Lebron James può passare o tirare con la stessa efficacia…
Mai come quest'anno le migliori stelle dell'Nba ci hanno posto di fronte all'eterno dilemma che affligge (si fa per dire…) i più forti: qual è la prima opzione di una All-star, realizzare o fare un assist?
Il dilemma è diventato più angoscioso di fronte alla esplosione di un fenomeno nuovo – diremmo un alieno, se non fosse già stato affibbiato questo soprannome ad uno come MJ – come Lebron James.
La prima cosa che ci crea un'angoscia è doverlo classificare: che ruolo lo può definire?
Non è certamente un play, ma smazza più assist di molti playmaker; non è una shooting guard, e anzi il suo tiro da fuori è forse l'unica cosa un po' meno affidabile delle altre, ma soprattutto non può essere definito una guardia un camion in corsa che ti investe con la sua potenza schiacciandoti in faccia.
Anche definirlo un'ala piccola è riduttivo, se si pensa a tutti gli assist che distribuisce e al modo in cui crea gioco, più simile a quello di una guardia, che imposta a partire dalla posizione 2 sul campo: e tutti i rimbalzi che prende?
La verità è che questo giocatore può essere contenuto, ma non fermato, soprattutto se dispone di sparring partners anche solo dignitosi nella esecuzione dei rispettivi compiti. Se non che, da quando questo marziano è atterrato sul pianeta nba, gente come Kobe Bryant o Tracy McGrady decidono che è ora di far vedere che loro la passano anche meglio di lui, pur essendo stati per anni delle star votate al bombardamento continuato del canestro avversario.
In particolare, mi stupisce l'evoluzione di Bryant.
Questo ha compreso che può fare, il più delle volte, anche 20 punti in un quarto di gioco, e una volta lo ha fatto davvero in tutti e quattro i quarti, ma ha deciso di votarsi alla causa del gioco di squadra.
La prima cosa che mi chiedo è se si sia convinto da solo o l'abbia convinto il suo coach, notoriamente in grado di pungolare l'ego smisurato delle sue star come nessuno. La risposta, secondo me, sta a metà . Jackson l'ha stimolato, ma lui ha deciso che avrebbe dimostrato a tutti che è un giocatore capace di distribuire diversi assist, possibilmente spettacolari, possibilmente tali da lasciare, come tutto di lui, gli astanti a bocca aperta.
Questo agonista sfrenato, che non ha mai considerato nessuno alla sua altezza, nè perdonato in campo chi gli facesse una stoppata o un fallo senza stampargli una schiacciata in faccia l'azione successiva, che aveva stipulato un armistizio della leadership solo con Shaquille O'Neal ai tempi del threepeat, ha deciso che è ora di essere acclamato definitivamente un vincente, a prescindere di chi gli stia a fianco – dunque anche senza lo Shaq dei tempi belli – e forse anche di chi stia in panchina, se solo sceglie di coinvolgere i compagni.
Figuratevi la sua felicità nel trovarsi uno come Gasol, che non ama il ruolo della prima donna, ma è uno splendido comprimario. Kobe non passa la palla perchè ama i compagni, ma perchè ama se stesso, profondamente e come nessun altro.
Le scenette in cui si mostra incoraggiante verso i compagni non sono che manfrine di un copione che lui ha già scritto e che prevede che nel quarto quarto di gioco, se il punteggio è equilibrato, lui si metta in proprio e chiuda i i conti da solo contro cinque avversari.
Ecco: questo è il solo limite di questo sublime interprete del gioco offensivo: il più delle volte, decide prima ciò che farà l'azione successiva; l'ultimo tiro, quello più difficile, lo farà sempre e soltanto lui.
Ma c'è una cosa che il nuovo alieno della nba sta imponendo come la vera e sola regola del dilemma iniziale: la lettura del gioco. In ciò, sempre più simile all'altro alieno, MJ (oltre che per il numero 23), Lebron James, pur con la sua tenera età , sta soppiantando i criteri adottati da Kobe, che pure ha scelto di essere un numero in più del predecessore (il 24).
Rivedendo le partite giocate da Jordan, si può verificare che, nei rari casi in cui non era in giornata felicissima al tiro o era costantemente raddoppiato in difesa, si metteva a passare la palla in modo sublime, pur senza smettere di attaccare e di concentrare le difese su di sè, scaricando palloni al bacio ai compagni.
Tutti ci ricordiamo di assist vincenti a Kerr, a Paxon, a Longley e ad altri centri che mai si sarebbero sognati di segnare il tiro decisivo in partite di finale. Questa imprevedibilità e questa sua capacità di lettura lo hanno portato alla leggenda.
Oggi, un McGrady ben guidato da coach Adelmann (allenatore d'attacco come pochi), ci ripropone questi modelli, così come un Lebron James lasciato libero di creare e – perchè no? – di fidarsi dei compagni. Anche un coach difensivo come Popovich, propugnatore del gioco ordinato e disciplinato anche in attacco, ha compreso che le “follie” di un Ginobili, a volte, scardinano le difese organizzate come la sua e vincono le partite.
Saltare un passaggio, effettuare “pericolosi” penetra e scarica, alternare il tiro da fuori alle penetrazioni nel traffico, sono le scelte dell'attaccante che non vuole dare punti fermi al suo diretto avversario in difesa. Così, osservando giocatori che prediligono il passaggio smarcante al tiro, come Nash e Jason Kidd, scopriamo che il miglior Nash, quello del primo MVP a mio parere, segnava tantissimo senza perciò dare meno assist (se non per qualche decimo di media), risultando molto più pericoloso.
Così pure per il miglior Kidd, quello che portò due volte i Nets in finale, il fatto che fosse anche pericoloso al tiro ed in entrata lo rendeva assai più temibile, tanto è vero che oggi Avery Johnson gli chiede di tornare a quei livelli, anche se in meno minuti di gioco, perchè non vuole falle in un attacco sulla carta molto forte.
Bene: per concludere, questo difficile equilibrio tra passaggio e realizzazione, quest'ultima ulteriormente divisa in tiro da fuori o entrate a canestro, è la fase di trance che i più forti realizzatori (specialmente guardie) attraversano solo nel loro momento migliore in carriera. Poi, naturalmente, ci sono gli alieni…