Sono indimenticabili le stagioni megliori di C-Webb in quei fanstastici Sacramento Kings
Che la sua sarebbe stata una carriera maledetta, lo avevamo capito sin da quella finale NCAA del 1993, la sua ultima partita in un campionato universitario, quando a pochissimi secondi dal termine del match, con la sua squadra a -2 e la palla in mano, chiamò uno sconsiderato time-out non avendone più a disposizione, guadagnandosi così un fallo tecnico e la matematica vittoria alla squadra avversaria, l'Università di North Carolina.
Erano i tempi dei Fab-Five, Jalen Rose, Juwan Howard, Jimmy King, Roy Jackson ed infine proprio lui, il leader della squadra, Chris Webber, un team capace di raggiungere per due anni consecutivi le finali NCAA, ma che non riuscì mai a portarsi a casa la retina.
Che non sia un vincente, ma solo un "grande perdente", molti lo pensano, forse anche a ragion veduta, ma se volete il parere di chi scrive, e non è così scontato che lo vogliate, è stato il giocatore che più mi ha illuminato gli occhi e scaldato il cuore, soprattutto nella parte discendente della sua carriera, quando, pur non riuscendo a sprigionare quell'esplosività che aveva caratterizzato gli anni belli della sua carriera, riusciva a stare in campo essendo una sorta di play- maker aggiunto.
Che sia una delle più talentuose ali grandi passatici che abbiano mai calcato un parquet NBA, concedetemelo, è storia.
Ancor prima che entrasse nella lega, pochi giorni dopo aver chiamato quello scellerato time-out, un fatto veramente curioso lo aveva coinvolto: a casa Webber arrivò una lettera che aveva come destinatario il nostro Chris, dall'allora Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, il quale cercava di rincuorare questo giovane ragazzo che stava attraversando il periodo più buio della sua pur breve vita.
Nella missiva si può leggere: "Ho pensato molto a te e sono rimasto incollato davanti alla tv per vedere la finale. So di non poter dire o fare niente per alleviare il tuo dolore, nonostante questo volevo farti sapere che tu e la tua squadra siete stati eccezionali. Fa parte del giocare sotto enorme pressione con grandi poste in palio, il rischio di fare degli errori mentali, io lo so. Ho perso due corse alla candidatura presidenziale e ho commesso infiniti errori in questi vent'anni. Quello che conta è però l'intensità , l'integrità e il coraggio messi nello sforzo. Cosa che tu sicuramente hai fatto. Sarà sempre un rimorso per te ma non vorrei che ti togliesse la soddisfazione di ciò che sei riuscito a compiere. Hai un grande futuro, non mollare".
Chris Webber nasce l'1 marzo 1973 a Detroit, nel Michigan, dove, con i Wolverines, affronterà la sua breve carriera universitaria. Nel 1993, alla fine di quella stagione indimenticabile, si renderà eleggibile al draft e verrà scelto con la prima chiamata assoluta dagli Orlando Magic, che la scambieranno immediatamente con i Golden State Warriors per riceverne Anfernee Hardway.
A Golden State si trova come allenatore l'istrionico Don Nelson, non un grande amante dei rookie e piuttosto propenso ad affidarsi a giocatori più esperti, con il quale sin dall'inizio della stagione, il rapporto volge decisamente verso Sud, continuando a deteriorarsi con il passare del tempo. La squadra comunque è forte e ricca di potenziale e riesce a raggiungere i play-off, nei quali però viene eliminata al primo turno dai Phoenix Suns in sole tre partite.
Sin dall'inizio della sua carriera, Chris fa capire di essere entrato nella lega con l'intenzione di dominarla, mettendo in mostra un atletismo strabordante, grandi capacità di mettere punti a referto e recuperare parecchi rimbalzi, il tutto condito da una visione di gioco a dir poco spettacolare. Alla fine dell'anno giunge il meritato premio di Rookie of The Year, avendo mantenuto cifre pazzesche per tutta la regular season (17,5 ppg, 9,1 rpg, 3,6 apg, 2,2 bpg). Però la situazione all'interno dello spogliatoio è diventata ormai insostenibile, così Chris chiede di essere ceduto.
Nel Novembre del '94 passa agli allora Washington Bullets, in cambio di Tom Gugliotta e di alcune scelte future. Si ritrova in una franchigia molto meno ricca di talento, in cui lui ricopre i galloni di stella della squadra, pur formando un pacchetto di lunghi molto interessanti e futuribili insieme all'ex compagno di Università Juwan Howard. Le sue cifre continuano a migliorare anno dopo anno (anno '94/'95 - 20,1 ppg, 9,6 rpg, 4,7 apg), ma la sfortuna comincia ad insinuarsi nella sua carriera in forte ascesa, limitandolo a sole 15 partite nella stagione '96/'96 a causa di un pesante infortunio.
L'anno seguente arrivarono finalmente i play-off per il team capitolino, ma i Bullets si dovettero inchinare agli imbattibili Bulls di Jordan e Pippen, che in sole tre partite si sbarazzarono facilmente dell'avversario. In una compagine tanto perdente, Chris però si sentiva frustrato e, non avendo più intenzione di collezionare numeri incredibili ma del tutto fine a loro stessi senza aver la possibilità di puntare forte al titolo, nel '98 chiese per l'ennesima volta di cambiare aria.
Nell'altra Conference intanto c'era una squadra con in mente un progetto particolarmente ambizioso, che stava formando un gruppo dall'enorme talento offensivo: i Sacramento Kings di coach Adelman. Webber decise così di trasferirsi nella capitale della California ed a Washington arrivarono Mitch Richmond e Otis Thorpe. Si era creato sotto le plance una delle coppie di lunghi più entusiasmanti dell'intera lega, formata dall'europeo Vlade Divac e il nostro Chris Webber.
I due, grazie ad un IQ cestistico fuori dal comune, erano in possesso di una visione di gioco stratosferica, buone mani per infilare la retina anche da 5/6 metri ed un gioco totalmente complementare l'uno all'altro. Vlade aveva ottimi movimenti in post-basso e grazie alle sue mani fatate era micidiale nel pescare gli esterni che tagliavano verso canestro; Chris invece era più atletico, con una notevolissima propensione al rimbalzo ed in grado sia di farsi trovare in posizione perfetta per ricevere che di servire i compagni in qualunque parte del campo si trovassero, non disdegnando il gioco sotto canestro.
Inoltre il back-court di questa favolosa squadra era uno dei più prolifici e ricchi di potenziale dell'intera NBA, con Mike Bibby in cabina di regia a dettare i tempi alla squadra, leader carismatico e clutch player, Stojakovic, tiratore bianco europeo, completamente infallibile dalla lunga distanza e vincitore per due anni consecutivi nella gara del tiro da 3 all'ASG e, per ultimo ma non di minore importanza, lo spacca-partite Bobby Jackson, che, venendo dal pino, era capace di ribaltare completamente la situazione a favore del proprio team.
Con un quintetto di questo livello, l'ingresso ai play-off era praticamente garantito ad ogni annata e le speranze di indossare l'anello non più mere illusioni. Nel '98/'99 l'avventura ai PO si conclude in fretta, causa l'eliminazione ad opera degli Utah Jazz. Dall'anno seguente avrà inizio la sfida con la squadra che diverrà la vera e propria bestia nera per Bibby e compagni: i Los Angeles Lakers di Shaq e Kobe, unico insormontabile ostacolo tra loro e il titolo.
La prima serie che vede rivaleggiare questi due team è tirata, ma Sacramento soccombe sotto i colpi di un incontenibile O'Neal e l'eliminazione al primo turno è così servita. Nel 2001 la squadra, dopo aver eliminato i Suns in sole 4 partite, deve cedere il passo nuovamente ai gialloviola, in grado di imporsi nel medesimo numero di match, senza lasciare scampo agli avversari.
L'anno seguente finalmente sembra quello della svolta, i giocatori in campo si trovano meravigliosamente nel fluido attacco ideato da coach Adelman, gli assist fioccano da ogni parte del campo ed i compagni si conosco alla perfezione. La squadra è coesa, forte, unita, ormai matura e definitivamente pronta per vincere.
Al primo turno vengono sconfitti comodamente gli Utah Jazz, poi è il turno di Dallas, spazzata via in 5 gare. Tutti gli uomini in campo sembra siano in missione speciale, sconfiggere gli odiatissimi Lakers e ricacciare in bocca al loro allenatore Phil Jackson ogni ingiuria lanciata contro di loro ed i cittadini (li aveva definiti "semi-civilizzati" e "bovari"). Si arriva così alla finale della Western Conference ed il nemico è quello di sempre: guidati da un ispiratissimo Mike Bibby ed un sensazionale Webber, i Kings riescono a mantenere il vantaggio nella serie, prima 2-1 poi 3-2. Gara -4 è un delirio di emozioni, Chris gioca una delle sue migliori partite in carriera, Kobe nel primo tempo non riesce a trovare il giusto feeling con il canestro e solo lo strapotere di un irresistibile O'Neal mantiene le squadre vicine nel punteggio.
Bryant negli ultimi due quarti prende completamente fuoco e infila la retina con canestri impossibili che spaccano a metà la difesa di Sacramento, ma i Kings tengono botta e rimangono in vantaggio sino agli ultimi secondi del match, quando accade il miracolo: nell'ultimo possesso la palla finisce piuttosto fortuitamente nelle mani di Robert Horry, posizionato oltre l'arco, che spara un mirabolante tiro e brucia la retina, spezzando i sogni di gloria di Bibby e compagni.
L'ultima gara si gioca all'Arco Arena, i tifosi di Sacramento sono indemoniati e spingono la squadra sino al supplementare, quando però i giocatori, completamente esausti, devono arrendersi ai futuri campioni NBA. Resta però negli occhi di tutti gli appassionati una delle serie più avvincenti degli ultimi anni, con i Kings costretti ad ammettere la superiorità di un avversario contro il quale non sono mai riusciti a vincere più di tre partite, con qualche rimpianto sull'ultimo tiro di Stojakovic nella gara decisiva che va 1 metro corto e che avrebbe potuto allungare ulteriormente il match.
Nella stagione seguente, i Kings non intendono certo arrendersi come era successo l'anno prima, ma la sfortuna torna a fare capolino nella vita di Chris Webber. Durante i PO infatti, dopo aver sconfitto Utah al primo turno, si trovano di fronte ai Mavericks. La serie sembra già incanalata verso la vittoria per i californiani, ma Webber si infortuna gravemente, impedendogli di giocare le partite successive, comportando di fatto il successo di Dallas.
Il problema al ginocchio si rivela più grave del previsto, Chirs fatica a tornare sul campo di gioco ed una volta conclusa la riabilitazione, non si può non notare come abbia perso gran parte dell'esplosività nelle gambe che aveva caratterizzato gli anni migliori della sua carriera. Nel '03/'04 colleziona solo 23 presenze ed ai PO la squadra viene sconfitta da Seattle. Ormai in California si è capito che un ciclo si è concluso, vista anche la cessione di altri giocatori, tra i quali il trasferimento di Stojakovic agli Indiana Pacers.
Nel febbraio del 2005 Webber viene scaricato ai Philadelphia 76ers, in cambio di qualche mestierante NBA. Nella Città dell'Amore Fraterno trova una squadra completamente in mano alla loro stella Allen Iverson, molto giovane e futuribile, ma all'interno della quale non riesce mai realmente ad adattarsi. Le partecipazioni ai PO sono piuttosto casuali ed effimere, così l'anno seguente la dirigenza decide di ricostruire il roster, facendo partite i loro giocatori più carismatici.
Chris si convince finalmente a puntare forte al titolo NBA e decide di firmare con i Detroit Pistons, a cui necessitava un lungo vista la partenza, direzione Chicago, di Ben Wallace. Con la sua squadra di casa non è di certo un problema arrivare alle finali di Conference, dove però non avevano ancora fatto i conti con il Fattore LeBron James, che travolge la squadra del Michigan e lascia per l'ennesima volta a bocca asciutta l'ex Bullets.
A fine stagione decide di prendersi un periodo di pausa sino a gennaio, valutando attentamente le numerose proposte che arrivano sul tavolo del suo agente. Dopo numerose voci che lo volevano di ritorno alla sua ultima squadra, Webber sorprende tutti e decide di scegliere la franchigia che lo aveva lanciato 15 anni or sono, nel tentativo di aiutarla a raggiungere i PO ed una volta acquisita la partecipazione, provare a dare fastidio a tutti.
Il coach, che ironia della sorte è nuovamente Don Nelson, crede molto nel contributo che può dare Chris e rilascia dichiarazioni nelle quali afferma che senza di lui difficilmente i play-off sarebbero un traguardo raggiungibile. Ma il dolore continua a tormentare le stanche articolazioni dell'ex Fab-Five e pare che la carta d'identita cominci a chiedere il conto per i numerosi anni passati nella lega. Nella testa di Chris si fa sentire sempre più forte il desiderio di appendere le scarpe al chiodo e dedicare la sua vita a nuove attività .
Finisce così la carriera di un grande campione, che è riuscito ad esprimere in campo tutto il suo enorme potenziale e che avrebbe sicuramente avuto una bacheca ben più ricca di successi se la sfortuna non si fosse accanita così crudelmente su di lui.
Lascia la NBA senza tanti proclami, con un basso profilo forse un po' ingeneroso per un giocatore della sua grandezza. Ma chi lo ha amato veramente non potrà mai scordare le imprese eroiche di questa grandissima star.
Sicuramente Chris non ha grandi rimpianti nella sua carriera, caratterizzata da cifre stratosferiche e numerosi riconoscimenti. Resta un piccolo, minuscolo quesito, che rimarrà per sempre irrisolto nella sua testa: e se non avesse chiamato time-out quella maledetta sera del '93?