Brandon Roy, il campione della porta accanto…
"Mi ricordo di bellissime giornate quando, dopo il tramonto, uscivo con i cani, annaffiavo il prato… Volevo camminare intorno al vicinato, giocare con i miei due cani, raccogliere le more""
Difficile pensare ad una frase del genere accostata a una grande stella NBA, che sappiamo spesso piene di vizi (a volte anche pericolosi, tipo le sparatorie fuori dai night) e che conosciamo come persone molto eccentriche (la camera iperbarica in casa Arenas è solo un esempio).
È invece necessario partire dalla calma agreste suscitata dalla frase in apertura per comprendere fino in fondo Brandon Roy, allo stesso tempo campione straordinario e persona semplicissima.
La sera dell'11 Novembre 2007 i Trail Blazers, dopo un discreto inizio di stagione, affrontavano a Portland i Dallas Mavericks, i quali con la franchigia dell'Oregon avevano una striscia aperta di addirittura 13 vittorie. Sulla carta l'esito della partita era scontato, anche se il 13 in America è considerato alla stregua della peste.
Fu però un altro il numero chiave della serata: il 7.
Brandon Roy fece impazzire i 19.255 spettatori del Rose Garden e Avery Johnson. Furono 32 i punti messi a segno dal R.O.Y. 2006-2007, che bombardò il canestro texano segnando 11 tiri su 17, compresi 5 Stinger dalla lunghissima distanza, per il successo finale 91-82 dei giovanissimi Blazers. Oltre a questo aggiunse 7 assist in 41 minuti e 59 secondi, facendo sembrare quello con il titolo di M.V.P. lui e non Nowitzki.
"E' stata una grande vittoria per noi. Ci siamo detti che era una gara fondamentale. Non ci siamo preoccupati del fatto che Dallas volesse giocare una grande partita, noi desideravamo solo giocare meglio. Ci avevano battuti 13 volte e volevamo che non fossero 14" – queste le parole di Roy a fine gara.
A fine partita i tifosi premiarono i Blazers con una standing ovation, e Bradon uscì dal campo con i pugni rivolti verso il cielo. Secondo dei cliché ormai standardizzati, dopo una partita del genere una normale star NBA porta compagni e amici a festeggiare nei migliori locali della città fino a tarda ora.
Volete sapere dove passò la serata Roy?
A casa, a mangiare riso e involtini primavera preparati dalla moglie Tiana. Dopo la cena insieme con la famiglia guardò gli highlights della partita su ESPN e, in una serata straordinaria per la sua carriera, a mezzanotte e mezzo aveva già spento la luce della camera da letto.
Ecco, questo è il vero Brandon Roy, un ragazzo che viene definito da Kevin Pritchard ( gm dei Blazers ) come "l'essenza di un giocatore NBA, quello che le famiglie si aspettano da un campione di basket".
B-Roy, quando il successo è già nel nome. O no?
Come si è capito Brandon non ama il mondo platinato di party, compagnie e sontuose attenzioni che circondano la maggior parte dei suoi compagni, preferisce starsene per i fatti suoi con la famiglia e il giovane Brandon jr, che Tiana ha dato al mondo a Marzo 2007.
Oltre ad essere una persona molto particolare ha anche avuto una storia difficile, vissuta con grande determinazione e di straordinaria volontà d'animo. E Roy stesso ammette che lo disturba che le sue difficoltà di gioventù siano dimenticate solo perché ora è una star.
Di sicuro la sua gioventù rimarrà lontana dai copioni di Hollywood, perché è una storia come tantissime altre di suoi coetanei di Seattle. L'unica differenza con i suoi coetanei sta nel fatto che loro non avevano quel talento che gli permette di giocare alla grande con lo Spalding, anche quando i secondi che passano sul cronometro bruciano il cuore e la mente.
Seattle, patria di musicisti come Jimi Hendrix o Kurt Kobain, è sicuramente una bella città nella quale crescere, lontana certamente dai ghetti di Iverson o dalle pericolose spiagge di Marbury.
Brandon passava ore interminabili al playground con il fratello maggiore Ed, mentre il padre Tony guidava un autobus delle linee metropolitane passando 14 ore al giorno fuori di casa e la madre Gina lavorava al bar delle scuole elementari frequentate dai ragazzi. La famiglia Roy era dunque normalissima, e tuttora Brandon ammette che in gioventù non gli è mai stato fatto mancare nulla.
Le stimmate del campione si videro ben presto nella sua carriera, quando ancora giocava nel Team Yes, una squadretta di Seattle che partecipava alle AAU (Amateur Athletic Union, una delle più grandi organizzazioni sportive no profit d'America, tipo i nostri Giochi della Gioventù).
Il signor Tony Roy lavorava diverse ore extra per permettere ai 2 figlioli di giocare a basket e soprattutto a Brandon di andare in trasferta con la squadra, trasferte che erano viste dal ragazzo come un occasione per divertirsi e stare insieme, come un qualsiasi ragazzo normale.
E come un qualsiasi ragazzo normale capitò che durante una "road-games" pensò di più a svagarsi con gli amici che a giocare a basket. Visto ciò Lou Hobson, coach della squadra, lo prese da parte e gli disse:
"Lo sai che i tuoi genitori per farti venire hanno speso ben 100$?E lo sai che non hanno 100$ per farti venire qua e non fare nulla!".
Nella testa del giovane Roy scattò una molla, un meccanismo simile a un film di Rocky, un ingranaggio che fa rialzare la testa a Stallone dopo una sconfitta e lo conduce alla vittoria finale. Non aveva mai pensato davvero a quanti sacrifici facessero i suoi genitori, e da allora considerò il basket da un'altra prospettiva:
Da quel momento, ogni volta che giocavo in trasferta avrei dovuto dare il massimo per i miei genitori. Non ci avevo mai pensato prima, pensavo solo a divertirmi con gli altri ragazzi. Da quando Hobson mi parlò, mi rese determinato
Detto.
Fatto.
Da allora iniziò ad essere inserito nelle migliori formazioni del torneo, e vinse il premio finale di MVP. Le furiose ore passate ad allenarsi per cercare di assomigliare al suo idolo MJ lo lanciarono sulla cresta dell'onda anche nei suoi anni alla Garfield High School, dove faceva regolarmente sfracelli con i locali Bulldogs.
Durante il suo terzo e quarto anno vinse il premio di MVP della KingCo Conference, attirando ovviamente su di se gli occhi di molti reclutatori dei più prestigiosi college nazionali.
Facile per ogni osservatore andare a vedere un ragazzo che nel suo anno senior metteva insieme 22,3 punti e 10,4 rimbalzi a partita.
Divenne velocemente uno dei 50 prospetti più "desiderabili" d'America e presumibilmente il miglior giocatore dello Stato di Washington. Quando ogni mattina in padre usciva da casa per andare al lavoro puntualmente trovava delle lettere con proposte da parte di prestigiosissime università che sbavavano per avere il ragazzo. I mittenti delle buste erano college del livello di Cincinnati, Kansas, Arizona, Washington, Gonzaga o Oregon.
Sorprese tutti e decise di entrare direttamente nel Draft 2002, salvo poi ripensarci e togliere il suo nome dalla lista per andare a giocare con University of Washington. Scelse UoW soprattutto per la vicinanza a casa, e perché comunque riteneva importante l'istruzione.
Mai come nel caso di Roy la vita si è però dimostrata una perfetta scatola di cioccolatini.
SAT. Un avversario immarcabile
Brandon non era l'unico maschio della famiglia Roy ad avere ottime prospettive nello sport. Il fratello maggiore Ed, dopo un solo anno di football all'high school, fu incluso tra i 100 migliori prospetti della nazione. Non riuscì però ad entrare in nessun college, fermandosi sempre al test di ammissione, detto SAT.
Ed Roy fu quindi costretto ad andare in un junior college, ma dopo soli 2 anni lasciò stare con il football e lo sport.
Dei medici però lo visitarono e scoprirono in lui una learning disability (difficoltà di apprendimento) non comune. A causa di questa disabilità esempio la sua velocità di comprensione era 4 o 5 volte più lenta della norma: se una persona normale ha bisogno di leggere una volta una domanda per comprenderla, lui per capire aveva bisogno di rileggere diverse volte.
Il dramma fu che lo stesso handicap fu riscontrato anche a Brandon, il che rendeva il SAT un ostacolo davvero arduo: spesso finiva il tempo dell'esame e a causa di una scarsa comprensione delle domande parte dell'esame era incompleta. Di che esame si parla?
Il SAT è un test standardizzato per l'ammissione al college, che si divide in 3 settori: matematica, comprensione e scrittura. Ogni sezione ha un punteggio ed è suddivisa in 3 parti, e il tutto va svolto in circa 4 ore.
Nonostante la difficoltà "strutturale" però Brandon non volle arrendersi, decise di provare il test. Purtroppo si scontrò contro delle difficoltà più grandi di lui, furono ben 4 le volte nelle quali il suo punteggio non fu ritenuto sufficiente, tra Gennaio e Novembre 2002. Gli rimaneva soltanto una possibilità , il 7 Dicembre di quell'anno: fallito anche questo test sarebbe stato costretto a prendere la via del Junior College e abbandonare i sogni di NBA.
Come se già non fosse abbastanza difficile, durante la preparazione di questo test non poteva permettersi di non lavorare, essendo come detto non di famiglia abbiente. Si svegliava, infatti, all'alba ogni mattina per presentarsi alle 7 al porto di Seattle a lavare i container da carico vuoti. Un lavoraccio, reso ancora peggiore dall'infernale odore dei container vuoti e dal fatto di lavorare all'aperto, in una città si di mare ma dal clima diverso da Miami.
11 maledetti $ l'ora per tornare a casa puzzolente come non mai, e mettersi d'impegno a studiare per passare un maledetto test di ammissione, nonostante delle gravi difficoltà di apprendimento.
Di sicuro dal suo idolo MJ ha preso una spaventosa forza di volontà , una voglia di non mollare e di non arrendersi mai non comuni. Anche i suoi compagni di lavoro al porto lo vedevano molto determinato, Brandon ricorda come gli dicessero:
"Ragazzo, tu andrai al college e sfrutterai al massimo la tua opportunità " oppure "Vedrai che non farai questo lavoro tutta la vita".
C'era fiducia intorno a lui, e il 13 Gennaio 2003 uscirono i risultati dei test di ammissione, l'ultima possibilità per dimostrare che quella sicurezza nelle sue possibilità era ben riposta.
Brandon in quella fredda giornata di gennaio attendeva nervoso in una stanza di University of Washington che l'allenatore di basket della squadra gli dicesse cosa avrebbe potuto fare della sua vita.
Tutte le possibilità gli scorrevano davanti, compresa quella di abbandonare il basket, e i secondi non passavano mai, finché coach Lorenzo Romar non lo chiamò verso il suo ufficio. I passi lenti di Brandon rendevano il percorso infinito, e mentre i battiti del cuore aumentavano sempre più, incontrò il coach con i risultati del suo test SAT in mano.
Roy non riuscì a dire nulla, solo a guardarsi intorno. Il silenzio fu rotto da Romar, che disse: "Sto pensando se riusciremo ad ottenere per te un'uniforme entro stasera".
Questo voleva solo poter dire che ce l'aveva fatta. Abbracciò il coach sfogando nella sua mente tutta la tensione accumulata, pensando a tutti i sacrifici fatti per entrare nel college, a tutte le ore passate con un assistente per lo studio e a quella maledetta puzza che non andava mai via dopo il lavoro al porto"
Brandon Roy spiega il significato di determinazione
E il sogno continua"
Brandon entrava così a far parte di University of Washington, uno dei college più frequentati che ha però come principale passione sportiva il football. Gli Huskies del canestro non erano molto quotati all'inizio della stagione 2002-2003 ma coach Romar riuscì a creare un buon gruppo con, oltre a Roy, futuri NBA players come Nate Robinson e Tre Simmons e Martell Webster.
Le chiavi della squadra le aveva Brandon, che rifletteva in campo il suo modo di essere nella vita di tutti i giorni: giocava in maniera estremamente produttiva, ma molto poco spettacolare, mettendo a segno punti rimbalzi e assist, cercando anche di coinvolgere tutti i compagni.
Anche coach Romar ricorda che "Bisognava guardarlo. Sembra che a lui venga tutto facile, senza il minimo sforzo".
Strepitoso fu il suo anno sophomore, nel quale fu il miglior rimbalzista della squadra (a dimostrazione della sua poliedricità ) e secondo scorer, assist-man e ruba palloni. Inoltre guidò da capo in testa la squadra fino alle Sweet 16 NCAA dopo diversi anni bui in casa Huskies a livello di risultati.
Quasi a farlo apposta la sfortuna si è ricordata di Brandon, e tutto il suo anno junior, il terzo, fu speso per recuperare da uno strappo al menisco del ginocchio sinistro.
La guarigione fu dura e molto lunga, e una volta recuperato dall'infortunio fu tentato di entrare nel Draft 2005, dove sarebbe di sicuro stato scelto. Al massimo però avrebbe potuto aspirare ad una scelta durante il secondo giro, non come i suoi ex compagni Webster e Robinson, scelti al primo giro rispettivamente da Portland e New York.
Ancora una volta uscì dalle scelte senza nemmeno parteciparvi, perché secondo lui:
Al termine del mio terzo anno ho sentito che ero pronto per portare il mio gioco in NBA, ma avevo ancora qualcosa da dimostrare
Decise dunque di continuare a giocare per coach Romar, che all'inizio dell'anno accademico ritrovò un Roy nella migliore forma della carriera, dopo un'estate di durissimo workout.
Brandon era tanto sicuro dei suoi mezzi che fece dire a Romar durante il media day della Pac-10: "La gente non capisce quanto sia forte Brandon Roy".
Se qualche giornalista alla conferenza scosse la testa dovette ricredersi subito: 35 furono i punti segnati nell'Opening Game contro Arizona State, prestazione ripetuta solo due partite dopo.
La comunità di Seattle si era ormai accorta di avere una vera star, tant'è che al termine della stagione Brandon era nella Top Ten della Pac-10 in TREDICI categorie statistiche.
Romar aveva ragione, e vide la sua stella premiata con il trofeo di miglior giocatore della Conference e il nome di Roy campeggiare nel primo quintetto All-America.
Condusse inoltre la squadra alle seconde Sweet 16 consecutive, con un record di 26 W e 7 L, assolutamente notevole per una squadra come quegli Huskies.
Clamorosa stoppata su Jordan Farmar di UCLA
Questi i ricordi di Brandon di quella bellissima cavalcata:
Alla fine del quarto anno sentì come se tutto fosse completo. Sono stato All-America, Pac-10 Player of the Year, ho dato un sacco di risposte sulla mia capacità di guidare una squadra. Penso ora di essere davvero pronto per diventare un professionista
Dalla terra dei 10.000 laghi all'Oregon in pochi minuti. E senza volare
La terza volta fu quella buona, e la sera del draft del 2006 tenutosi al Madison Square Garden, Brandon era presente con la famiglia in attesa di sapere quale sarebbe stato il suo destino sportivo. Dovette aspettare 4 nomi dopo Andrea per sentire chiamato il suo.
Lo scelsero i Minnesota T'Wolves, in lento ma costante declino dopo i fasti d'inizio millennio, ma è sicuro che a Brandon sarebbe andata bene una qualsiasi delle 30 franchigie. Per una volta però la fortuna non gli ha voltato le spalle, e pochi minuti dopo la scelta Kevin McHale stava già confabulando con Kevin Pritchard (sono i gm di Minnesota e Portland) e i due decisero di scambiarsi le scelte.
Brandon volava quindi nel suo profondo Nord Ovest a vestire la maglia dei Blazers, mentre Randy Foye, la scelta dei Blazers, andava a prendersi cura del playmaking a Minneapolis.
Questi i ricordi del draft di Roy:
La notte del Draft fu incredibile, ero molto agitato - ma credo di averlo nascosto bene. Continuavo a ripetermi: Brandon hai fatto tutto quello che potevi a questo punto, non puoi avere rimpianti
I Trail Blazers dal draft 2006 hanno iniziato a liberarsi dei galeotti che popolavano lo spogliatoio, ricostruendo la squadra su ragazzi molto giovani che renderanno quella dell'Oregon una squadra davvero interessante nei prossimi anni. Oltre a Roy, infatti, nello stesso Draft ottennero anche LaMarcus Aldridge, dopo averlo scambiato con Chicago per Tyrus Thomas.
Brandon ama ricordare come sin da subito a Portland gli fecero capire di contare molto su di lui, ma che comunque avrebbe avuto tempo e modo di sbagliare che di imparare, giocando in una squadra il cui giocatore più anziano arriva a 30 anni.
Nel 2005-2006 Portland chiuse con un record pari a 21-61, nessuno avrebbe mai urlato in faccia a Brandon, o a Webster, o ad Aldridge, se avessero sbagliato l'ultimo tiro.
Sin da subito le aspettative del mondo NBA su Roy furono molte, infatti, dopo una positiva Summer League molti analist decisero di puntare la loro moneta su Brandon per il vincitore del premio di rookie dell'anno, leggendo come in una squadra come Portland Roy avesse tutte le possibilità per fare molto bene.
Via si parte! Tutti a" Seattle
1 Novembre 2006. Per uno strano scherzo del destino, la prima partita di Brandon nell'NBA si disputò nella sua Seattle, come se già non bastasse l'emozione dell'esordio. Chissà quante volte quella sera Roy si è girato a controllare la terza fila della Key Arena, imbottita di familiari, amici e compagni di college.
Coach McMillan fece partire Roy in quintetto come guardia titolare, quasi sfidando le sue emozioni. E non se ne pentì. Brandon tirò fuori una grande prestazione, guidando l'attacco dei suoi e chiudendo con 10 su 16 al tiro e 20 punti. Portland vinse 110 a 106, ma tutti i 17.072 spettatori di Seattle si sentirono un po' orgogliosi di vedere in un loro concittadino quella stoffa e quella classe.
La sera dopo ne mise altri 19 a Oakland, iniziando a destare le prime sensazioni nel mondo NBA. Peccato che dei problemi al tallone sinistro lo costrinsero a saltare 20 partite proprio all'inizio della stagione. Appena tornato si premurò di ricordare a tutti di che pasta sia fatto mettendo a referto la prima doppia doppia della carriera: 16 punti e 10 rimbalzi conditi da 8 assist in una bruciante sconfitta con Toronto 101 a 100.
Alla fine di gennaio, in conseguenza di prestazioni solidissime, arrivò anche la convocazione all'All Star Game di Las Vegas nel match del venerdì, primo Blazers dopo 7 anni ad essere invitato al weekend delle stelle. Gli elogi per questa guardia dal talento non comune arrivavano sia dai premi di giocatore del mese che anche da autorevoli campioni, ad esempio Carmelo Anthony: "Mi piace Brandon Roy. Mi piace il suo modo di giocare sempre calmo e in controllo. Di sicuro non sembra un rookie in questa lega. È andato a Portland per essere The One".
Brandon chiuse la stagione col botto, 29 punti in faccia a Utah, andando per la 16esima volta oltre i 20 punti.
Nelle 57 partite giocate ben 55 furono le partenze in quintetto, e alla fine del primo anno era già diventato il clutch-player della McMillan band, dando ragione a chi come Anthony si stupisce della sua maturità .
Forse principalmente per questo, oppure per i 16,8 punti e 4 assist a partita, Roy è diventato R.O.Y. 2006/2007 con 127 voti su 128 disponibili.
Quasi a conferma della bontà della scelta del vincitore giova ricordare come abbia vinto l'ambito premio giocando solo 57 partite, e che solo Pat Ewing fu nominato rookie dell'anno con meno presenze a referto nel 1986.
Dovette però accontentarsi di guardare i playoff alla tv insieme ai compagni, il record di 32 W e 50 L non era sufficiente per l'ottava moneta nel selvaggio west, ma la dirigenza dei Blazers era contenta lo stesso per aver trovato un campione.
Piccola Top-10 della stagione di Roy
La ricostruzione continua in grande
A volte il destino sa davvero essere beffardo. Quando l'urna ha sparato fuori le palline per scegliere Oden e Durant, o Durant e Oden tutti si aspettavano squadre come Memphis, Boston e Milwaukee, dotate di grandi possibilità di scelta data una stagione precedente disastrosa. La prima scelta andò invece a Portland, che aveva solo il 5% di possibilità di vincere la lotteria, dando a McHale la possibilità di scegliere un presunto campione per l'immediato futuro.
La coerenza è di casa al Rose Garden, e dopo aver scelto Greg Oden, si pensò subito a sfoltire la rosa. Questo sia per motivi "penali" dando Zach Randolph ai Knicks che per motivi d'età , lasciando partire i 30enni Udoka, Dixon e Magloire.
Il nonno della squadra è dunque Raef LaFrentz, scalda panchine da 11 milioni di $ l'anno, che vede andare in campo una mandria di 20enni affamati e di indubbio talento. Il pifferaio magico dei suddetti ragazzi è sempre Brandon Roy, quest'anno più che mai leader indiscusso della squadra.
Com'è ormai noto il gigante da Ohio State si è però infortunato al ginocchio in pre-season e dovrà saltare tutta la stagione 2007-2008, rendendo ancora più arduo puntare i playoff per i ragazzi dell'Oregon.
Playoff? Bella cazzata!
Questo è quello che pensavano tutti, quando il 2 dicembre i giovani Blazers furono sculacciati dai professori Spurs, portando il loro record a 5 W e 12 L. Le giustificazioni erano già pronte, squadra giovane, manca Oden, l'ovest è molto difficile e via di questo passo. La squadra ebbe invece una clamorosa reazione d'orgoglio, che portò i Blazers a vincere 18 delle successive 20 partite.
Discreta schiacciata in faccia ai 206 cm di David West
E non è difficile immaginare chi abbia guidato i compagni: ancora Brandon Roy, capo in testa nelle statistiche più preziose, come la valutazione, gli assist, i punti, il tutto con delle buone percentuali e senza forzare mai molto.
Ora Portland non è più la squadra invincibile vista tra dicembre e gennaio, i risultati sono altalenanti, ma il record è sempre oltre il 50% e di sicuro si sono viste delle ottime cose in prospettiva.
Prospettiva della quale non fa più parte Brandon, che è addirittura riuscito ad ottenere la chiamata all'All Star Game, giocando sia nella partita del venerdì sia soprattutto in quella della domenica, finendo come miglior marcatore dello sconfitto Ovest con 18 punti.
Ormai Brandon Roy è un leader riconosciuto, rispettato e ammirato. È anche sponsorizzato dalla Nike, e il suo sorriso campeggia sui giganteschi billboards americani, mentre il suo modo di giocare è apprezzato da tutti. Ma non ci si dimentichi mai da dove parte questa storia. Da un ragazzo semplice. Che semplice è rimasto nonostante il successo piovutogli addosso negli ultimi 2 anni.
Vale per sempre l'esempio delle automobili. Quando ha scelto le macchine da prendere, una Cadillac Escalade e una Dodge Charger, rispettivamente da 70 e 30mila $ l'una, il concessionario si è stupito di avere di fronte un ragazzo pieno di soldi che si accontenta di prendere 2 "schifezze" rispetto ai mostri dei suoi compagni.
Chissà allora il carrozziere, quando ha saputo che Brandon si è premunito subito di cambiare il colore rosso fiammeggiante della carrozzeria.
"Troppo appariscente" la motivazione.