Chris Mullin, da giocatore e da General Manager, ha sempre saputo prendersi dei rischi…
Il termine "gambler", a volte, nei suoi significati e nelle sue accezioni più negative, è utilizzato come sinonimo di "baro, truffatore", colui cioè che, nel gioco d'azzardo, ricorre facilmente ad espedienti tutt' altro che leciti per vincere e guadagnare denaro.
Tuttavia, nel suo significato meno esasperato e quotidiano indica invece il semplice "scommettitore", il giocatore d'azzardo che vuole continuamente rischiare e che gioca sul filo del raso. È un atteggiamento, questo, ambiguo, ricco di sfaccettature, in cui si fondono stati d'animo e psicologici diversi e che probabilmente va spiegato in rapporto ai contesti e alle persone che ne sono caratterizzate.
In generale, comunque, sono due le motivazioni psicologiche a cui si può ricondurre la mentalità dello scommettitore: da un lato quell' accattivante e irresistibile fascino che il rischio e il pericolo esercitano sulle persone, e che porta l' uomo stesso a non accontentarsi della vittoria, ma a ricercare il brivido, la suspense, perché solo queste, a volte, sembrano essere la condizione necessaria per sentirsi vivi: è la metà oscura dell' uomo che viene a galla, quella parte dell' individuo che sacrifica la razionalità in nome dell' istinto e delle emozioni.
Dall' altro lato però, il gusto per l' azzardo può nascere anche, paradossalmente, da una lucida follia: la consapevolezza cioè, che solo andando al di là delle regole e della normalità , si può ottenere quel qualcosa in più che fa davvero la differenza.
Spesso infatti, per stupire o per dare concretamente la scossa ad un ambiente perdente e senza prospettive di riscatto immediato o in tempi brevi, è necessario un gesto forte, radicale e che vada al di là delle regole: andare al di là delle regole significa, per definizione, rischiare, scommettere.
E Golden State, nel 2004 (anno in cui Mullin fu assunto come general manager) aveva bisogno di una scossa, di uno stravolgimento radicale per riscattare non solo un decennio di delusioni e di sconfitte, ma soprattutto quella diffusa sensazione di mediocrità causata non solo dai pessimi risultati, ma da quella sinistra abitudine alle sconfitte che ormai si era impossessata della franchigia. Una volta licenziato Garry St-Jean, la dirigenza giocò quindi la "carta Mullin", affidando a lui il compito di far rinascere quella squadra ormai zimbello dell' intera Lega, nel tentativo di ridarle non solo un volto tecnico ma soprattutto un' immagine credibile e competitiva.
La scelta di Chris Mullin come "executive", si spiega in rapporto a molteplici fattori: tecnici, storici, forse anche umani. Tecnicamente, Mullin, da due anni lavorava all' interno dell' organizzazione come "special assistant" dell' allenatore (Eric Musselman) e, di conseguenza, conosceva già la situazione che avrebbe dovuto gestire in campo e in spogliatoio. Storicamente, poi, i motivi di questa scelta sono ancora più evidenti: Mullin è stato uno dei giocatori più gloriosi della franchigia (è tra i primi quattro nelle classifiche "all-times" dei Warriors per partite giocate, punti segnati, percentuale ai liberi e da 3p), ne è stato indiscutibilmente il giocatore più rappresentativo dal 1985 al 1997 (quando poi fu ceduto ai Pacers), e in generale, durante la sua permanenza ai Warriors, è stato una delle macchine da canestro più inquietanti dell' intera Lega.
Un giorno Dio disse: "Bene, oggi voglio creare un giocatore di pallacanestro"; e creò Chris Mullin"
Fu Earvin "Magic" Johnson, con queste parole, tanto impegnative, quanto cariche di solennità , a descrivere alla stampa il fuoriclasse dei Warriors, appena selezionato nel Dream Team per Barcellona '92, ancora oggi considerato il più grande agglomerato di talento che si sia mai visto nella storia dello sport di squadra. Se il successo di individuo si valuta nella misura in cui viene stimato e apprezzato in primis dai suoi stessi rivali, è chiaro allora che le parole di Magic costituiscano una consacrazione tanto assoluta da rendere superfluo qualsiasi filmato o contributo statistico. Raramente infatti si è visto un giocatore che, a dispetto di mezzi fisici e atletici non eccezionali, sapeva segnare con irritante continuità da qualsiasi posizione e distanza, grazie ad un tiro da fuori assolutamente perfetto sia come stile che come efficacia (50.9% dal campo e 38.4% da 3p in carriera). Il suo tiro in sospensione era uno dei gesti tecnici più mortiferi e puri che si potessero ammirare su un parquet, ma era anche l' intelligenza cestistica a rendere Mullin uno dei migliori realizzatori della sua epoca: l' intelligenza con cui giocava senza palla, con cui rubava il tempo al difensore per batterlo in penetrazione o con il suo pennello mancino, quell' intelligenza con cui leggeva in anticipo le giocate offensive altrui e che gli permetteva di essere un ottimo ladro di palloni, pur non essendo noto complessivamente per le sue doti di difensore.
Mullin, quindi, agli occhi della dirigenza, rappresentava quel basket spettacolare e offensivo che da troppo tempo non si respirava più ad Oakland, quel basket di cui lui stesso era stato uno dei protagonisti più importanti ai tempi di Don Nelson e soprattutto della Run TMC (Tim Hardaway, Mitch Richmond e appunto, Chris Mullin), ovvero uno dei terzetti offensivi più prolifici e entusiasmanti di tutti i tempi. In questo senso, all' ex 17 gialloblu, spettava il compito di rianimare una squadra impantanata nella più anonima mediocrità , provando magari a ridarle quella freschezza offensiva che il Mullin stesso aveva respirato e fatto respirare al pubblico di Oakland a cavallo del '90.
Non è da escludere, inoltre, che la dirigenza abbia valutato, non solo la carriera e l' immagine simbolo di Mullin all' interno della franchigia, ma il suo stesso spessore umano, ovvero quel bagaglio di esperienze personali che potevano rappresentare un ulteriore valore aggiunto alla sua dimensione di dirigente. Uno spessore e una profondità umana contraddistinta soprattutto da un profondo senso dell' orgoglio, da una grande forza interiore e da una incomparabile etica del lavoro, perché solo chi possiede queste doti riesce a trovare dentro di sé quelle risorse indispensabili per affrontare e superare qualsiasi tipo di problema.
La vita di Chris Mullin, infatti, in più circostanze, sembra contraddistinta da un filo rosso continuo, in cui il rosso è più che mai sinonimo di difficoltà da affrontare, e da cui il Mullin ne è sempre uscito doppiamente vincitore: vincitore per aver risolto le difficoltà del momento, ma vincitore anche e soprattutto per aver avuto l' onestà e la maturità di riconoscere i propri errori e sapervi porre rimedio.
Una su tutte è stata la sfida con la vita che Mullin ha dovuto affrontare: la sfida, cioè, con l' alcolismo che egli dovette affrontare durante l' estate precedente (1987) alla sua terza stagione da PRO. Vari furono i motivi che causarono la sua dipendenza dall' alcool: innanzitutto il senso di disorientamento che il giocatore provò nel passaggio dall' ambiente universitario di St. John's alla vita di San Francisco. San Francisco ha un fascino cui difficilmente si sa resistere, ma proprio per questo può essere anche pericolosa: è il simbolo della libertà , della varietà a qualsiasi livello (culturale e sessuale), della disinibizione, sembra "non essere in grado di dire di no a nessuno".
Proprio per questo "Frisco" appare come la dimensione ideale in cui qualsiasi individuo può esprimere liberamente sé stesso, ma, dall' altro lato, questa sua mancanza di limiti che annulla qualsiasi criterio di riferimento, rischia anche di causare forti traumi in quelle persone che provengono da ambienti più convenzionali: Mullin purtroppo visse questa situazione nei suoi sviluppi più negativi.
I problemi di ambientamento, però, non riguardavano solo il suo rapporto con la comunità ma pure quelli con la squadra: i Warriors avevano accumulato record perdenti in sei degli ultimi sette anni, ed erano reduci da una stagione (84/85) da 22 sole vittorie. Alle sconfitte poi, si univa una situazione di spogliatoio interna caratterizzata dall' egoismo e dalla mediocrità mentale dei singoli giocatori che si accontentavano di sopravvivere nella Lega invece di sacrificarsi per emergere.
Un contesto come questo, per definizione, non poteva recepire l' infaticabile etica lavorativa del Mullin, ne tanto meno poteva essere disposto a sacrificare spazio e riflettori ai veterani per concederlo ad un giocatore molto giovane: Mullin quindi approfondì il senso di depressione e di disorientamento che già lo stava travolgendo, tanto da maturare addirittura la sinistra sensazione che alcuni suoi compagni di squadra fossero reticenti nel passargli la palla ("Era una famiglia disfunzionale").
Nell' alcoolismo trovò sfogo, perciò, questo personale senso di frustrazione che Mullin, inizialmente, affrontò con la superficialità e la falsa arroganza tipica di chi non vuole riconoscere i propri problemi :
In certe sere mi sentivo così frustrato che mi incollavo alla bottiglia per dimenticare; lo facevo anche perché mi sentivo invincibile ed ero convinto che in qualsiasi momento sarei stato in grado di smettere
In realtà , alla lunga, il problema si rivelò molto più serio e radicato di quanto pensasse il giocatore, e per risolverlo furono fondamentali due ingredienti: il contributo psicologico di Don Nelson che spinse il giocatore a curarsi in un centro specializzato ma in primo luogo ovviamente, la forza interiore di Mullin.
Situazioni come queste sono logicamente drammatiche, difficili anche perché inevitabilmente si arriva sempre ad un punto di non-ritorno in cui si deve scegliere tra il lasciarsi andare rinunciando a tutto, o raccogliere tutte le proprie risorse interiori per riemergere più forti e consapevoli di prima: è in questi momenti che emergono qualità come la capacità di reagire, di sacrificare e di compiere un gesto forte ma necessario per vincere la scommessa con sé stessi.
Come il giocatore sia uscito, in seguito, da questa crisi personale è immortalato ampiamente negli archivi statistici e dalla sua candidatura alla Hall of Fame avvenuta nei giorni scorsi.
È probabile che anche questo repertorio di esperienze e di doti umane abbia avuto un ruolo, se non fondamentale, almeno rilevante nel momento in cui i Warriors decisero di affidare a lui il compito di far risorgere la franchigia e ridarle un' immagine dignitosa: serviva infatti un manager che fosse competente sul piano tecnico, ma che sapesse essere anche un leader con una valida etica lavorativa e con un grande senso della sfida, tutte doti fondamentali quando si tratta di dare una sterzata radicale ad una situazione disastrosa come quella che i Warriors vivevano ormai da un decennio. Piuttosto chiare a proposito le parole con cui Robert Rowell, presidente dei Warriors, descrisse Mullin alla stampa nel giorno della sua presentazione ufficiale:
Questo è certamente un giorno molto importante per l' organizzazione e i fans della squadra. Chris Mullin ha esibito la stessa etica lavorativa, lo stesso entusiasmo e la stessa determinazione che lo hanno reso uno dei più grandi giocatori di questa franchigia. Queste sono le caratteristiche che lo aiuteranno nel suo nuovo ruolo e con il quale lui risolleverà il team da questa situazione di stallo (22 Aprile, 2004)
Orgoglio, sacrificio, voglia di lottare: erano tutti valori che Mullin aveva dovuto sviluppare nel corso della sua vita e che divennero indispensabili per risollevare la squadra e per rimediare a quelle scelte sbagliate che lui stesso commise agli inizi della sua carriera di G.M.
La carriera dirigenziale di Mullin (Executive Vice President of Basketball operations) ha seguito sostanzialmente un percorso analogo a quello della sua vita privata e di giocatore: un inizio controverso, in cui già si intravvedono interessanti e solide qualità su cui costruire una importante carriera individuale, ma a cui si contrappongono, però, errori in serie dovuti all' inesperienza, a valutazioni errate o quantomeno affrettate, ma da cui lo stesso Mullin ha saputo riscattarsi da autentico vincente.
In particolare il suo primo anno e mezzo operativo (maggio 2004-Ottobre 2005) è stato quello in cui si sono concentrati i suoi principali errori nella valutazione dei giocatori e che sono diventati poi il punto di partenza imprescindibile da cui ripartire per ricostruire l' immagine sua e della franchigia.
La dirigenza dei Warriors, negli anni precedenti, non solo aveva costruito dei roster perdenti e poco credibili, ma peggio ancora, non era stata capace di impostare le basi per un progetto futuro: il tutto a causa di continue scelte fallimentari che avevano causato un turbinio di allenatori e di giocatori che ovviamente non poteva garantire la minima continuità tecnica.
Da ciò ne scaturivano formazioni perdenti, senza ambizioni, e giocatori che approdavano a Golden State controvoglia, chiudendosi nel proprio egoistico tentativo di migliorare le proprie statistiche in attesa di andarsene dalla Baia. L' obbiettivo di partenza del Mullin quindi fu da subito questo: individuare i potenziali pilastri di una futura rinascita e provare a ripulire lo spogliatoio dagli elementi disgreganti.
Nel suo primo anno da G.M., Mullin cercò di disegnare un progetto futuribile, concentrandosi di conseguenza sui giovani della squadra e sulla ricerca di un allenatore funzionale a questo disegno.
La prima mossa della sua gestione fu proprio quest' ultima: licenziare coach Eric Musselman, per firmare invece Mike Montgomery (Maggio 2004), uno degli allenatori più gloriosi e vincenti del College Basketball a Stanford, e famoso principalmente per essere un "insegnante di basket", quindi l' allenatore ideale per sviluppare giocatori e un sistema collettivo. Il passo successivo fu quello di mettere a disposizione del nuovo allenatore un materiale umano che lo mettesse in condizione di lavorare con tranquillità e con lo sguardo rivolto al futuro. Mullin quindi, da un lato, ripulì lo spogliatoio cedendo Nick Van Exel, celeberrima testa calda, che l'estate prima, fece ampiamente capire quanto fosse "contento" del suo trasferimento ai Warriors, presentandosi alla squadra e a Montgomery solo ad inizio training camp ("); dall' altro cominciò a estendere i contratti dei giocatori più importanti. Sulla Baia cominciarono così a piovere rinnovi contrattuali in serie piuttosto impegnativi per il salary cap della franchigia: a Luglio 2004 fu esteso il contratto di Foyle (6 anni per 51.2mln$) e venne firmato Derek Fisher (6 anni a 37mln$), due giocatori che secondo i piani avrebbero dovuto aiutare Montgomery ad adattarsi ai Pro.
In seguito, a Novembre vennero rinnovati invece gli accordi con Richardson (6 anni a 70mln$) e Murphy (6 anni a 58mln$), mentre un anno dopo (Novembre 2005), venne concessa l' estensione a Dunleavy (5 anni per 45mln$).
Il messaggio che Mullin voleva lanciare ai suoi giocatori, alla Lega e a tutti i futuri free-agent era inequivocabile: rompere i ponti con il decennio precedente e avviare un nuovo corso all' interno della franchigia contraddistinto dalla volontà di investire sui giovani a lungo termine, sborsando tutto il denaro necessario per trattenerli sulla Baia. Un progetto quindi ambizioso, fatto di programmazione, confermato per di più da due altre scelte che il Mullin fece in questo arco temporale e che misero in evidenza ulteriori aspetti della sua figura di dirigente: la scelta di Andris Biedrins nel draft del 2004 e lo scambio che nel Febbraio 2005 fece approdare sulla Baia Baron Davis. Considerando l' importanza che Biedrins e il Barone rivestono nei Warriors attuali, è chiaro che la loro scelta, considerata a posteriori, sia stata assolutamente vincente e indovinata, a conferma di alcune doti manageriali che in Mullin, nonostante tutto, erano già palesi: l' intuizione per i talenti futuri, dimostrata dalla scelta di Biedrins, oggi uno dei giovani centri emergenti della Lega, e la capacità di scommettere, di rischiare ("gambler" appunto) che lo portarono ad organizzare la trade per il Barone.
L'acquisto del Barone infatti era una scelta che comportava dei rischi piuttosto alti: il carattere difficile e altalenante del giocatore che non a caso era in rottura con la dirigenza degli Hornets (i quali tra l' altro avevano appena impostato una monumentale campagna abbonamenti puntando proprio sulle sue prestazioni), il contratto oneroso che inevitabilmente gli Warriors avrebbero dovuto sobbarcarsi, l' immagine di un giocatore che, fino a quel momento, era considerato un fuoriclasse, ma non esattamente un trascinatore o un leader. In realtà il Mullin decise di rischiare: sapeva infatti che una franchigia, per rinascere, ha bisogno di giovani, ma anche di fuoriclasse che con il loro talento infiammino il pubblico. Di più: la squadra aveva bisogno di una point-guard con punti e reattività per scatenare il gioco in velocità della squadra e per innescare le doti realizzative di esterni come Richardson e Dunleavy.
Il G.M. perciò rivide nella figura del Barone quello che Tim Hardaway era stato a suo tempo per la Run TMC: un play in grado di segnare e di creare. L' opportunità di acquistarlo era invitante, praticamente irrinunciabile e Mullin decise di rischiare perché spesso per dare una scossa da una situazione è necessario andare al di là delle righe, mettendo in gioco sé stessi e il proprio intuito. L'operazione fu condotta in maniera magistrale senza che negli ambienti della Lega trapelasse nulla: per il Barone si parlava di Clippers, persino di Lakers, ma alla fine se lo aggiudicarono i Warriors in cambio di Speedy Claxton e Dale Davis. Anche in questo caso l' estensione contrattuale fu immediata e in linea con la politica che Mullin aveva già chiaramente mostrato: 6 anni per 85 mln$.
Nel successivo draft del 2005, Mullin diede ancora prova del suo ottimo intuito con le scelte selezionando al secondo giro Monta Ellis, mentre l' ultimo passo di questo primo periodo di attività manageriale si concretizzò nell' estensione concessa a Mike Dunleavy nel Novembre 2005 (5 anni per 45mln$).
"Nonostante tutto", si diceva però: il primo anno e mezzo di lavoro per il Mullin infatti fu complessivamente negativo, in quanto ad alcune mosse che negli anni futuri si sarebbero rivelate decisamente vincenti (Davis, Biedrins, Ellis, anche la firma di Richardson), se ne contrapposero altre molto più discutibili.
Furono ovviamente i generosi contratti elargiti ad essere contestati: troppi, e troppo onerosi visto il valore dei giocatori.
Sicuramente vi era la volontà da parte di Mullin di dare un' immagine serie della dirigenza facendo di essa un posto appetibile dai futuri free-agent. Vi era inoltre il desiderio di mostrare attaccamento e una reale fiducia nei giovani della franchigia, in particolare in coloro che stavano facendo intravvedere miglioramenti incoraggianti come ad esempio Mike Dunleavy nelle cui doti di tiratore bianco, passatore e comprensione del gioco, Mullin non poté fare a meno di rivedersi: Mullin, insomma, sperava di aver costruito una squadra giovane e in grado di crescere anno dopo anno conservando i pezzi più importanti.
In realtà , la franchigia subì tutte le peggiori controindicazioni che questo disegno portava con sé. I Warriors, infatti, mostrarono a tratti un basket divertente, offensivo ma non riuscirono mai a svilupparsi come una squadra consistente, solida e soprattutto vincente. L' attacco era spesso squilibrato, la difesa troppo carente, Dunleavy e Murphy (per non parlare di Foyle) dimostrarono chiaramente quanto i loro contratti fossero esagerati, e Mike Montgomery rappresentò l' ennesimo caso di allenatore vincente nella NCAA ma incapace di gestire, soprattutto caratterialmente, uno spogliatoio NBA. La squadra alla lunga fu spaccata così anche dai dissidi intestini in cui il Barone criticava, a giorni alterni, o l'allenatore per il suo gioco controllato, o Dunleavy per la mancanza di attributi.
In breve Mullin si ritrovò nella peggiore situazione possibile: squadra perdente da tutti i punti di vista, e salary cap talmente saturo da non lasciare il minimo margine di manovra. E la responsabilità pesava quasi esclusivamente sulle sue spalle.
Al Mullin quindi si presentò, come già gli era successo nella vita, una situazione disastrosa, frutto dei suoi stessi errori di inesperienza e superficialità , da cui un individuo o affonda del tutto, o ne viene fuori alla grande e più forte di prima: e quello stesso orgoglio, quella capacità di maturare imparando dai propri errori e quel senso della sfida che gli aveva permesso di superare il dramma dell' alcool, furono le risorse a cui Mullin si aggrappò per riscattarsi anche nel lavoro.
Il primo passo perciò verso la "redenzione" fu quello di alleggerire il salary cap e trovare un allenatore più adatto tecnicamente e con più leadership nella gestione la squadra. La scelta dell' allenatore fu un mix di tecnica e romanticismo e presentava anche in questo caso non pochi rischi: Nelson infatti era reduce da un anno di inattività per gravi problemi fisici e nei suoi anni a New York e soprattutto Dallas aveva fatto sorgere non pochi dubbi sulla sua capacità di saper costruire squadre, non solo divertenti e spettacolari, ma soprattutto solide e vincenti fino in fondo.
Inoltre, il suo gioco basato sui continui isolamenti in 1c1, sulla ricerca esasperata dei miss-match e la scarsa fiducia che storicamente tendeva a riporre nei giocatori molto giovani, sollevavano ulteriori sospetti sulla possibilità di costruire con lui un sistema collettivo e futuribile. In realtà , in Mullin, prevalsero altre ragioni: Nelson era stato l' ultimo allenatore che aveva condotto la franchigia ai play-off, aveva leadership ed esperienza per gestire ed imporsi all' interno dello spogliatoio e la sua filosofia offensiva si sposava decisamente meglio con la volontà di Mullin di creare un basket spettacolare e che rinverdisse gli entusiasmi della Run TMC. Di più: il legame che univa Mullin e Nelson era tecnico, ma era principalmente umano. Quella stessa chance di riscatto che Nelson aveva concesso al Mullin affinché quest'ultimo potesse disintossicarsi dall' alcool, ora Mullin voleva restituirla al suo ex-allenatore per superare i problemi personali e le critiche di Dallas.
Fu una scelta difficile, per certi versi inaspettata, che alla lunga pagò dei dividendi notevoli: con Nelson, infatti, venne individuata una linea tecnica ben precisa in cui si sfruttarono più adeguatamente le caratteristiche degli uomini di punta (Davis e Richardson) all' interno della quale trovarono spazio persino i giovani prima poco utilizzati (Biedrins ma soprattutto Ellis). La "soluzione Nelson" si realizzò compiutamente però principalmente grazie al "patto" che vene a stringersi tra lui e Mullin: un patto basato sulla stima e fiducia reciproca, sui principi tecnici di Nelson che poi trovavano una pronta applicazione nelle strategie di mercato di Mullin.
Infatti, seguendo anche le precise indicazioni di Nelson, Mullin si ravvide dei suoi errori e, riuscì a ribaltare la situazione tecnica e salariale della squadra. Come prima nella vita, così anche nello sport, Nelson ha giocato per la seconda volta il ruolo di "guida" nei confronti del Mullin: da lui è scaturito quell' imput fondamentale da cui Mullin ha tratto le risorse essenziali per la sua personale rivincita.
Dopo aver ceduto il pesante contratto di Fisher che, contemporaneamente apriva minuti importanti per Ellis, fu soprattutto la trade del 17 Gennaio che confermò l' intesa tra Mullin e Nelson e quanto lo stesso Mullin fosse migliorato come G.M.: seguendo le critiche che l'allenatore aveva rivolto a Murphy e Dunleavy, Mullin spedì entrambi con i loro relativi contratti ad Indiana per Stephen Jackson e Al Harrington.
Anche questa operazione fu di fatto una scommessa: si acquisiva infatti un giocatore dal carattere turbolento e ribelle come Jackson continuamente alle prese con la giustizia sportiva e civile, e che rischiava di rendere lo spogliatoio dei Warriors (dove già c'era il Barone") potenzialmente esplosivo. Questo scambio, inoltre, rappresentava implicitamente un "mea culpa" da parte di Mullin che rinunciava così a due giocatori che lui stesso aveva firmato a cifre esagerate. Mullin, al contrario, intuì (con successo) altri aspetti della questione: innanzitutto l' acquisto di Al Harrington, vero obbiettivo della trade e già inseguito durante l' estate, che tatticamente, era molto più utile di Murphy. Inoltre, se Indiana di fatto voleva liberarsi di Jackson, Mullin capì che forse la competitività e l' esperienza del giocatore poteva aiutare la squadra a crescere caratterialmente; vi era infine la possibilità irrinunciabile di alleggerire in modo consistente il salary cap della franchigia.
Scommessa nuovamente vinta: i Warriors con un finale di stagione entusiasmante (16v-5p) raggiunsero i play-off dopo 13 anni di assenza. I Warriors si imposero come una delle squadre più spettacolari e trendy della Lega grazie ai soliti quintetti di Nelson imbottiti di esterni, grazie ad un Richardson ritrovato dopo un inizio di stagione difficile, e grazie a Jackson che, con Davis, rappresentò spesso il faro tecnico ma soprattutto spirituale della squadra; inoltre, le forze giovani della squadra (Ellis, Biedrins), che con Montgomery non avevano trovato spazio, con Nelson cominciarono ad emergere. Di colpo i Warriors erano diventati un team con una propria identità tecnica (per quanto estrema) che cominciava a sviluppare finalmente una mentalità più vincente fatta di entusiasmo, combattività e, spesso, anche di freddezza nei momenti decisivi grazie alla leadership riconosciuta di Davis e Jackson.
La presenza nel roster di elementi giovani come Biedrins, Ellis e di autentiche scoperte come Barnes e Azubuike prometteva ottimismo anche per il futuro. Tutti questi aspetti positivi si sintetizzarono in un primo turno di play-off addirittura storico con il successo sui Mavs, n.1 ad Ovest e tra i grandi favoriti per l' anello. Due furono le immagini simbolo di quello che è unanimemente considerato come uno dei più grandi upset di sempre nello sport americano: l' abbraccio alla fine di g6 tra Nelson e Davis a rappresentare quell' unità di gruppo ed intenti che da anni mancava all' interno della squadra, e lo sguardo carico di orgoglio con cui Mullin osservò il trionfo della squadra dalle luxury suites della Oracle Arena.
In quella circostanza, l' immagine del Mullin era la solita che lo ha sempre contraddistinto anche da giocatore: sobria, composta, addirittura neoclassica per il suo equilibrio, ma in cui si poteva comunque leggere nel profondo la soddisfazione per aver creato un team così elettrizzante ricostruendolo dalle ceneri dei propri errori. I limiti dimostrati nella serie di play-off successiva persa con i Jazz rappresentarono di fatto il punto di partenza per le operazioni di mercato che Mullin ha realizzato nell' ultima estate, probabilmente la più difficile per la necessità di soddisfare, da un lato, le esigenze tecniche del roster, e dall' altro il tentativo di alleggerire il salary cap in vista dei prossimi rinnovi contrattuali: nell' estate 2008 9 giocatori su 12 dei Warriors saranno free-agent e scadranno soprattutto i contratti di Davis, Ellis e Biedrins.
Considerando la situazione attuale, il G.M. è riuscito nella duplice operazione di mantenere complessivamente intatto il nucleo dei giocatori ed si è garantito per il prossimo anno ampi margini di manovra salariale. Questo obbiettivo è stato ottenuto miscelando senso del rischio e maturità acquisita sui propri sbagli.
E' innegabile che per organizzare una trade come quella che ha spedito Richardson ai Bobcats (in cambio di Brendan Wright), siano necessari attributi caratteriali di notevole spessore: Richardson era uno dei giocatori più amati dal pubblico della Oracle, era un elemento fondamentale tecnicamente ma lo era pure nello spogliatoio perché la sua personalità teneva a freno quelle del Barone e di Step Jack.
Eppure Mullin, per l' ennesima volta, ha avuto il coraggio di rischiare e mettere in discussione la sua credibilità cedendo un giocatore la cui estensione contrattuale era l' unica, tra quelle concesse in passato, ad essere giustificata dai fatti. Alla fine, ciò che ha fatto la differenza è stata proprio la possibilità di scaricare un contratto così pesante liberando così ulteriore spazio salariale, e ricevendo per di più in cambio un lungo atletico come Wright che poteva essere funzionale sia alla squadra che ad eventuale scambio con i T'Wolves per ottenere Garnett.
Ma altre mosse importanti, la scorsa estate, sono state le firme a costi molto contenuti di Pietrus, Barnes e Azubuike, uomini importanti per la panchina. In particolare le firme di Pietrus e Barnes hanno dimostrato la maturazione di Mullin e la sua capacità di saper gestire, in modo più fermo e deciso, situazioni che inizialmente si erano complicate per la volontà dei due giocatori di strappare contratti importanti: Mullin invece di lasciarsi andare a decisioni avventurose come in passato, ha saputo temporeggiare, non ha ceduto alle pressioni dei rispettivi agenti ed ha costretto sia Barnes che Pietrus a rifirmare alle sue condizioni. Stesso sviluppo con Nelson che logicamente voleva speculare sui grandi risultati dell' anno precedente.
Mullin quindi ha raggiunto l'obbiettivo che si era prefissato: costruire un team offensivo (1° per punti segnati), divertente, che sapesse sviluppare mentalità vincente e consapevolezza di sé, e con una situazione salariale favorevole (10mln$ sotto il salary cap) per trattenere i giovani che nel frattempo sono emersi. È questa la prossima tappa che il G.M. dei Warriors si è prefissato: dare continuità a questo progetto, a costo di sacrificare persino alcuni obbiettivi del presente come l' ingresso nei play-off per cui la squadra è comunque ampiamente in corsa (8° ad Ovest).
Prima della deadline di Febbraio, spesso si vociferava di come Mullin potesse intervenire sul mercato per migliorare il team in un Ovest addirittura esasperato nella sua competitività e in cui Phoenix e, più di tutti, i Lakers avevano fatto clamore con gli acquisti di O'Neal e Gasol: erano circolati i nomi di Jermaine O'Neal, qualcuno aveva persino lanciato "l' ipotesi Artest" (M.Thompson, Mercury News).
Mullin invece non ha messo a segno il colpo a sensazione, e non escluderemmo che non ci abbia nemmeno provato: sarebbe stato rischioso investire in un contratto pesante mettendo a rischio così la conferma dei pilastri della squadra. L'unica mossa del Mullin è stata fatta in totale austerity: Webber, un giocatore che se ritrovasse una forma fisica decente potrebbe anche essere utile alla causa, senza comunque fare la differenza ad altissimi livelli, ma il cui acquisto è stato studiato nell' ottica del "nulla da perdere" visto che , anche in caso di rendimento, il suo contratto esiguo potrà essere scaricato a fine anno.
La crescita del Mullin è stata quindi costante tanto da renderlo uno dei G.M. emergenti della Lega. ha saputo ridare credibilità alla franchigia, ha acquisito equilibrio e rigidità nel trattare con i giocatori, possiede questa insospettata capacità di scommettere spesso in modo vincente e di agire nell' oscurità , senza far trapelare nulla.
Un "gambler", dunque, uno che nei momenti importanti non ha paura di mettersi in discussione e che, anzi, proprio nella strategie più rischiose riesce a dare il meglio di sé; un senso del rischio e della scommessa che Mullin ha maturato e reso tuttavia più equilibrato con il passare del tempo, imparando dai proprio errori, e trasformandolo da impulsività a "lucida follia".
La lucida follia di chi vuol dare una scossa e accendere un ambiente, tenendo però presenti però le esigenze di bilancio. New York sembra aver messo gli occhi su di lui; a Dallas invece, quello sguardo in occasione della serie di play-off se lo sognano ancora..