Genealogia di un MVP

Ecco l'MVP della stagione 2007-2008

L'origine del nome di Bryant è arcinota: i suoi genitori si trovavano in un steak-house appartenente ad una grande catena di Philadelphia quando sua madre, Jellie Bean, annunciò a sorpresa al marito Joe di essere rimasta incinta: l'uomo, entusiasta della notizia quanto della succulenta bistecca di manzo che stava assaporando, che si chiamava appunto “Kobe”, decise di immortalare quel momento felice dando al nascituro (desiderava un maschietto) il nome originale della bistecca.

Così, il 23 agosto 1978 nasceva a Philadelphia Kobe Bryant.
Il ragazzo si aggiungeva a due sorelle più grandi, Shaya e Shaira.
Suo padre era già  all'epoca un buon giocatore professionista, avendo militato per otto stagioni nell'NBA con Philadelphia, San Diego Clippers e Houston Rockets.

Tuttavia, quando Kobe aveva ancora solo 6 anni, nel 1984, era già  in vista la fine della sua carriera NBA e così decise di accettare un contratto in una squadra italiana, sperando di poter disputare ancora un paio di stagioni. In effetti, poi, Joe Bryant giocò in Italia per altri otto anni, suddivisi tra Rieti, Reggio Calabria e Pistoia.

La sua famiglia finì quindi per trasferirsi con lui, appunto a Rieti, e Kobe cominciò a seguire il padre ovunque andasse, che fosse una gara ufficiale o solo una seduta di allenamento. Ad ogni time-out o pausa il ragazzo iniziava a tirare e a palleggiare per il campo, e prese anche l'abitudine di frequentare i campetti di strada di Rieti.

Naturalmente, non mancavano in casa Bryant le videocassette delle più belle partite dell'NBA di quegli anni, di cui costantemente si riforniva suo padre dall'America. Erano gli anni dei Lakers di Magic e dei Bulls di Jordan.

Kobe era un fan dei Lakers e dello show-time di Magic, e questi esempi alimentavano i suoi sogni di militare un giorno tra le fila dei giallo-viola. Nel 1992 (Kobe aveva 14 anni) Joe Bryant decise di smettere di giocare e di tornarsene in patria. Kobe tornava a casa a tutti gli effetti come un ragazzo italiano, diverso dai suoi coetanei americani: parlava correttamente tanto l'italiano quanto l'inglese (parla ancora benissimo a tutt'oggi in italiano con Sasha Vujacic…) ed era abituato a studiare molto più dei ragazzi americani che giocano bene a basket.

Negli USA lo consideravano un giocatore appena mediocre e privo della preparazione atletica normalmente approntata per i ragazzi delle High School americane nei primi quattro anni di corso. Erano quegli anni che lui aveva saltato irrimediabilmente, avendo vissuto in Italia.

Tuttavia, il ragazzo era volitivo, al limite della caparbia, ed iniziò a impegnarsi duramente per migliorare ogni aspetto del suo modo di giocare. Quanto si sbagliavano i suoi detrattori su di lui!

Si iscrisse alla High School di Lower Marion, che frequentò per tre anni.
Fu un periodo importantissimo per la sua formazione cestistica, perchè migliorò a tal punto da diventare il miglior marcatore di sempre delle High School della Pennsylvenia, segnando in totale 2.883 punti e addirittura battendo il precedente record di un tale Wilt Chamberlain!

In più, il suo inserimento in squadra determinò in tre anni un bilancio totale di gare vinte-perse di 77-13. Praticamente ogni anno ritoccava in meglio le sue cifre e diventava un giocatore più completo e un attaccante devastante, al punto da chiudere la sua ultima stagione con una media a gara 30,8 punti, 12 rimbalzi, 6.5 assist e 4 recuperi.
Quell'anno la sua squadra completò la stagione con un lusinghiero bilancio di 31 vinte e sole 3 perse e vinse il titolo di Divisione.

Il ragazzo si era ormai segnalato e ricevette il primo ambito riconoscimento di “National high school player of the year” da parte di Usa Today, oltre che il più commerciale “Gatorade circle of champions high school player of the year”. Venne quindi anche selezionato per disputare il McDonald's All Star Game tra i migliori liceali d'America.

Tutti questi prestigiosi risultati, insieme ad una escalation così rapida ai vertici del gioco, lo convinsero a tentare il grande passo nel mondo dei pro, saltando il college. Erano anni in cui una tale scelta non era più nè così rara, nè tanto meno così scandalosa, ma, nondimeno, da subito furono in tanti ad essere scettici sul suo talento, considerandolo più che altro un funambolico schiacciatore e poco altro, certamente non ancora pronto per l'NBA.

Tuttavia, dopo essersi “dichiarato”, fu scelto al draft del 1996 con la 13° scelta assoluta dai Charlotte Hornets, ma da questi immediatamente girato ai Lakers in cambio di Vlade Divac, che all'epoca era considerato un buon pivot europeo.

Al suo arrivo nell'NBA, Kobe si presentava alto 1,98, piuttosto magro, e la sua altezza pareva ancora maggiore a causa dei capelli con il classico taglio Afro. Diventò così il giocatore piu' giovane ad aver debuttato tra i professionisti all'eta' di 18 anni, 2 mesi e 11 gg.

Ovviamente, trascorse le prime due stagioni ai Lakers partendo dalla panchina, in quanto non ritenuto ancora pronto ai ritmi fisici imposti dall'NBA a un ragazzo come lui, di soli 18 anni. Tuttavia, già  nella sua stagione da rookie, chiuse con una media punti di 7.6, entrando nell'All Rookie Team, e venne anche chiamato a partecipare l'All Star Game dei Rookie del 1997, in cui si segnalò anche per la vittoria nella gara delle schiacciate (1997).

Questo suo primato va accostato con il (successivo) record di triple da lui segnate in una sola gara, 12, a lungo da lui detenuto insieme con Donyell Marshall: nemmeno Michael Jordan ha potuto contemporaneamente detenere questi due primati da schiacciatore e da tiratore oltre l'arco, il che la dice lunga sulle sue capacità  come attaccante.

Da sophomore, poi, Kobe aveva gia raddoppiato la media punti a 15.4 e all'eta' di 19 anni e 5 mesi debuttò nel All Star Game degli “adulti”, diventando il giocatore piu giovane chiamato a disputare la gara delle stelle (1998 – New York), che continuerà  a disputare ininterrottamente ogni anno sino ad oggi.

La sua prima stagione da titolare fu quella del Lock-Out nel 1998.
Iniziò a partire in quintetto in tutte le 50 gare disputate dai Lakers con una media media di 19.9 punti a partita.

Sono gli anni in cui Kobe lavora duramente per migliorarsi come attaccante.
Una testimonianza ci racconta il suo allenamento individuale: dopo la seduta di potenziamento con i pesi, Kobe fa ogni volta ben 1.000 tiri a canestro (!), di cui moltissimi in serie da tre punti da ogni angolazione e persino anche da centro campo, dopo di che si fa un'ora di tapis roulant alla massima inclinazione e velocità , per potenziarsi nel salto e nella accelerazione.

E' anche un maniaco dello stretching, della buona alimentazione (ama da sempre la dieta mediterranea ed il cibo italiano) e dorme moltissimo per recuperare la fatica.
Nella stagione 1999-2000 arrivò come coach ai Lakers Phil Jackson, che ebbe un impatto importantissimo nella sua maturazione.

Kobe migliorò ancora la sua media punti (22.5), rimbalzi e anche assist (fino a quel momento decisamente trascurati…). Non dimentichiamo che era fresco nei ricordi del coach l'esempio del “suo” Michael Jordan, che si era trasformato negli anni da superbo solista a uomo squadra più vincente di ogni epoca.

Sempre nella stagione '99-2000 giunse anche il primo titolo dei “nuovi” Lakers, oltre che un riconoscimento al giocatore come difensore, in quanto si stabilì (vi rimarrà  per cinque anni consecutivi) nell'All Defensive Team.

Nella stagione successiva (2000-2001) Bryant viaggiò a 28.5 punti, ma, proprio per questo, iniziarono i primi contrasti sulle sue scelte di gioco con Shaquille O'Neal, che gli aveva fatto da mentore sino a quel momento.

Per la prima volta nella sua fulgida carriera piovvero su di lui le critiche della stampa, specializzata e non, per i suoi comportamenti egoistici, narcisistici e decisamente poco adatti ad una buona armonia di squadra. Kobe disobbediva al “triangolo” di Tex Winter e tirava sempre, mandando letteralmente in crisi l'attacco che aveva fatto le fortune del suo coach (e del suo assistente…).

Certe sere, invece, stanco delle accuse che riteneva ingiustificate, iniziava platealmente “lo sciopero dei tiri” e passava sempre la palla ai compagni. E' comunque consacrato come stella dell'NBA 8compresi i capricci!) e vince l'M.V.P. del All Star Game 2001.

Tuttavia, nei playoffs il suo coach riuscì sempre a ricomporre i difficili equilibri dello spogliatorio e i Lakers spianarono l'Ovest senza perdere nemmeno una partita fino alla finale coi 76ers di coach larry Brown, nella quale persero solo Gara 1 per merito di una eroica prestazione di Iverson, che gli valse una fama quasi maggiore dell'aver vinto un titolo, tanto era titanica l'impresa ed inferiori i Sixers rispetto alla corazzata del duo Shaq-Kobe.

Per lui fu perciò il secondo titolo consecutivo. L'anno successivo ricominciarono le polemiche per le sue scelte di gioco ad ogni partita: un giorno Shaq&Kobe venivano descritti dalla stampa come una coppia inossidabile e quello successivo la loro intesa scricchiolava sinistramente per le esternazioni o gli atteggiamenti di una delle due prime donne della squadra.

Non è mancato anche chi abbia ipotizzato che molto si drammatizzasse sui tabloid per alimentare lo show business che ruotava attorno alla squadra californiana, ma certe testimonianze successive dall'interno dello spogliatoio ci dicono più chiaramente che dei momenti di vera tensione dovettero esserci, anche con il contributo del coach Zen…

Infatti, la tecnica del coach più volpino dell'NBA era, di volta in volta, quella di alimentare alcune critiche, ora contro l'una, ora contro l'altra delle sue star, per pungolarne l'orgoglio e strappare delle prestazioni maiuscole in cui i suoi giocatori avessero modo di dimostrare il loro carattere.

Il risultato, visto a posteriori, fu ottimo, dato che, malgrado la media punti di Bryant fosse scesa a 25.2, i Lakers riuscirono nel three-peat, asfaltando in finale 4-0 i Nets di Jason Kidd.

Nel 2002-2003, si registrò un notevole miglioramento della media punti di Bryant, che toccò il suo massimo in carriera in stagione regolare (30.3), ai quali aggiunse 6.9 rimbalzi e 5.9 assists, ma anche nei playoffs (32.1 punti con 5.2 rimbalzi e 5.1 assits).

Il suo nome inziò a circolare a fine anno, insieme a quello di Tracy MacGrady, fra i più probabili candidati a vincere il trofeo MVP 2003, ma alla fine la spuntò Tim Duncan, e non certo immeritatamente.

Le sue cifre iniziarono a crescere proprio in corrispondenza del calo del dominio sotto le plance di O'Neal, ma, nonostante tale incremento fino alla post-season, i Lakers vennero eliminati dai playoffs in semi-finale di Conference dagli Spurs, che arriveranno poi trionfalmente sino al titolo.

Finita questa stagione meno vittoriosa delle precedenti, Kobe, si recò in Colorado per farsi operare, ma un altro episodio poco attinente al basket lo riportò suo malgrado al centro delle cronache del paese.

La cameriera di un albergo, nel quale aveva pernottatto, e con la quale si era concesso una evasione sessuale extraconiugale, lo denunciò per stupro. Per un anno intero di basket giocato si parlava di lui non più come giocatore, ma come imputato, con le ovvie divisioni tra i colpevolisti e gli innocentisti.

Kobe dovette sobbarcarsi il carico di numerose trasferte extra in Colorado per le varie udienze preliminari. Tuttavia, la vicenda si chiuderà  bene per lui, dato che la ragazza, probabilmente a corto di prove oltre alla sua testimonianza, accetterà  di ritirare la denuncia in cambio di una non precisata somma di denaro.

Quanto al suo matrimonio, Kobe, dopo le scuse pubbliche in televisione alla moglie, rappresentando la cameriera come una parassita in cerca di soldi facili e gloria effimera, chiuderà  la partita regalando alla moglie un diamante grosso come una patata, la cui foto farà  il giro delle riviste di gossip di tutta l'America.

Da quel momento, il ragazzo darà  una svolta decisiva alla cura della sua immagine pubblica, che verrà  presentata come quella di un bravo ragazzo, tutto sport e famiglia (ci sono anche in ballo le possibili rescissioni dei contratti pubblicitari con i suoi sponsor…).

In più, il giocatore riescirà  ad essere ancora un pilastro vincente dei Lakers in versione Dream Team di quell'anno (con l'arrivo di Gary Payton e Karl Malone), spesso anche dopo un'udienza del suo processo. Memorabile un suo buzzer beater a Denver, dove era arrivato in ritardo per causa del processo, giocando senza neppure riscaldarsi.

E' anche l'anno dei problemi alla mano, che lui risolve in modo personalisssimo, iniziando a tirare di mancina con ottimi risultati, al punto da viaggiare, malgrado le star in quintetto, ad una media di 24 punti, 5.5 rimbalzi e 5.1 assists.

Tuttavia, il progetto Payton-Malone-Bryant-Shaq arrivò al capolinea proprio sul palconesico piu' importante: dopo aver vinto la Western Conference e giunti alle finali con i Pistons, che erano viste dai Giallo-Viola come una semplice formalita' da sbrigare prima di diventare nuovamente campioni, i Lakers si schiantarono contro il gruppo allenato da Larry Brown, che si prese anche una bella rivincita dall'epoca dei Sixers.

Gia' da gara 1, causa anche un infortunio al fondamentale Malone, i Lakers si accorsero che Detroit non soffriva di timori reverenziali e affrontava con umiltà  e grinta i campioni pluridecorati di Los Angeles: Bryant riuscirà  solo a mettere la tripla per impattare GARA 2 e andare 1 a 1 con la vittoria all'OT, ma in tutte le altre partite Prince riescì a ingabbiare Kobe con le sue lunghe braccia e a far affondare i Lakers per 4-1.

Reagirà  solo Shaq, con prestazioni dei suoi tempi migliori, Malone la vedrà  in borghese e Payton giocherà  una delle sue peggiori stagioni, soprattutto in difesa, dove Billups lo sottoporrà  ad umulianti sconfitte e vincerà  anche il titolo di MVP dei playoff.

Alla fine di quella stagione, Kobe tornò free-agent e, dopo i soliti rumors di un suo trasferimento (si parlava di rinverdire ai Bulls il mito MJ), rifirmò con i Lakers per altri sette anni. Tuttavia, ormai, era lui la sola stella della squadra e la dirigenza dei Lakers, già  da tempo decisa a puntare su di lui, “cacciò” Phil Jackson e cedette il giocatore franchigia degli ultimi tre titoli, Shaquille O'Neal.

Ovviamente Kobe non ha mai ammesso di aver influenzato la partenza di Shaq e di Jackson, ma le indiscrezioni trapelate in seguito non sembrano lasciare dubbi, come del resto ha rivelato in modo esplicito anche il libro di Phil Jackson (in cui svela particolari della stagione 2004 e dell'impossibilità  di allenare Kobe per via dei suoi comportamenti da bambino viziato).

Nella sua prima annata da “solista” Kobe chiuderà  con 27.6 punti, 5.9 rimbalzi e 6 assists a partita, ma si vedrà  sempre più solo. Inoltre, diversi infortuni ne limitarono l'apporto e gravarono anche i suoi campagni (Divac non giocherà  mai e Brian Grant, arrivato da Miami con Odom e Caron Butler – che non riuscirà  ad ambientarsi con un pari ruolo così ingombrante – scenderà  in campo solamente un paio di volte).

Una pessima annata, in cui il record vinte/perse dei Lakers sarà  addiritura piu' basso di quello dei cugini Clippers dell'epoca. L'anno dopo, in una squadra appositamente costruita per permettergli di essere il terminale offensivo numero 1, Kobe chiuderà  la stagione con 35.4 punti, ovvero come miglior marcatore di tutto il campionato NBA (ai quali aggiungerà  5.6 rimbalzi e 4.5 assists).

Fu l'anno degli exploit offensivi, in cui volerà  svariate volte sopra i 50 punti in una singola partita e realizzerà  due prestazioni che resteranno per sempre negli annali della NBA. Il 20 Dicembre, contro Dallas, segnò 62 punti in soli tre quarti di gioco (più di quanto riescirono a fare tutti i suoi avversari messi insieme) e poi, un mese piu' tardi, circa (il 22/01), ne mise a referto 81 contro i Raptors, in una gara quasi monotona per il suo andamento.

Gli 81 punti, da cui nasce il suo nuovo soprannome, “Mr. 81”, sarà  la seconda miglior prestazione di tutti i tempi nella storia della NBA. Bryant, contrariamente alle aspettative, riuscirà  in quest'annata più “matura” nell'impresa di guidare i Lakers ad un record piu' alto del 50% e portarli ai playoffs, interrompendo così l'assenza dei giallo viola dalla post-season.

Il primo turno Los Angeles sembrava poter battere i Suns, riuscendo ad andare avanti 3-1 nella serie, salvo poi perdere le 3 partite successive e venire quindi eliminata per 4-3. Durante il corso dei playoffs Kobe viaggiò a 27.9 punti, 6.3 rimbalzi e 5.1 assists a partita.

Nel 2006/07 le sue medie furono ancora più stellari: 31.6 punti, 5.7 rimbalzi, 5.4 assist in stagione e 32.8 punti, 5.2 rimbalzi e 4.4. assist nei playoff. Bryant ed i Lakers, senza effettuare stravolgimenti durante i mesi estivi, iniziarono la stagione come rivelazione del campionato perche' fino a meta' febbraio (circa) furono in grado di tenere il passo delle altre "grandi" della Western quali Spurs e Suns.

In questa prima fase di stagione regolare, Kobe, sembrò ritrovare un giusto mix fra punti, rimbalzi ed assists guadagnandosi cosi' il "biglietto" per l'All Star Game dove concluse come l'MVP della serata.

La seconda parte di campionato per i Lakers fu invece prevalentemente negativa a causa di infortuni legati a giocatori chiave come Lamar Odom (e al mancato inserimento di Radmanovic, acquistato in estate). KB24 (altro soprannome derivato dalla sua decisione di cambiare il numero di maglia da 8 a 24), una volta visto il record vittorie/sconfitte abbassarsi pericolosamente verso il 50%, si assunse allora l'onere di caricarsi letteralmente il team sulle proprie spalle, trascinandolo nei playoffs a suon di prestazione di altissimo livello.

Nella corsa alla qualificazione non può mancare la citazione alle quattro partite (Portland, Minnesota, Memphis e New Orleans) durante le quali Kobe raggiunse sempre (come minimo) quota 50 (rispettivamente 65, 50, 60, 50), diventando il secondo giocatore nella storia della NBA a tagliare un traguardo simile.

Sempre durante questa periodo, Bryant si eresse alla vetta della classifica dei marcatori per concludere (per il secondo anno di fila) come miglior realizzatore della Lega. Una volta arrivati alla post-season, tuttavia, i Suns di Mike D'Antoni non trovarono molta resistenza da parte dei Lakers che (anche per i soliti problemi interni di spogliatoio), che si arresero sul 4-1.

La stagione attuale si divide tra il prima ed il dopo Gasol. Prima ci sono Odom (in crescita, anche come difensore) e Bynum, piacevole prodotto giovanile sotto le cure di Kareem Abdul Jabbar. Dopo la trade che porta l'ala-centro spagnolo dei Memphis Kobe trova il suo secondo violino ideale: raccoglie i suoi assist (spesso in doppia cifra), attira le difese in area per i suoi tiri oltre l'arco, duetta in pick and roll con lui e raccoglie in rimbalzo qualche suo errore al tiro.

Il risultato lo sapete: record oltre le 50 W, testa di serie n. 1 ai playoff dell'Ovest e il tanto sospirato titolo di MVP. Vi pare poco?

Non si può sempre approvare le scelte di questo giocatore, e spesso si può odiarlo per il carattere, ma Kobe è un attaccante forse superiore a chiunque altro nella storia di questo gioco (sì, anche dei mostri sacri…), ed è molto migliorato come uomo squadra e leader, anche se resterà  sempre un solista nell'animo ed uno che ama i primati solo per sè… godiamocelo così com'è…

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