I dubbi di Dallas

Il talento di Dallas non si discute; la tenuta mentale viceversa lascia dei dubbi…

Quando Sports Illustrated ti assegna il terzo posto assoluto nel suo power ranking, ci sono vari modi per interpretare la situazione.

Il primo è senza dubbio legato alla fiducia che i giornalisti hanno nelle tue capacità .
E qui, amici miei, non si salta il pasto: basta che io nomini il biondo di Wurzburg, e subito vengono in mente i trofei da MVP, oppure basta che io scriva il numero 67, e subito viene in mente il record di vittorie di franchigia stabilito l'anno scorso.

Qualcos'altro da inserire nella lista dei ricordi? Certo.
Partiamo dalla situazione attuale: al 31 Gennaio, il record è 33-15, condito dal miglior rendimento in casa di tutta la lega (21-3, insieme con Utah).

E vogliamo spendere qualche parolina riguardo agli attori?
Restando al solo trittico Nowitzki-Terry-Howard, siamo, a regime, a quota 58.3 punti, 20 rimbalzi e 8.5 assist a partita.

Perché dico questo? Semplice: se consideriamo il mostro a tre teste dei Celtics, semplicemente la migliore squadra della lega, tali cifre ammontano a 57.3 punti, 19.5 rimbalzi e 11.8 assist. Quindi, l'unica differenza tra le due squadre, a livello numerico, starebbe soltanto in una minore coralità  del gioco espresso dai Mavs. Certo, è un qualcosa che ha comunque il suo peso, ma non declassa affatto il giocattolo di Mark Cuban.

La seconda strada è meno da giornata soleggiata e più da pomeriggio piovoso, nel quale ti affibbiano un'etichetta che ti sta perfettamente cucita addosso, ma che devi sempre dimostrare di meritare.

E qui entra in gioco quello che è sempre stato il difetto delle squadre perfette ma perdenti: la mancanza di risolutezza. Proprio come i Suns di questi anni, o come gli odiati Spurs di metà  anni '90 (4 eliminazioni alle semifinali di conference su 5 partecipazioni alla post-season, nel periodo dal 1992-93 al 1997-98, quando evidentemente le batoste non erano ancora sufficienti a far cambiare la mentalità  della squadra), quando si arriva al momento della definizione, invece di definire il momento, è il momento a definire i Mavs.

I primi ad approfittare di questa tendenza autolesionistica - alquanto leporina - furono gli Heat, in quell'arcinota gara 6 delle 2006 NBA Finals, che trasformarono la squadra texana nel primo team, dal 1977, a tornare a casa con le pive nel sacco dopo essere stato in vantaggio per 2-0.

Dalle parti di Victory Avenue (sarà  questo nome a portar male? Ci avevate mai pensato?) sanno però che esiste una terza via per guardare a quelle divise tinte con un verde-blu che riporta la mente indietro di 40 anni. Sanno che non possono perdere la speranza, anche se altrove, diciamo in qualsiasi altra contea all'infuori di quella di Dallas, la sensazione è che credere ancora, o forse solo, nella speranza sia da inconcludenti.

In effetti, spesso e volentieri anche il Dallas Morning News ha tacciato i Mavs di cronica evanescenza; e se prima l'unico episodio degno di nota era stata quella gara 6 (a Dallas non ne conoscono altre, ovviamente), oggi le colonne si riempiono anche rivangando la tristissima gita alla Oracle Arena dello scorso Giugno.

Fa ancora male pensare al fatto che 67 vittorie in stagione regolare sono probabilmente valse meno delle risicate 42 dei Warriors, ma forse fa ancora più male sapere che la regular season non può guarire i mali della squadra.

Non è una questione di che cifre ci siano in ballo, di quanto siano luccicanti le prove dei vari Nowitzki, Harris o Howard, ma è un problema di pura e semplice attitudine mentale.
Sembra strano parlare in questi termini, poiché in panchina siede un "mastino della volontà " che risponde al nome di Avery Johnson, ma tant'è.

A dire il vero, il reale problema dei Mavs è che il figlio meglio cresciuto di Gregg Popovich non è ancora riuscito a forgiare la mentalità  della sua squadra, cosa che rende inaccettabili ai suoi occhi certe scelte prese durante la gara.

Il segreto dell'insuccesso potrebbe risiedere nel fatto che coach Johnson si morde troppo la coda, o nel fatto che manca della necessaria autorità  (e in questo, quell'istrionico ballerino di Mark Cuban dovrebbe coadiuvarlo: in fondo è lui che sborsa la grana, nevvero?), ma forse è solo una questione di tempo.

In fondo, potrei rubare il titolo che Sports Illustrated ha data alla vittoria dei Giants nel SuperBowl XLII, e riadattarlo ai Mavs: "History Repeats", la storia si ripete.

La gente di Dallas spera che sia quella degli Spurs, quella in cui ad un certo punto l'ultima batosta è davvero… l'ultima. Ma se l'ultima batosta fosse quella rimediata l'anno scorso nella Bay Area?

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