NBA Awards ’08 – Part II

Danny Ainge Executive of the Year: il trofeo non sembra all'altezza dell'importanza del premio…

ROOKIE OF THE YEAR: Kevin Durant

(125 votanti, tre preferenze per ciascuno a cui attribuire 5-3-1 punti)
1 Kevin Durant (545 punti, 90 primi posti)
2 Al Horford (390 - 30)
3 Luis Scola (146 - 5)
Altri giocatori votati: Al Thornton – Jamario Moon – Juan Carlos Navarro – Thaddeus Young – Carl Landry – Mike Conley.

PRIMO QUINTETTO ROOKIES

(I 30 allenatori NBA scelgono primo e secondo quintetto; il massimo punteggio è 58)
Al Horford 58 punti
Kevin Durant (Sea) 57
Luis Scola (Hou) 53
Al Thornton (LAC) 48
Jeff Green (Sea) 43

Secondo quintetto: Jamario Moon – Juan Carlos Navarro – Thaddeus Young – Rodney Stuckey – Carl Landry.

Il buono: alla notizia dell'infortunio di Oden, l'esito della corsa al titolo di rookie dell'anno 2008 pareva scontata come una telenovela sudamericana; e se Durant ha mantenuto fede alle aspettative, la straordinaria annata di Horford ha reso la sfida per l'alloro di miglior esordiente quantomeno interessante, se non proprio avvincente.

La scelta del figlio di Tito alla #3 non aveva raccolto consensi unanimi: era considerato da molti un tweener, efficace in un contesto NCAA ma non adatto ad essere determinante al piano di sopra, un prospetto inferiore rispetto ad altre possibili scelte con maggior potenziale.

Horford, al contrario, è stato determinante per la eccellente stagione degli Hawks, grazie alla sua presenza a rimbalzo (negli ultimi dieci anni solo Dwight Howard e Okafor hanno fatto meglio di lui in questa statistica da esordienti) e in post basso: numeri ancor più impressionanti, se pensiamo che Atlanta non gioca propriamente un basket organizzato e ben strutturato, e che i giochi chiamati per Al si contano sulle dita di una mano.

E' necessario quantomeno menzionare la stagione di Scola, che dopo una partenza lenta si è dimostrato un tassello determinante nella splendida macchina dei Rockets del ventello di W consecutive: negli ultimi tre mesi ha viaggiato a 12+8 col 53% dal campo, medie che, se proiettate su tutta la stagione, gli avrebbero permesso di rendere il testa a testa tra Horford e Durant una vera sfida a tre.

Il brutto: Ramon Sessions, 56esimo giocatore scelto all'ultimo draft, fino a Marzo l'NBA l'aveva vista soltanto dal divano di casa, dopo le partite del campionato NBDL che lo vedevano protagonista nei Tulsa 66ers.

Al termine dei suoi tre anni collegiali ai Nevada Wolfpacks, tradizionali sparring partner di UNLV, gli scout non vedevano per lui un futuro al piano di sopra, se non come journeyman, ritenendolo un buon passatore privo di un jumper decente, incapace di crearsi un tiro e più in generale di tener botta offensivamente tra i grandi.

Richiamato nel roster dei Bucks ad inizio Marzo, più per dargli un'occhiata da vicino che per una effettiva convinzione nelle sue possibilità  di contribuire, gli infortuni di Charlie Bell e Mo Williams gli hanno permesso di godere di un minutaggio consistente, opportunità  che il nostro ha colto alla grandissima.

Nel mese di Aprile il 22enne ha viaggiato a 10 punti ed 11 assist di media in 37' di utilizzo medio, impreziosendo le sue eccellenti prestazioni con un buzzer-beater contro Washington, e soprattutto con una clamorosa prestazione agli sgoccioli della stagione contro Chicago: 24 assist (record di ogni tempo per i Bucks e record stagionale nell'NBA), 20 punti (primo 20-20 punti/assist nella storia dei Bucks, che pure qualche discreto giocatore lo hanno avuto, come Oscar Robertson, Abdul-Jabbar, Lanier o Moncrief), 8 rimbalzi.

Certo, il tiro in sospensione effettivamente non è molto affidabile (39% nei jumper), ma ci si può lavorare; in compenso ha mostrato, oltre alle eccellenti doti di passaggio e visione di gioco (6 assist per ogni passaggio sfociato in una palla persa), una sorprendente efficacia difensiva, un fisico non particolarmente potente ma reattivo come una molla e molto forte nella parte superiore, che gli permette, nonostante la taglia minuta, di essere particolarmente efficace a rimbalzo (5 carambole a partita nel mese di Aprile) e in avvicinamento a canestro (53% nelle conclusioni dentro il pitturato).

I Bucks, rovistando nella spazzatura del tardo secondo giro al draft, potrebbero aver trovato una gemma assolutamente inaspettata, in grado quantomeno di fornire un barlume di buonumore nel giudicare una stagione veramente deludente nel suo complesso.

Il cattivo: è veramente ingeneroso bollare un rookie come "delusione", considerando le fisiologiche difficoltà  che chiunque incontra al primo anno nella lega, e che non precludono un futuro luminosissimo anche a chi è stato protagonista di una partenza lenta.

Il draft 2007, però, ha mostrato delle dinamiche curiose ed inattese: molti dei giocatori scelti tra la 3 e la 10, e che erano considerati "can't miss prospects" (Conley, Brewer, Yi, Noah, Hawes) sono stati superati nel rendimento da giovani scelti tra la 10 e la 20, che anteriormente al draft lasciavano maggiormente perplessi gli addetti ai lavori, e hanno superato brillantemente le aspettative (Thornton, Thaddeus Young, Julian Wright, Stuckey, Sean Williams), per non parlare degli outsider come Jamario Moon e Sessions.

Dovendo per forza fare un nome, la principale delusione tra gli esordienti potrebbe essere individuata in Yi Jianlian dei Bucks: dopo una partenza promettente (rookie del mese a Dicembre) le sue cifre ed il suo rendimento hanno tenuto un trend decrescente inarrestabile, causando parecchi mugugni tra i compagni relegati alle sue spalle nella depth chart per motivi "politici" (alla sesta scelta assoluta il posto in campo è garantito per diritto divino) e costretti a masticare amaro.

Prima del draft Yi veniva descritto dai soliti beneinformati come un ventenne con centimetri e potenza da ala forte, ma ball-handling, atletismo e raggio di tiro da guardia; la realtà  dei fatti ha mostrato che il jumper è effettivamente elegante ed efficace ma non si estende fino alla linea del tiro da 3 (30% in stagione), i movimenti di potenza in avvicinamento a canestro sono inesistenti (31% da distanza ravvicinata, negli ultimi metri le conclusioni a segno sono meno di quelle che gli vengono stoppate, il 36% del totale), non è in grado di costruirsi un tiro da solo (il 77% delle sue conclusioni a segno arriva su un assist di un compagno), e sostanzialmente l'unica situazione tattica in cui si è dimostrato efficiente è il pick and pop con tiro in sospensione dalla media distanza.

E per di più" non ha nemmeno 20 anni, come dichiarato al momento del draft, ma almeno tre/quattro in più, il che non depone a favore delle sue potenzialità  di miglioramento nel prossimo futuro.

MOST IMPROVED PLAYER: Hidayet Turkoglu

(come il R.O.Y.)
1 Hidayet Turkoglu (380 - 61)
2 Rudy Gay (167 - 23)
3 LaMarcus Aldridge (128 - 9)
Altri giocatori votati: Al Jefferson, Rajon Rondo, Mike Dunleavy, Jose Calderon, Chris Paul, Beno Udrih, David West, Ronnie Brewer, Andrew Bynum, Chris Kaman, Louis Williams, Monta Ellis, Andrew Bogut, Rafer Alston, Andre Iguodala, LeBron James, Travis Outlaw, Brandon Bass, Deron Williams, Tyson Chandler, Dwight Howard, Linas Kleiza, Jason Maxiell, Shaquille O'Neal, Danny Granger, Brandon Roy, Roger Mason, J.R. Smith

Il buono: il premio di giocatore più migliorato non è di facile definizione: va premiato il carneade che si guadagna un posto al sole (Udoka)? Chi passa dallo scaldare le panchine a dare un solido contributo in rotazione (Louis Williams)? O chi già  era un signor giocatore NBA e alza ulteriormente il livello del proprio gioco assurgendo al livello di stella assoluta?

Se il criterio da prendere in considerazione è quest'ultimo, la scelta più ovvia e macroscopica sembrerebbe quella del solito Chris Paul, ma il premio a Turkoglu sembra comunque meritato, considerando che dai ventenni è lecito pretendere miglioramenti sensibili nei primi anni nella lega, mentre il salto di qualità  da parte di un veterano alla soglia dei 30 anni e con 8 stagioni di esperienza alle spalle è ancora più impressionante: 20+5+5 di media in stagione e una tremenda efficacia di clutch player, per un giocatore che sembra entrato nel gotha NBA.
Il singolo voto preso da Shaq sa di burla.

Il brutto: da un punto di vista meramente statistico il giocatore più migliorato dell'anno è stato Andrew Bynum, ma il fatto di perdere la seconda metà  di stagione, ovviamente, ne ha precluso qualsiasi considerazione.

E allora, seguendo lo stesso criterio utilizzato per Turkoglu, e pensando a trentenni o ultratrentenni che hanno fatto un discreto salto di qualità , perché non parlare di Rafer Alston?

Le cifre sono sostanzialmente le stesse degli scorsi anni, ma non dicono che "skip to my Lou" ha definitivamente completato la trasformazione da giocoliere dei playground a vero e proprio metronomo di una delle migliori squadre della lega (con lui in quintetto, i Rockets hanno vinto oltre il 72% delle partite giocate: in questa particolare classifica, tanto per dire, Tmac è al 66%, e Yao al 61%).

Adelman stravede per lui, ne esalta la visione di gioco e la capacità  di leggere come si evolvono le situazioni tattiche davanti ai suoi occhi, oltre alle fenomenali abilità  nel dare il pallone ai compagni con i tempi e nei modi giusti; un bel risultato, tenendo conto del fatto che l'ex coach dei Kings non è certo prodigo di complimenti nei confronti dei suoi giocatori, e che Alston non era normalmente considerato uno dei giocatori più allenabili della lega.

Il cattivo: fa male dirlo, ma se cerchiamo il giocatore MENO migliorato dell'NBA, quello da cui ci si attendeva un netto cambio di marcia e che invece ha reso ancora meno rispetto alla stagione precedente, non è necessario cercare oltre il nostro Andrea Bargnani.

Certo, il coach scandaloso non aiuta, ma tutte le sue statistiche sono peggiorate, nonostante il minutaggio e le partenze in quintetto imposti dal suo status di prima scelta assoluta; anche volendo dimenticare i numeri, l'impressione visiva lascia interdetti, il linguaggio del corpo mostra mancanza di convinzione e grinta, per tutta la stagione si sono rivisti gli stessi errori, le stesse mancanze, gli stessi atteggiamenti sbagliati dell'anno scorso, se non peggio (una sola volta in doppia cifra a rimbalzo in tutta la stagione, e se permettete Mitchell con questo aspetto del gioco non c'entra veramente nulla).

Ora come ora non è niente di più di uno spot-up shooter alla Korver, che non contribuisce in alcun altro aspetto del gioco, e per uno con il suo talento è veramente una bestemmia; tutto può succedere, niente è compromesso, i margini di miglioramento ci sono: ma deve cambiare registro, e farlo in fretta.

SESTO UOMO DELL'ANNO: Manu Ginobili

(124 votanti, come il R.O.Y.)
1 Manu Ginobili (615 - 123)
2 Leandro Barbosa (283 - 1)
3 Jason Terry (44 - 0)
Altri giocatori votati: Kyle Korver, Ben Gordon, Josh Childress, J.R. Smith, James Posey, Jason Maxiell, Travis Outlaw, Jordan Farmar, Linas Kleiza, Jerry Stackhouse, Jarrett Jack, David Lee, Rashad McCants, Louis Williams, Andres Nocioni

Il buono: è stato un plebiscito per Manu, e non c'è proprio nulla da obiettare, considerando che si tratta di un vero e proprio all-star che parte dalla panchina non certo perché ci siano compagni migliori di lui in quintetto, ma semplicemente per ragioni di alchimia tattica; un discorso analogo, in scala inferiore, può dirsi di Leandrinho, che parte formalmente dalla panca, ma in realtà  gioca tanti minuti e nei momenti cruciali è sempre in campo.

Guardando i giocatori che invece passano sul serio in panchina la maggior parte dei loro minuti, ma che quando scendono in campo rendono spesso più dei titolari, JR Smith avrebbe meritato sicuramente una maggiore considerazione: Karl, che "a pelle" non poteva provare una eccessiva simpatia nei suoi confronti, lo ha tenuto nello sgabuzzino per la prima parte della stagione, ma da quando ha iniziato a dargli fiducia, JR si è rivelato la vera arma in più per i suoi, un giocatore determinante per raddrizzare molte partite nate storte.

Rispetto agli anni scorsi è apparso molto più efficiente e concentrato, ed ha addirittura iniziato a piegare sul serio le ginocchia in difesa: un gesto tecnico a cui era sempre stato inesorabilmente allergico, e ancor più meritevole in un contesto come quello dei Nuggets, in cui gli obiettori di coscienza nella metà  campo difensiva sono la regola e non l'eccezione.

Il brutto: quando i Lakers hanno bisogno di rimbalzi, stoppate, intensità , Coach Zen guarda la sua panchina e sceglie Ronny Turiaf, che si fa trovare sempre pronto all'appello.
Il martinicano da Gonzaga, pur essendo un valido role player, offre sempre il meglio di sé quando viene chiamato a scendere in campo, ma in realtà  fornisce il principale contributo alla causa gialloviola" quando è in panchina!

Ronny, infatti, è l'"uomo spogliatoio" per eccellenza, il giocatore che più di chiunque altro, in una lega dominata dagli "ego" sproporzionati e dall'individualismo, si distingue per il suo inarrestabile entusiasmo a bordo campo per ogni giocata dei compagni: canta, balla, esulta, si dimena, il tutto in modo coinvolgente e letteralmente esilarante (cercate "Turiaf dance" su youtube e date un'occhiata a qualche filmato come questo .

Un vero idolo di culto del sommerso NBA, un personaggio che trasuda passione ed entusiasmo; e d'altronde cos'altro ci si poteva aspettare, da uno che ha rischiato di dover abbandonare il basket perché aveva un cuore troppo grande?

Il cattivo: Jerry Stackhouse ha fatto la voce grossa in questa speciale classifica negli ultimi anni, ma in questa stagione è finito a fondo come il resto dei Mavs: le cifre sono calate, non è mai stato realmente determinante come in passato, e si è fatto notare soltanto per un tentativo di garrotare Ginobili e per un acceso battibecco a mezzo stampa con Byron Scott, che non sarà  un mostro di simpatia ma, effettivamente, qualcosina più di Stack ha ottenuto nella sua carriera, e da protagonista, non semplicemente come paggetto di Magic.

COACH OF THE YEAR: Byron Scott

(come il R.O.Y.)
1 Byron Scott (NO) (458 - 70)
2 Doc Rivers (Bos) (242 - 23)
3 Rick Adelman (Hou) (193 - 17)
Altri allenatori votati: Maurice Cheeks, Phil Jackson, Jerry Sloan, Eddie Jordan, Stan Van Gundy, Nate McMillan, Flip Saunders, Mike D'Antoni.

Il buono: Stackhouse è stato veramente uno dei pochissimi a non aver condiviso il premio di miglior coach a Byron Scott, ma è una scelta che ci sta tutta; certo, Doc Rivers ha guidato una macchina difensiva meravigliosa, ma in quel caso i meriti sono più di Thibodeau (che in realtà  è stato il vero "coach of the year"); Scott, per parte sua, è direttamene responsabile della splendida stagione degli Hornets, una squadra che si è dimostrata molto più efficiente in attacco e, soprattutto, in difesa, di quanto non si creda comunemente (quarto miglior attacco e ottava miglior difesa, in base ai punti per possesso): non è solo un one-man show di Paul come accade per i Cavs con LeBron, gli Hornets sono una squadra allenata ottimamente, che fa cose semplici ma efficaci e le esegue con attenzione e precisione.

Menzione d'onore per Adelman, che era sempre stato considerato un allenatore prettamente offensivo, e invece ha proseguito nel solco tracciato da Van Gundy (e da Thibodeau stesso) mettendo su la miglior difesa della lega senza il trifoglio sulla maglia

Il brutto: alzi la mano chi, al momento della cessione di Allen Iverson, non ha pensato che i Sixers si stavano avviando ad almeno 3-4 stagioni sotto le 30 W stagionali; alzi la mano chi, guardandone il roster, non si è stupito del fatto che solo uno "slump" nelle ultime gare stagionali ha impedito loro di chiudere la regular season con un record superiore al 50%; alzi la mano chi, alla vigilia della serie con i Pistons, avrebbe immaginato che sarebbero stati un osso tanto duro da spolpare per Sheed e compagni.

Eppure tutto questo è la realtà , ed il merito è sostanzialmente di Mo Cheeks: il roster a sua disposizione non è particolarmente talentuoso, ha dei gravi buchi in alcune posizioni-chiave, ed è estremamente acerbo (solo Dre Miller ha più di 27 anni); però è composto da giocatori molto allenabili, disciplinati, che fanno quello che gli viene detto di fare; una situazione ideale per un allenatore che ama (e conosce profondamente) il gioco, ma che non è in grado di fare i giochi mentali di Jackson o di imporre la rigida disciplina militare di Pop per tenere in pugno degli spogliatoi troppo "movimentati".

Il cattivo: il premio dell'anno scorso aveva fatto storcere il naso a molti commentatori e tifosi: raggiungere la vetta di una debolissima Atlantic non era un risultato propriamente epocale, e da un punto di vista di mera tattica Mitchell non aveva fatto vedere niente di strabiliante.

Un anno dopo quei dubbi sembrano più che fondati: con una squadra rinforzata dagli innesti di Kapono e Jamario Moon, che si sono dimostrati più che validi, i Raptors si ritrovano con 6W in meno in regular season, lontanissimi dai Celtics ma anche tallonati da vicino dai meno talentuosi Sixers, un primo turno di playoffs conclusosi in un massacro da parte dei Magic.

I conti non tornano, e il principale imputato non può che essere colui che tira i fili, che obiettivamente nell'ultimo anno non ha fatto assolutamente nulla per risolvere i problemi, ormai cronici di questa squadra: spaccata in due tra la sua anima "brotha" (Bosh e Ford) e quella europea, è una formazione che non ha un gioco in attacco ed è largamente insufficiente in difesa, non trova una collocazione per Bargnani e non trova abbastanza minuti per Calderon.

Insomma, una delusione su tutta la linea, e se Colangelo non prenderà  provvedimenti durante l'estate rischia di essere il preludio ad un tracollo.

EXECUTIVE OF THE YEAR: Danny Ainge

(votati da 47 GM e dirigenti)
1 Danny Ainge (Bos) 18
2 Mitch Kupchak (LAL) 12
3 Jeff Bower (NO) 11

Il buono: un anno fa i Celtics languivano in fondo alla Eastern Conference, e riponevano tutte le loro speranze di risalire la china nelle palline da ping-pong, nella possibilità  di portarsi a casa Oden o Durant; i Lakers erano impantanati in una mediocrità  senza grandi prospettive di miglioramento, erano stati massacrati dai Suns al primo turno, e Kobe aveva appena fatto sapere di considerare i suoi dirigenti degli incompetenti, e di non avere alcuna intenzione di giocare un minuto in più in maglia gialloviola.

Fast forward di un anno, e biancoverdi e gialloviola hanno messo assieme i migliori record delle rispettive conference, sono pronte a giocarsi il titolo NBA dopo dei playoffs esaltanti, sono insomma le due migliori squadre della lega.

Con queste premesse è veramente difficile non condividere l'assegnazione di primo e secondo premio in questa classifica, anche se in realtà  non si può tacere che tutto questo è stato possibile grazie a due trades (Garnett in biancoverde e Gasol a Hollywood, casomai non aveste seguito nulla di NBA nell'ultimo anno) andate in porto non solo, e non tanto, per la sagacia di Ainge e Kuptchak, quanto per il sostanzioso contributo di chi gli ha ceduto quel po po' di giocatori senza ricevere in cambio contropartite di analogo valore.

Per quanto riguarda Bower, il terzo posto sul podio lo ripaga delle risate di scherno subite negli ultimi due anni, per una serie di operazioni (la cessione di Magloire, la trade per Tyson Chandler, i contrattoni elargiti a Stojakovic, Mo Pete e West) che lo avevano esposto a feroci critiche, ma che si sono rivelate una più azzeccata dell'altra.

Il brutto: parafrasando l'inarrivabile Federico Buffa potremmo dire che se sapete riconoscere Sam Presti, GM dei Sonics, allora siete veramente dei fanatici (in senso buono) del basket a stelle e strisce.

Si è presentato sulla platea più importante dando il via alla blockbuster trade che ha portato Ray Allen in biancoverde e West, Szczerbiack e Jeff Green nella città  della pioggia; la scelta di Durant alla #2 non richiedeva una particolare inventiva, ma resta il fatto che arrivare in una franchigia con un roster vecchio, sfiduciato, lacerato da polemiche interne, e ritrovarsi dopo solo un mese con due vere e proprie gemme come Durant e Green, nonché una squadra drasticamente ringiovanita e più talentuosa di prima, è già  qualcosa di notevole.

Se però volete farvi un'idea di quanto il signore se ne intenda, guardate come ha trasformato in pochi mesi, con un gioco di prestigio degno del miglior Houdini, il nulla assoluto (cioè il fatto di perdere un giocatore che se ne va tramite free agency) in tre prime scelte.

Nel Luglio 2007, Rashard Lewis è un giocatore dei Sonics solo sulla carta; è free agent e non ha nessuna intenzione di rimanere in gialloverde, quindi il potere contrattuale di Seattle è praticamente nullo; Lewis trova l'accordo con i Magic, e Presti, che non ha nessuna possibilità  di trattenerlo a quelle cifre, organizza una sign and trade con lo scopo di portarsi a casa quantomeno una mancetta, un contentino, vale a dire una futura seconda scelta non meglio precisata; pochi giorni dopo, però, questa scelta sostanzialmente inutile diventa ben più succulenta, perché Presti la gira ai Suns, che vogliono liberarsi del contratto di Kurt Thomas, e sono disposti a pagare ben due prime scelte (2008 e 2010) per il disturbo; Seattle prende e porta a casa, ma non si ferma qui, perché pochi mesi dopo quello stesso Kurt Thomas finisce agli Spurs, che cercano di reagire ai terremoti Gasol, Shaq e Kidd, e la contropartita è un'ulteriore prima scelta (2009).

In meno di un anno di lavoro ha messo su una squadra giovane, talentuosa, in cui il giocatore più pagato nella prossima stagione prenderà  6.7 milioni di dollari; nel frattempo, già  che c'era, ha trasformato un pugno di mosche in tre prime scelte: la camminata sulle acque ci aveva impressionati di meno.

Il cattivo: avete presente il giochino fatto poco fa per Ainge e Kuptchak, quello del "mandiamo indietro la macchina del tempo di 365 giorni e ricordiamoci com'erano messi"? Beh, se siete dei tifosi Bulls, questo gioco è vivamente sconsigliato, e sarebbe meglio non leggere oltre, perché stiamo per parlare dell'annus horribilis di John Paxson.

Un anno fa i Bulls avevano chiuso con il 60% di vittorie, avevano sfiorato la Finale di Conference, Skiles era finito settimo nelle votazioni per il premio di miglior coach, c'era una succosa nona scelta da utilizzare in un draft molto profondo, e il mercato estivo lasciava presagire grandi soddisfazioni: Paxson era il netto favorito per portarsi a casa in una trade Kevin Garnett o Kobe Bryant, e se anche nessuno dei due fosse finito a Chitown (il che sembrava estremamente improbabile) il "piano B" prevedeva uno scambio per Pau Gasol, talmente scontato da essere quasi banale.

Un anno dopo il record stagionale dice 33-49 (-17 W), Skiles non c'è più e il suo successore Boylan nemmeno; a forza di tirare la corda e di cercare di spuntare un prezzo di favore, di approfittarsi dei problemi in casa altrui, Garnett non è arrivato, Kobe neppure e Gasol men che meno; è arrivato solo Larry Hughes, in una manovra studiata soprattutto per liberarsi di Ben Wallace, il pezzo pregiato dell'estate 2006 sbolognato via come un peso morto; Noah non ha fatto girare la testa a nessuno, il salary cap è già  intasato, Deng e Gordon, per i quali Paxson chiedeva la luna, hanno deluso, e tra poco dovranno essere rinnovati elargendogli quantomeno quello che è stato dato a Nocioni, arrivando a vette di payroll degne dei Knicks; oppure dovranno essere lasciati andare, depauperando ulteriormente un roster già  inadatto ai grandi traguardi.

Tifosi dei Bulls, avete visto che era meglio non leggere oltre?

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