A Chicago non torna il sereno

Continua l'annata difficile di Kirk Hinrich

Grazie soprattutto alle imprese di Michael Jordan i Chicago Bulls hanno conquistato un discreto numero di supporters qui in Italia e, cosa ben più importante, sono diventati uno dei team più vincenti nella storia della Lega.

Oltre ai sei anelli, la bacheca di Chicago vanta anche sette titoli divisionali, il primo nel 1975 mentre le restanti vittorie sono arrivate negli anni 90, gli anni d'oro di Chicago.

I successi dei Bulls sono quindi quasi esclusivamente legati al decennio passato, alla dinastia contrassegnata dal “23”, capace di oscurare non solo i rivali ma anche i suoi stessi compagni di squadra (non si diventa certo il numero uno per caso"). Ma le dinastie, hanno un inizio come hanno anche una fine.

Ripartire dopo aver dominato la Lega non deve essere certo una cosa facile, sia per la dirigenza che per i tifosi, ma anche per la squadra costruita per prendere il testimone.

Dopo aver passato diversi anni nei bassifondi della Lega, Chicago ha rialzato la testa e nelle ultime tre stagioni è riuscita a rimettere piede nei playoff dopo l'era Jordan; nel 2005 e 2006 si è fermata al primo turno rispettivamente con Washington e Miami, meglio è andata la scorsa stagione con i Bulls sconfitti in gara 6 nella Semifinale di Conference dai Pistons dopo aver rimontato con forza il parziale di 3-0.

Certo, in nessuna delle tre edizioni citate i Bulls avevano il ruolo di favorita alla corsa all'anello, ma di questo nessuno si preoccupava tanto, poichè l'obiettivo che si era prefissato la dirigenza negli ultimi anni era di far crescere i giovani, migliorarsi anno dopo anno, fare un passo alla volta per costruire una squadra vincente e tornare alle Finals.

Da qualche anno a questa parte quindi le cose erano cambiate e la possibilità  di vedere in un futuro non molto lontano i Bulls arrivare in fondo non era un'utopia.

Secondo molti, ai nastri di partenza della stagione 2007/2008 Chicago era la candidata numero uno per evitare la scontata finale ad Est tra Boston e Detroit. L'inizio non è però brillante, con sei sconfitte nelle prime otto gare, poi il calendario pone i Bulls di fronte a colui che viene “accusato di essere il responsabile” della crisi: Kobe Bryant.

In estate dichiarava di voler lasciare Los Angeles per andare a Chicago, dichiarazioni che hanno fatto sognare i tifosi, dopo l'era del 23 ecco quella del 24. Non si è fatto nulla, è rimasto solo un sogno, anche se qualcuno era pronto a scommettere in una svolta nella trattativa entro febbraio. Inchiostro sprecato? Visti i risulati dei Lakers e visto che la deadline è vicina, ci si può pure sbilanciare che non ci sarà  nessuna svolta.

Le notizie della possibile trade con Los Angeles hanno minato alcuni equilibri interni nello spogliatoio, ma non ci si può limitare solo a questo. In più, se le difficoltà  fossero state scaturite esclusivamente da questa fantomatica trade era lecito aspettarsi un cambio di marcia deciso una volta ripreso il controllo della situazione.

Intanto allo Staples Center arriva un'altra L a peggiorare il record, ma si va avanti tutti convinti (squadra, dirigenza, tifosi) di poter risalire la china e lottare per gli obiettivi prefissati in pre season. I Bulls però non ingranano e dopo la sconfitta casalinga contro gli Houston Rockets (la sedicesima in venticinque partite) Scott Skiles si alza dalla panchina inconsapevole che quella sarà  la sua ultima partita come coach di Chicago.

La dirigenza ha voluto attendere fino a Natale, poi ringrazia Scott Skiles per il lavoro svolto ed affida la squadra prima all'assistant coach Pete Myers, per la sconfitta contro i San Antonio Spurs, e poi all'altro assistente Jim Boylan, agli occhi di molti un semplice traghettatore.

L'impatto è subito buono, Ben Gordon ritorna al suo vecchio ruolo di sesto uomo che in passato gli riusciva perfettamente (non a caso titolo di miglior sesto uomo nella stagione 2004/2005) e trascina i Bulls nelle quattro vittorie contro Milwaukee, New York, Charlotte e Sacramento, avversari di certo non imbattibili. Le due sconfitte nelle prime sei gare con Boylan alla guida tecnica arrivano nel finale contro Orlando per merito di Turkoglu e in doppio over time contro i sorprendenti Blazers.

Ma quando la squadra sembra sul punto di ingranare arriva qualche sconfitta che rende la situazione enigmatica. Si passa così dalla sconfitta casalinga contro i Knicks alla vittoria contro i Sixers, dalle batoste rimediate dagli Hawks e dai Magic alla vittoria all'American Airlines Arena contro i disastrati Heat. Ed ancora: dopo la convincente vittoria contro i Pistons arriva una sconfitta contro i Grizzlies, alla vittoria contro i Pacers padroni dell'ottava piazza (con i 38 firmati Hinrich) segue la sconfitta contro i Bobcats, anche loro speranzosi di rientrare nella lotta per i playoff.

Un ruolino di marcia poco invidiabile, vittorie in fila che non vanno oltre le due, prestazioni individuali deludenti e minutaggi incomprensibili. Non da sottovalutare le tensioni nello spogliatoio, vedi rissa sfiorata tra Noah e Wallace con il primo (rookie) che accusa Big Ben (veterano) di non sentire molto la sconfitta contro i Magic.

Escludendo questo fatto (ed anche una discussione animata con l'assistant coach costata al rookie una sospensione decisa dal resto della squadra), Joakim Noah sta dimostrando di avere carattere anche in campo. Protagonista dei Florida Gators campioni NCAA degli ultimi due anni non è arrivato dal draft a fari spenti, ma l'attenzione non gli era riservata tanto per il talento, ma più che altro per il cognome pesante (il padre di Joakim è l'ex tennista francese Yannick Noah) e perchè in molti avevano dei dubbi sul suo rendimento all'interno della Lega.

La stagione fin qui disputata da Joakim avrà  fatto cambiare opinione a parecchi, alcuni intransigenti faranno notare la scarsa tecnica ma il cuore e l'impegno che il ragazzo butta sul campo ogni qual volta viene chiamato ad alzarsi dalla panchina non possono essere trascurati.

Purtroppo, sono cose che non vanno a finire sui tabellini di fine gara ma permettono al ragazzo di diventare la prima alternativa a Joe Smith e di scavalcare Tyrus Thomas nella graduatoria del giovane su cui puntare. Double T sarà  più atletico e spettacolare ma al tiro non ha mostrato segni di miglioramento necessari che tutti si aspettavano in questa stagione.

Proprio Joe Smith risulta uno dei più positivi in questa mezza stagione con i suoi 10 punti di media, una mossa estiva di Paxson risultata azzeccata come la riconferma di Andres Nocioni. “El Chapu” partendo spesso dalla panchina ricopre con la grinta ed il carattere che lo contraddistingue i ruoli di 3 e 4, con quasi 15 punti e 5 rimbalzi a partita (più tante altre cose che come nel caso di Noah non vanno in tabellino) dà  un contributo importantissimo che pochi team possono vantare.

Ma quali sono allora le note dolenti di questa stagione?
Non si può non iniziare da Kirk Hinrich. In passato ha dimostrato di essere un fattore, quando gira lui per Chicago non ci sono problemi, ora palla in mano sembra in netta confusione. Le cifre parlano da sole: se gli assist non sono cambiati tanto (6 assist per partita) la media punti è scesa da 16.6 a 11.3 con una brutta percentuale al tiro da tre del 30%.

Sotto accusa è finita anche la dirigenza che nell'estate 2006 ha offerto a Ben Wallace un contratto da 60 milioni in 4 anni, mossa che sembrava azzeccata per portare Chicago ai piani alti della Eastern ma che alla luce del contributo fatto registrare finora dal quattro volte difensore dell'anno risulta errata.

Il suo apporto in attacco è sempre stato limitato, ma per esperienza e carisma ci si aspettava da lui un dominio difensivo dopo un anno di assestamento; la svogliatezza che traspare da alcune sue prestazioni è inspiegabile e ora le incomprensioni con Skiles non valgono più.

Più ombre che luci per Loul Deng e Ben Gordon: quella che doveva essere la stagione della consacrazione al ruolo di All Star si sta rivelando più problematica del previsto. Vuoi per infortuni o rumors di mercato, le loro cifre sono in calo ed è più che probabile che uno dei due sia pronto per preparare le valigie.

Tuttavia la stagione non è ancora andata, i playoff sono alla portata di questo team e non è richiesto nemmeno un cambio di marcia deciso considerando che attualmente in lotta per gli ultimi due posti utili per appradare ai playoff ci sono Atlanta, Indiana e New Jersey, team alle prese con vari problemi e dai risultati altalenanti. Le squadre citate hanno un record negativo abbastanza simile che ad Ovest spezzerebbe ogni sogno di playoff, per loro fortuna la Eastern Conference è un'altra cosa.

Una eventuale serie di playoff contro Chicago non è da sottovalutare, curiosa la statistica che in stagione regolare vede i Bulls avanti 3-0 negli scontri diretti con i Pistons. Certo, ciò non vuol dire molto, basti pensare che l'anno scorso Dallas alla fine della regular season aveva un record di 4-0 contro Golden State ed è noto a tutti com'è andata a finire.

Il calendario mette di fronte ai Bulls sei trasferte ad Ovest (Minnesota, Sacramento, Seattle, Portland, Golden State e Utah), concluso questo tour e passato l'All Star Game vedremo se Chicago riuscirà  a salvare la stagione, ma indipendentemente da questo su una cosa si può tranquillamente scommettere: a novembre vedremo parecchi volti nuovi in maglia Bulls.

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