Quest'uomo ha un solo obiettivo nella testa: l'anello…
Estate 2003.
Karl Malone, bandiera ultradecennale degli Utah Jazz, passa, con un certo clamore, ai Los Angeles Lakers di Shaq e Kobe, nell'estremo tentativo di aggiudicarsi l'anello.
Estate 2007: Dopo l'arrivo di Ray Allen e Kevin Garnett a Boston, Reggie Miller valuta l'ipotesi di un ritorno al basket giocato alla veneranda età di 42 anni. Il simbolo degli Indiana Pacers potrebbe vestire proprio la storica jersey biancoverde, nell'intento di dare un ultimo assalto al tanto desiderato anello.
L'anello in questione è l'anello di campione Nba.
L'anello in questione può fare la differenza tra un'ottima carriera ed una carriera vincente.
L'anello in questione viene prodotto, ogni anno, in una quindicina circa di esemplari unici.
L'anello in questione viene consegnato a ciascun componente del team campione, all'interno di una cerimonia che prevede, tra l'altro, l'innalzamento del pennant di Nba Champions.
Altro che fede nuziale.
Oltre ai già citati Malone e Miller, i migliori giocatori, inattivi, a non aver mai ricevuto l'investitura di campione Nba, sono considerati Patrick Ewing, Charles Barkley, Dominique Wilkins, Elgin Baylor e John Stockton. All'unanimità .
Membri illustri di un'altrettanto illustre lista: “Le stelle che non hanno mai vinto un titolo Nba”.
Far parte di questa lista, per un giocatore professionista, equivale a vivere con un asterisco incollato alla schiena.
Ritirarsi senza esserselo scrollato di dosso, significherebbe che ad ogni meritato elogio seguirebbe un ma, e ad ogni celebrazione farebbe eco un però. Una maledizione.
Nell'Nba odierna, il valore della vittoria finale tende quasi a scomparire, perso nel pout pourri di luci e intrattenimento che circonda il puro evento sportivo. Fortunatamente, però, i maggiori calibri della pallacanestro calcano ancora i parquet a stelle e strisce, e scendono in campo, in ciascuna delle ottantadue partite di ogni stagione, con un solo obiettivo in mente: quell'anello.
Ma chi sono allo stato attuale questi campioni?
Dove giocano e che possibilità hanno di liberarsi di tutti i ma e i però che si portano appresso? Sarà questa la loro ultima occasione?
Kevin Garnett
In cima alla lista non può non trovarsi Kevin Garnett.
Protagonista nel Luglio scorso di una trade epocale, per il numero di giocatori coinvolti e per la quantità di equilibri spostati.
Da Kid però, non ha preso la prima uscita disponibile della Minneapolis highway. Non lui. Non la bandiera e il simbolo dei Timberwolves, detentore di una quantità enorme di record di franchigia e protagonista degli anni più brillanti del team entrato in Nba diciotto anni or sono.
Per andarsene, KG, ha atteso che ogni speranza svanisse e che la società mettesse in piedi un progetto non più incentrato sulla sua figura.
Per andarsene, KG, chiedeva che la sua destinazione avesse una sola caratteristica: il titolo nel mirino.
Con tali premesse, pochissimi team potevano permettersi il lusso di sedersi al tavolo delle trattative con un'offerta allettante per il team e per il giocatore.
Ancora meno erano quelli che potevano vantare rapporti di reciproca stima con il Gm dei Wolves, McHale. Anzi, a dire il vero, il team era uno solo. I Boston Celtics: sedici titoli in bacheca, l'ultimo nel lontano 1986, e una collezione di sfighe ed errori da far invidia a Paperoga.
I retroscena e le mosse decisive che hanno portato Garnett nel New England sono oramai ben noti, con l'arrivo di Allen e la permanenza di Pierce che hanno giocato un ruolo importante, se non decisivo. Quello che invece verrà svelato solo dal passare del tempo, è se la scelta del trentunenne prodotto della Farragut Academy, si rivelerà vincente o meno.
Ray Allen
Stilisticamente perfetto. Faccia da bravo ragazzo. Curriculum invidiabile.
Ray Allen farebbe volentieri a meno di queste tre definizioni, che peraltro gli calzano alla meraviglia, per avere in cambio un pezzo di gioielleria anulare.
Alla non più giovane età di 32 anni, Allen si è trovato nella spiacevole situazione del predicatore nel deserto. Le cifre personali delle sue ultime stagioni a Seattle erano tra le migliori in carriera, ma i risultati dei Sonics non avevano mai raggiunto valori altrettanto soddisfacenti. Tutt'altro.
Nell'estate scorsa, oltretutto, dopo quattro stagioni di onorato servizio, il tiratore da Merced, California si è visto spedire senza troppi complimenti dall'altra parte degli states, a far compagnia ad un Paul Pierce il cui umore era forse più cupo del suo.
I due, talenti puri ed indiscutibili, apparivano come pesci fuor d'acqua tra la meglio gioventù accumulata da Danny Ainge negli ultimi anni, e nonostante i buoni propositi, non potevano fare abbastanza per rendere i Celtics un'ipotetica contender. Quello che è successo poi è risaputo.
La magata di Ainge, da altri definito “il regalo di natale anticipato di McHale ad un caro amico”, ha posto Beantown in cima alla lista delle pretendenti al trono ad Est, impennando, di conseguenza, le quote che vedrebbero He Got Game infilarsi l'anello al dito.
Paul Pierce
Se Garnett e Allen possono essere considerati i motivi più evidenti per giustificare il passaggio di Boston da lottery team a contender, Paul Pierce può giustificatamente definirsi la ragione per cui le due stelle hanno accettato di buon grado il loro passaggio biancoverde.
Double P, bandiera indiscutibile della franchigia con sedici stendardi di campione Nba, ha conosciuto tutti gli alti e i bassi delle ultime stagioni a Boston. Dalle finali di conference perse con New Jersey nel 2002 alle 24 misere vittorie la scorsa stagione.
Alti e bassi che non hanno mai impedito al n°34 di mettere il cuore in ogni singolo incontro, sera dopo sera, vittoria o sconfitta. Ora, non esistono prove filmate o testimonianze dirette, ma immaginarselo saltare sul letto come un bambino lasciato a casa da solo per la prima volta, festante ed eccitato, nel giorno dell'ufficialità del passaggio di Garnett a Boston, non pare un'ipotesi molto lontana dalla verità .
Lui che più di ogni altro, incarna il Celtic pride nel terzo millennio, lui che è stato più volte sul punto di abbandonare la nave, ma che non l'ha mai fatto. Lui, Paul Pierce, ha finalmente le armi per dare l'assalto più deciso al titolo Nba.
I tre giocatori di cui sopra, vestiti degli stessi colori, hanno immediatamente fatto dei Celtics una teorica candidata al titolo, scatenando dibattiti ad ogni latitudine. I difetti ci sono eccome, e sono sotto occhi di tutti.
La panchina non pare abbastanza profonda, e coach Rivers non ha ancora provato di possedere un'attitudine da vincente vero. Basteranno i big three?
L'inizio di stagione, intanto, ha già fugato i pochi dubbi riguardo alla convivenza dei tre tenori. Frasi come “Il pallone è uno solo” o “Si toglieranno tiri l'uno con l'altro”, non aleggiano più tra le verdi poltroncine del Td Banknorth Garden. Allen Pierce e Garnett hanno una straordinaria comunione d'intenti, ed una determinazione fuori del comune.
Gli unici dubbi che li riguardano, e sono comunque dubbi da non sottovalutare, trattano della loro integrità fisica. Sia dal punto di vista dei singoli infortuni, sia da quello dell'usura di una stagione giocata costantemente attorno ai 40 minuti a partita.
In conclusione, per avere indicazioni più certe riguardo alle chance delle tre stelle di uscire dalla lista delle no-ring-superstars, dovremo attendere gli scontri diretti con le grandi potenze della Western Conference. Mavs, Suns e Spurs, sulla carta, sono ancora superiori.
Jason Kidd
Da Dallas a Phoenix, da Phoenix a Newark.
Il percorso che ha portato Kidd ai Nets è stato piuttosto semplice, quasi banale. Un buon playmaker in cambio di un altro. Sam Cassell prima, Stephon Marbury poi. Tutt'altro che banale è l'aver guidato ai playoff i Suns in ciascuna delle sue cinque stagioni in Arizona, con un ruolo sempre più da protagonista; ancor meno banale è l'aver ottenuto il medesimo risultato con i Nets, da leader affermato, raddoppiandone il numero di vittorie al suo primo anno in New Jersey.
Undici apparizioni ai playoff consecutive, con il titolo della Eastern Conference vinto per due stagioni, tra il 2001 e il 2003, e quello Nba sfuggitogli per mano dei Lakers di Shaq e Kobe prima, e della dinastia Spurs poi.
Erano le stagioni dei pronostici tutti orientati ad ovest, dove chi arrivava in finale aveva già mezzo titolo in tasca. Quando la front line della Western Conference all'All Star Game presentava Shaq, Duncan e Garnett uno di fianco all'altro, e ad affrontarli arrivavano Vince Carter, Antoine Walker e Dikembe Mutombo. Con tutto il rispetto per questi ultimi…
In una manciata di stagioni, poi, le carte si sono rimescolate.
Shaq ha fatto ritorno in Florida, sponda Heat, i Detroit Pistons sono emersi come riedizione dei bad boys degli anni 80, e, ultimi in ordine di tempo, i Celtics hanno gettato le basi per stazionare ad altissimi livelli nelle prossime tre o quattro stagioni.
Kidd e i suoi Nets, mentre la Eastern Conference cambiava intorno a loro, hanno mantenuto invariati i loro standard, conquistando i playoff con una certa tranquillità e guadagnandosi sempre una certa considerazione quando ad est si trattava di eleggere i top team.
Nonostante tutto, la produzione del trio Kidd-Jefferson-Carter, giunto quest'anno alla sua quarta stagione, non è più stata sufficiente per portare i Nets alle Nba finals, e le quotazioni del team allenato da Lawrence Frank sono in lento ma costante declino. Le primavere migliori di Kidd sono alle spalle e, a meno che i vari Krstic, Nachbar, Magloire e Sean Williams non infilino una stagione da primato personale, difficilmente vedremo Giasone lottare nuovamente per il premio finale.
Allen Iverson
Tra gli episodi più eclatanti che testimoniano del divario est-ovest nei primi anni del terzo millennio, trovano posto, senza ombra di dubbio le finali del 2001 tra i Los Angeles Lakers ed i Philadelphia 76ers di Allen Iverson e Larry Brown. Con i Lakers ancora imbattuti in quei playoff, il destino di A.I. e di Philadelphia pareva segnato in partenza.
Nessuno dava loro una speranza. Nessuno li vedeva andare oltre gara4. Iverson, toccato con mano lo scetticismo dell'intero ambiente, decise di mandare un segnale. Gara1, la città degli angeli era in fermento per la prima delle quattro serate necessarie ad aggiudicarsi il secondo titolo consecutivo.
Lui, Iverson, espugnò da solo lo Staples Center, con 48 punti e un cuore che l'arena losangelina non avrebbe potuto contenere. La solitamente chiassosa Los Angeles, ammutolì. Purtroppo per Iverson, ripetere l'impresa nelle partite seguenti risultò impossibile, i Lakers vinsero quattro partite in fila, portando a casa trofeo e gloria, e lasciando ad Iverson i rimpianti di un'occasione che forse non si sarebbe più ripresentata. Forse.
Di lì a cinque anni, il rapporto di the Answer con la dirigenza dei Sixers precipitò e collassò nel giro di pochi mesi: Iverson venne ceduto ai Denver Nuggets, dove avrebbe formato con Carmelo Anthony una coppia dalle potenzialità tutte da scoprire.
Due habitué del trentello nello stesso quintetto. Sessanta punti assicurati ogni sera, ma anche tanti dubbi, sulla convivenza tra i due e sull'età non più verde di A.I. in primis. La chimica di squadra impiegò del tempo per adattarsi all'arrivo di Iverson: il record, inizialmente, continuò ad oscillare attorno al .500 di vittorie, rinvigorendo il partito che vedeva nell'arrivo di Iverson un motivo di preoccupazione.
Fu il finale di stagione, con un'ottima sesta piazza conquistata ad ovest ed un duello al primo turno contro gli Spurs, a diffondere l'ottimismo nel clan delle pepite. Popovich e i suoi faticarono più del previsto per prevalere sui Nuggets, che misero in archivio il 4 a 1 subito come un importante lezione per il futuro.
L'inizio della stagione 2007-2008 ha visto i Nuggets proseguire sul sentiero che avevano lasciato pochi mesi prima. Anthony e Iverson compongono orami un dynamic duo tra i più temuti nell'intera lega, ed intorno a loro, ad aggiungere grattacapi agli avversari, gravitano veterani come Marcus Camby o recenti scoperte come Linas Kleiza e J.R. Smith. A.I. può quindi puntare al ballo finale?
Il confronto tra i Sixers 2001 ed i Nuggets odierni direbbe di sì, ma a fare la differenza potrebbe essere la concorrenza che l'ex stella di Georgetown si troverebbe davanti in sede di playoff. Corazzate come i Suns di D'Antoni e team emergenti come i Rockets potrebbero richiedere un nuovo miracolo. A.I. ha tanta voglia di mandare un nuovo segnale all'Nba, non più da solo, ma con il suo partner in crime Melo Anthony. La cosa potrebbe fare la differenza.
Steve Nash
Il ritorno di Steve Nash ai Phoenix Suns, nell'estate non troppo lontana del 2004, ha avuto, sulla franchigia dell'Arizona, un effetto rigenerante che ricorda molto quello portato a New Jersey da Jason Kidd. Nash, uno tra i tre migliori playmaker della lega, ha portato il numero di vittorie del suo nuovo team a livelli inattesi ed insperati, afferrando le redini della squadra e giostrando a suo piacimento le stelle di cui era circondato.
Amaré Stoudemire e Shawn Marion, ne hanno tratto beneficio da subito, mentre solo più recentemente si sono aggiunti i vari Diaw, Barbosa e Bell. Tutte frecce pronte a scoccare dall'arco del n°13, mente di uno dei team più divertenti e vincenti della lega.
I pronostici delle ultime due stagioni mettevano Nash e Phoenix in prima fila ad ovest e nell'intera Nba, davanti anche ai Mavericks ed agli Spurs. In entrambi i casi però, in post season, le formazioni texane hanno avuto la meglio sui ragazzi di D'Antoni.
Infortuni e squalifiche hanno avuto responsabilità importanti per l'esito delle due serie di playoff, ma è innegabile che la rotazione ridotta all'osso di coach D'Antoni non faccia molto bene ad un team non più giovanissimo. Appresa la lezione quindi, l'ex scarpetta rossa dell'Olimpia Milano, ha deciso di aprire le porte del campo a chi prima lo aveva visto solo in fotografia, togliendo minuti preziosi a chi, nella post season, dovrà fare la differenza.
Banks, Strawberry e Marks si sono quindi aggiunti alla faretra di Steve Nash, che di meglio non chiedeva: una manciata di minuti in più a riposare in panchina ed un paio di compagni nuovi da lanciare a canestro.
Gli manca solo una cosa, quella cosa, e Steve, anche quest'anno, è partito in pole position. Vince, J.O. e gli altri Defilati nelle retrovie, gravitano altri campioni, che presto o tardi potrebbero trovarsi nella medesima situazione dei vari Iverson, Kidd o Garnett.
Alcuni per motivi di età , altri per uno status di stella venuto a mancare, non si trovano più nell'elenco delle superstar a caccia del primo anello, ma meritano comunque di essere ricordati.
Vince Carter è tra le ragioni principale per cui Jason Kidd crede ancora fermamente nel suo obiettivo.
Con qualche anno in meno sulle spalle però, l'ex stella dei Raptors, vedrà le proprie quotazioni scendere man mano che il rendimento di Kidd subirà un fisiologico declino. A quel punto, a meno di clamorose esplosioni di talento, la fortuna di Carter potrebbe nascondersi in un ultimo decisivo trasferimento, alla corte di un team che possa offrirgli una concreta possibilità di giocare per il titolo.
Un'altra stella che dovrebbe cercare altrove le proprie fortune, sembra essere Jermaine O'Neal. Protagonista di un numero indefinito di rumors durante l'estate, J.O. è rimasto ai Pacers, team sospeso a metà tra le buone cose messe in mostra nel recente passat,o e la chiara necessità di rifondare attorno a giovani di talento come Granger e Mike Dunleavy Jr.
O'Neal non ha ancora passato i trenta, ma pare aver già letto tra le righe che un eventuale chance di titolo, per lui, non passerà da Indianapolis, e non dovrà sorprendere se con l'avvicinarsi della deadline di febbraio, il suo nome verrà accostato sempre più spesso a team di prima fascia.
Grant Hill e Juwan Howard, infine, dopo essersi lasciati alle spalle gli anni migliori delle loro carriere, hanno deciso di fare un passo indietro sul piano del ruolo, ma non su quello delle ambizioni.
Abbandonando Magic e Wolves, team giovani e con ambizioni poco nobili nel breve termine, sono approdati entrambi in squadre con i favori del pronostico dalla loro, rispettivamente Suns e Mavericks, candidandosi al ruolo di gregari di lusso.
Considerata la caratura dei giocatori in questione, e il brillante passato che ha caratterizzato entrambi, non è da escludere che l'apporto dei due veterani possa risultare decisivo nella corsa al titolo di Phoenix e Dallas.