio di scelte tra Seattle e Clippers.
Russell Westbrook si alza allora con l'aria interlocutoria di chi sta pensando: “Eh? Chi? Io? Hanno fatto davvero il mio nome?”, ma la solidità della scelta è testimoniata dai sorrisi chilometrici che distilla Kevin Durant, il cui volto ricorda sempre più il giovanissimo Michael Jordan con capelli.
Idealmente Bayless comincia a tirare fuori una corda sospetta; tornerà d'attualità in seguito.
Tocca a Memphis ed ancora non si ha notizia dello scambio con Minnesota.
Il lungo che sarebbe dovuto arrivare ai Grizzlies ha inizialmente le sembianze di un disinvolto Kevin Love che saluta e bacia tutti, non si sa quanto ignaro del suo imminente trasferimento ai Wolves ma sicuramente ad un passo dal prendere in mano la conduzione dello show al posto di David Stern per quanto apparentemente a suo agio.
Arriva così l'ora X, la sesta scelta di New York, con decollo della trepidazione che coinvolge sia i presenti sugli spalti che i tanti appassionati italiani. Flavio Tranquillo si sbilancia ed annuncia che il prossimo giocatore ad alzarsi avrà una faccia a noi un pò più nota delle altre. “With the sixth pick in the 2008 NBA Draft, the New York Knicks select … (i più attenti e navigati frequentatori unplugged del draft NBA potrebbero aver intuito che si trattava del nostro a causa della classica pausa di concentrazione che si concede Stern nello sforzo di pronunciare correttamente il nome di un non statunitense) … Danilo Gallinari, from Italy”.
Giù fischi, come previsto. E parte addirittura il coro “U-S-A! U-S-A!”.
New York non è Casalpusterlengo e questo lo sapevamo tutti, Danilo in primis che intanto si esibisce in un curioso segnale con la mano davanti alla bocca, forse semplice gesto scaramantico-goliardico, per qualcuno adempimento di una promessa fatta ad amici italiani, per altri addirittura commento alla reazione dei presenti.
I Knicks adorano che si parli di loro, sia nel bene che nel male. Non si sa in che percentuale questi pseudo-tifosi della Grande Mela siano marionette che fanno parte del carrozzone mediatico attorno a questo evento (che non a caso non si svolge nei più tranquilli Idaho o South Dakota) e quanto siano semplicemente incompetenti poco informati che devono farsi sentire a prescindere; ma, si badi bene, questi singolari fringuelli presenti al Madison non saranno coloro che prenderanno posto nelle 41 partite casalinghe della squadra di D'Antoni.
Forse ci si poteva almeno risparmiare la seconda bordata di fischi durante la conversazione in poltrona, ma Danilo risponde alle domande poste in slang insidioso dall'intervistatore di ESPN in modo enciclopedico vista la situazione, condendo banalità assortite (“play hard, help the team, New York is the best, etc”) e considerazioni senza fronzoli (“play hard, help the team, New York is the best, etc”) ad una pronuncia decisamente superiore a quella di Bargnani due anni prima.
Idealmente Bayless comincia intanto ad agire sulla corda che aveva tirato fuori prima e cerca di ottenervi un nodo alquanto sospetto per formare una circonferenza del diametro di circa 30 centimetri.
Alla numero sette dei Clippers si raggiunge uno dei momenti più alti della serata, forse la vetta assoluta che riporta indietro alle cresime meglio riuscite della storia: l'indescrivibile abito di Eric Gordon è da standing ovation e meriterebbe la degna chiusura della serata, perchè il resto dello spettacolo difficilmente potrà essere all'altezza. Ad onor del vero l'effetto ipnosi che provoca quell'abbinamento cromatico lo fa quasi sembrare tollerabile alla distanza.
Molto più composto e sobrio invece Joe Alexander, contento e sereno del trasferimento in Wisconsin che sembra terra adatta alla sua personalità e che sarebbe stato anche contesto tecnico ideale senza la concorrenza del giorno prima di Richard Jefferson.
Idealmente Bayless raggiunge lo scopo di comporre un nodo sulla famosa corda e comincia ad accatastare sedie e tavoli in un angolo.
Lo segue con attenzione un tiratissimo Lopez che si aggira come un avvoltoio dalle parti di Jerryd. Brook è però anche il principale microfonato “wired” di ESPN e deve contenere la delusione con dosi tutt'altro che omeopatiche di autoironia: “Finirò mica come Brady Quinn?”, si chiede affranto riferendosi al quarterback di Cleveland precipitato nel 2007 alla ventiduesima scelta dopo essere stato accreditato molto più in alto.
La nona scelta crea il panico in sala, oltre ad alimentare le preoccupazioni di Lopez. Alla pronuncia del prescelto Augustin la platea tace e gli sguardi si incrociano increduli, quasi come se per la prima volta nella storia (forse insieme al caso Balkman) fosse richiesto a David Stern di ripetere e confermare: “Sì sì, ho detto DJ Augustin, mica è colpa mia!”.
Lo stupore generale si attenua ed il collo del commish per una volta ringrazia non essendo costretto a delicate contorsioni verso l'alto per guardare negli occhi il prescelto di turno. Ben più interessante sarebbe stato entrare in casa Felton in quegli istanti, ma questa è un'altra storia.
Brook Lopez smette di insidiare il cappio di Bayless e si accasa finalmente a New Jersey, che senza un gemello in squadra (Collins) non sembra sufficientemente soddisfatta.
Proprio mentre Jerryd Bayless è idealmente arrampicato sulla pila di sedie e tavoli cercando di legare la corda ad un sostegno posto a circa 5 metri da terra in maniera ancora una volta molto sospetta, David Stern gli restituisce tanti anni di vita pronunciando il suo nome alla numero 11, che dovrebbe poi finire a Portland in cambio del tredicesimo scelto Brandon Rush, destinato ad Indiana.
Regista occulto è ovviamente il GM dei Blazers Kevin Pritchard, pericolosissimo maniaco di queste serate, in grado di fare otto trades e di scambiare dieci giocatori nelle ultime due edizioni del draft, per altro costruendo una probabile dinastia.
Passa inosservato esattamente come tutta la sua grande carriera NCAA a Rider il buon Jason Thompson, scelto relativamente a sorpresa da Sacramento alla 12, mentre restando in California Don Nelson si affida al grissino Anthony Randolph che può fare babilonia nel suo sistema. Sì, ma tra non meno di tre anni.
Parte il valzer dei lunghi, onnipresenti dalla 15 alla 24 con la sola eccezione della promessa al solido Courtney Lee rispettata da Orlando alla 22.
Robin Lopez era segnalato come un personaggio istrionico e contribuiscono a questa immagine i capelli versione Varejao che lo distinguono storicamente dal rasato gemello Brook; il ragazzo fa in effetti letteralmente di tutto per imitare l'altro suo collega “medusa” Joakim Noah, che portò l'anno scorso David Stern ad un passo dalla crisi di nervi e dal multarlo dopo cinque minuti dal suo ingresso nella lega solo per il look e per le facce che gli faceva alle spalle.
I Sixers vanno sull'ala grande che manca dai tempi di Derrick Coleman e scelgono “Matarrese” (Marreese è troppo difficile) Speights, nonno Roy Hibbert si accasa (forse) ad Indiana e le malelingue sostengono che sia già in fase calante della sua carriera NBA, il mammone JaVale McGee avrà molto da lavorare nella Princeton Offense di Washington, JJ Hickson sembra esattamente la fattispecie di giocatore non pronto che può allontanare più velocemente LeBron dall'Ohio.
Alla numero 20 scelto da Charlotte plana su David Stern un aliante umano, il francese Alexis Ajinca, che di fatto stringe la mano al commissioner quando ancora sta salendo i gradini del palco, grazie alle sue braccia di lunghezza impressionante. Molti alla lettura possono sicuramente vantare una muscolatura superiore, ma il progetto sembra aver affascinato la Tar Heels connection Brown&Jordan.
Ryan Anderson non fa certo saltare di gioia i tifosi dei Nets, ma il pubblico aveva ormai esaurito i fischi per Gallinari e segue con distacco quando proprio non se n'è già direttamente andato in giro per Manhattan.
Utah entra in modalità “se non sono bianchi non li vogliamo” ed inizia con Kosta Koufos il trittico di giocatori originari del vecchio continente che troverà in Ante Tomic e Tadija Dragicevic il coronamento al secondo giro.
Seattle adempie alla promessa fatta all'ala congolese Serge Ibaka, che quest'anno ha raggiunto l'apice della sua esperienza internazionale mangiando in testa agli sventurati militanti della seconda serie spagnola.
Il resto della serata scivola via senza clamorosi sussulti.
Si consuma il dramma di Darrell Arthur ed i reni del ragazzo di Kansas diventano l'argomento principale alla fine del primo giro: tipica vicenda da dietro le quinte del draft, quando un passaparola su test fisici rifiutati si trasforma nel crollo improvviso delle ambizioni di un ventenne di talento; la falange amputata di Gerald Green è il più recente precedente simile, anche se per l'ex Celtics si può ora dire che i problemi fossero soprattutto altri.
Il cinismo cinematografico ed il tempismo scenico della televisione USA sono diabolici: scatta infatti l'intervista a Darrell che con un filo di voce trova la forza di non mettersi a piangere e di dire: “E' dura, ma spero che presto arrivi il mio momento”. Si stringe di qualche millimetro il cuore di chi lo ascolta, ma la sofferenza dura poco perchè quasi subito Portland farà il suo nome, tuttavia non per portarlo in Oregon.
Scatta infatti la clamorosa e complessa magata anti-Spurs orchestrata da Houston (Donte Greene), Portland (Batum) e Memphis (Arthur): con un giro a tre del tutto improvvisato soffiano a San Antonio lo sposo promesso Nicolas Batum e costringono gli speroni ad optare per il carneade di turno, tale George Hill, salito alle cronache per un interessamento dei Lakers ma decisamente in funzione della fine del secondo giro.
Detroit sembrava aver promesso la ventinovesima scelta anche a qualche lettore di Play.it USA, ma alla fine la cede a Seattle – nella figura di DJ White – per due seconde scelte che si tramutano in uno sfortunato ma interessante narcolettico di talento, Walter Sharpe, ed un lungo mormone tendenzialmente soft anche da sveglio, Trent Plaisted.
L'anno scorso tutto il popolo biancoverde in trepidante attesa per il draft vedeva infrangersi il sogno Oden ma assisteva incredulo alla redenzione completa di Danny Ainge, con i colpi Allen prima e Garnett poi; quest'anno i Celtics campioni quasi annoiati dalla vicenda vanno a sorpresa sul disabitato talento salterino di JR Giddens: come cambiano le cose nel giro di una stagione in questa lega!
Il GM di Boston deterrà a fine draft anche il record di tempo impiegato nel comunicare la scelta, con otto minuti abbondanti. Ad onor del vero potrebbe anche essersi trattato di un banale bisogno fisiologico di Stern proprio alla fine del suo compito, poichè come sempre cede il testimone alla fine del primo giro al fedele vice Adam Silver, per il più agile secondo giro da due minuti per ogni pick.
DeAndre Jordan, Mario Chalmers e Chris Douglas-Roberts si prendono a capocciate reciprocamente dopo aver visto sfumare clamorosamente il traguardo di una scelta al primo giro che sembrava abbastanza scontato: sono loro i tre grandi delusi del draft insieme a Bayless ed Arthur.
DeAndre ha vissuto sicuramente l'esperienza più imbarazzante, poichè era l'ultimo rimasto tra i big presenti in sala inizialmente (quelli che sotto la 20 difficilmente scendono) e la liberatoria scelta dei Clippers alla 35 dà vita ad un siparietto struggente, con baci ed abbracci ad una moltitudine infinita di amici e parenti che si era portato evidentemente convinto di non trattenerli inchiodati alla sedia così a lungo in attesa della sua chiamata.
Anche dare la mano a Silver in un Garden semi deserto non è proprio la stessa cosa che concederla a Mr.Stern col Madison tutto esaurito.
E' l'alba in Italia e solo una decina di valorosi eroi nella radio-chat di questo sito regge fino alla scelta numero sessanta di Boston: si chiude con il turco Semih Erden, dopo una manciata di giocatori semi sconosciuti ai non addetti ed international da lasciare prevedibilmente a bagnomaria in giro per il mondo, nell'attesa e nella speranza che diventino materiale per questa lega.
Il pensiero finale è ogni anno il medesimo: avranno anche un sacco di difetti, possono sicuramente non piacere molte loro sfumature nei modi, nella sostanza e nello stile di vita, ma questi americani hanno l'incredibile potere di regalare emozioni agli appassionati di questo sport anche senza un solo secondo di basket giocato.
Potere del popolo che meglio di qualsiasi altro sa elevare a scienza esatta il concetto di “show business”.
Potere della magia che racchiude la notte del draft.