Focus: Team USA (Part III)

Con Kobe in quintetto, il Team USA parte favorito contro qualunque avversario…

Dopo il disastro dei mondiali nipponici, Colangelo e Mike D'Antoni, non a caso, avevano individuato nella guardia dei Lakers il primo mattone su cui ricostruire la rinascita di USA Team: Bryant infatti in questo momento, non è soltanto il giocatore più forte e completo del mondo, ma dispone di una mentalità  competitiva praticamente impareggiabile che, unita al suo talento, rappresenta una polizza assicurativa indiscutibile contro qualsiasi eventualità  di sconfitta.

Bryant, inoltre, con il suo stile di gioco spettacolare e la sua popolarità , avrebbe permesso alla squadra nazionale statunitense di riguadagnare punti in termini di successo mediatico: è un particolare questo da non sottovalutare soprattutto dopo gli ultimi fallimenti internazionali e in un momento storico in cui per la NBA è praticamente impossibile schierare la più forte selezione possibile, come accadde invece nel '92 e nel '96.

Bryant a Las Vegas era indiscutibilmente il giocatore più atteso: il gialloviola era infatti al suo esordio con la squadra nazionale, ma soprattutto vi era la curiosità  di vedere come avrebbe reagito al momento difficile che sta attraversando con la sua franchigia. Inoltre, la presenza di giocatori come Lebron, Anthony e Kidd, rappresentava un interessante banco di prova per valutare la sua capacità  e la sua disponibilità  a coesistere con le altre stelle del gruppo.

I riscontri non avrebbero potuto essere più positivi e inequivocabili: Kobe si è fatto da parte come realizzatore puro (terzo della squadra con 15.3ppg), ma insieme a Kidd, si è concentrato sulla gestione del ritmo e sul coinvolgimento dei compagni. Esclusa qualche forzatura iniziale nella finale contro l' Argentina, la sua "shot-selection" è stata praticamente inappuntabile: per certi versi, è sembrato rivivere in lui lo spirito degli "original dream-teamer" del '92 concentrati più sulla volontà  di migliorare i compagni che non sul desiderio egoistico di mettersi in mostra.

Ma è stato soprattutto in difesa che Bryant ha dimostrato la sua superiorità  tecnica e mentale: ha sistematicamente marcato l' avversario più pericoloso, e la sua intensità  difensiva, tranne qualche comprensibile calo, è stata, in certi casi, persino soffocante per efficacia e continuità . Nella sfida contro il Brasile, Barbosa (primo realizzatore del torneo) è stato letteralmente annullato da Kobe: una delle immagini più significative che rimarrà  di questi giochi è quella in cui Kobe, a partita ampiamente decisa per gli USA, si tuffa sul parquet per rubare e recuperare un pallone a Barbosa.

Con Kidd, Bryant incarna la nuova essenza mentale degli USA: mentalità , spirito di sacrificio, senso della collettività  e furore agonistico:
"Con Kobe abbiamo un leader, un giocatore molto forte mentalmente; e non abbiamo solo lui, ma c'è anche Jason Kidd"" (Carmelo Anthony).

Il torneo di Las Vegas ha rappresentato per Bryant l' occasione in cui sfogare tutta la sua frustrazione e insoddisfazione per le recenti delusioni ottenute con i Lakers: l' entusiasmo e la disponibilità  con cui si è messo a servizio dei compagni ha dimostrato ampiamente come l'egoismo spesso esibito invece con la maglia Lakers sia la conseguenza dello scarso talento della squadra e una chiara polemica nei confronti del G.M. Kupchak incapace di costruire un team da titolo.
La presenza di Kidd e Bryant, unita ad una più precisa preparazione tattica, ha permesso agli USA di migliorare notevolmente la propria solidità  difensiva: Bryant e Kidd, hanno garantito una pressione difensiva costante ed aggressiva, forzando gli avversari a molte palle perse che spesso si sono poi convertite in contropiedi e superiorità  numeriche sistematiche. Difesa che poi ha potuto ulteriormente contare sul contributo e sulla versatilità  che Tyshaun Prince portava dal pino, e sulla fisicità  di Lebron James.

Al di là  dei singoli, ciò che comunque ha positivamente impressionato in difesa, rispetto alle ultime deludenti esibizioni, è stata una migliore capacità  da parte dello staff tecnico nel riconoscere e reagire a precise situazioni offensive create dagli avversari: gli USA, ad esempio, sono sembrati collettivamente molto più pronti e reattivi contro quelle soluzioni di "screen&roll" che, viceversa, ai Mondiali in Giappone erano costati la semifinale contro la Grecia.

Ovviamente i "pick&roll" delle squadre europee che gli americani dovranno affrontare a Pechino saranno qualitativamente ben superiori rispetto a quelli affrontati a Las Vegas, ma la pressione individuale di Kidd e Bryant, e la possibilità  di raddoppiare costantemente il play avversario sfruttando la reattività  e le braccia lunghe di Prince e James, sembrano antidoti davvero efficaci contro questo tipo di soluzione. Anche contro le situazioni di 1c1 gli USA hanno mostrato un maggior spirito di adattamento rispetto al passato: nella finale contro l' Argentina, Scola, dopo aver battuto a ripetizione nei primi minuti Dwight Howard in isolamento, è stato sistematicamente raddoppiato e costretto ad accontentarsi del tiro dalla media.

In sostanza, con Bryant e Prince, gli USA hanno degli autentici specialisti difensivi in grado di annullare chiunque senza togliere di qualità  all' attacco, ma, all' evenienza, sono pronti ad intervenire anche con contromosse collettive.

Con la difesa, un altro aspetto tecnico in cui la nazionale statunitense sembra aver preso adeguati rimedi che stridono invece con le carenze del recente passato, è il tiro da tre punti. 31.4% ad Atene2004 e 36.9% a Tokio2006: in queste misere e scadenti cifre nel tiro dalla lunga si racchiudono alcuni dei principali motivi che hanno causato gli ultimi fallimenti degli USA, piuttosto miopi di fronte alla crescente importanza del tiro da 3p nel basket FIBA e alla conseguente necessità  di dotarsi di affidabili specialisti in questo fondamentale, soprattutto per attaccare la zona.

Gli USA di Las Vegas sono stati la versione più prolifica nel tiro da 3p nella storia della nazionale a stelle e strisce: colpisce decisamente il 47% globale da oltre l' arco, ma colpiscono ancora di più alcune statistiche accumulate in singole gare.

Gli USA hanno realizzato, per esempio, 23 canestri pesanti con quasi il 70% al tiro in semifinale contro Portorico, mentre ne hanno piazzati altri 20 con il 49% nella finale contro l' Argentina. Di più: gli americani hanno avuto ben quattro giocatori con almeno il 45% da 3p, e hanno segnato quasi 15 canestri pesanti di media per gara.

In sostanza, gli USA sono stati addirittura straripanti in un fondamentale tecnico di stampo decisamente europeo, e hanno deciso le gare finali del torneo di Las Vegas proprio con il tiro da 3p: non si era mai vista una nazionale americana così continua nel tiro da 3p, né per precisione, né tanto meno nella ricerca dello stesso. Sono segnali tangibili, questi, dei tempi che cambiano, di uno stile di gioco cioè sempre più perimetrale che sta caratterizzando anche l' NBA (la "small ball" d'Antoni e Don Nelson) ma soprattutto è la prova concreta di una squadra e di uno staff tecnico che ha saputo ottimizzare gli errori del passato: finalmente sono stati convocati "pure shooter" veri e non occasionali (Micheal Redd, Mike Miller, Billups), e con il tiro da 3p ravvicinato, pure Bryant, Anthony e persino James si sono dimostrati trepuntisti infallibili.

L' attacco stesso alla zona come principi si è mostrato più sapiente e logico che nelle scorse competizioni: migliore la circolazione di palla garantita da passatori come Kidd, James e Bryant, "penetra e scarica" più aggressivo con gli esterni, e occasionalmente è stato persino sfruttato il gioco spalle a canestro di Bryant con conseguenti riaperture per i tiratori perimetrali.

Come si affermava in precedenza, adattarsi al sistema non significa necessariamente assorbire passivamente le regole con il risultato di snaturarsi completamente: l' individuo, tuttavia, può sempre trovare il modo di esprimere se stesso portando alla luce la sua intima essenza.

Gli USA perciò, pur in questa operazione di autocritica e ristrutturazione in chiave moderna e internazionale, sono comunque riusciti in qualche modo a rimanere fedeli ad alcune loro "storiche" caratteristiche: sono ritornati perciò l' atletismo, l' intensità  difensiva già  fondamentale per loro in alcuni successi del passato, sono riusciti ad esprimere il loro classico gioco veloce e spettacolare.

Anche la profondità  del loro roster è stata una chiave importante per il loro trionfo finale: la lunghezza della loro panchina sarebbe già  difficilmente sostenibile persino dalle nazionali europee, figuriamoci in un torneo complessivamente povero tecnicamente come quello delle Americhe.

La panchina USA è stata tipicamente "americana" per la profondità  del suo talento: dal pino uscivano a turno Redd, uno dei migliori tiratori e realizzatori puri della lega, Billups che solo tre anni fa è stato M.V.P. delle Finals NBA, persino Amare Stoudemire.

Tuttavia, anche la gestione del pino è sembrata molto più "europea" e moderna che in passato: la media minuti finale dei giocatori risulta molto equilibrata ma non deve ingannare poiché spesso nei quarti finali di gara, a risultato ampiamente deciso, coach K concedeva molto spazio ai panchinari meno utilizzati.

In realtà , a Las Vegas, la rotazione dei giocatori ha seguito le necessità  delle singole partite, più che la volontà  di non creare malumori e gelosie in spogliatoio: la spina dorsale della squadra formata da Kidd, Bryant, James e Anthony è stata conservata intatta per gran parte delle partite, venendo ritoccata solo per precise esigenze tattiche o per dar fiato ai titolari.

La profondità  della panchina ha permesso poi a Mike Krzyzewsky le soluzioni più diverse: un quintetto molto offensivo e colmo di tiro da fuori con Anthony da "4" e Redd in guardia, oppure una formazione più difensiva con Billups da play e Prince da "3". I giocatori stessi provenienti dal pino sono stati spesso impiegati da "specialisti": Redd e Miller erano i tiratori designati contro la zona, mentre Tyson Chandler veniva inserito per dare più concretezza a rimbalzo e permettere alla squadra di tenere alto il ritmo di gara.

In definitiva: per quanto il torneo delle Americhe si sia dimostrato poco attendibile da un punto di vista tecnico e fisico per dare l' esatta dimensione della nazionale americana, si ha comunque la forte sensazione che questi Stati Uniti abbiano potenzialmente individuato la giusta quadratura del cerchio adattando le proprie caratteristiche a quelle del basket internazionale.

Il livello delle Olimpiadi di Pechino sarà  sensibilmente più alto poiché nazionali europee come Spagna, Grecia e Russia saranno presumibilmente di ben altro calibro rispetto a quelle sudamericane: il basket europeo è più fisico, tattico e molto più solido sul piano difensivo (anche agli ultimi europei si è faticato spesso a raggiungere i 70p su singola gara).

In ogni caso anche le scelte tecniche operate da Jerry Colangelo sono apparse mirate molto più in direzione di Pechino08 che non al Torneo delle Americhe: la solidità  e la varietà  di contromosse sperimentate a Las Vegas, unite a generose dosi di talento, rappresentano una validissima base di partenza per la conquista di un oro olimpico che, se dovesse sfuggire nuovamente, costituirebbe un fallimento ancor più catastrofico di quelle precedenti. La presenza in squadra di giocatori come Bryant e la possibilità  di aver "programmato" e costruito la squadra olimpica nell' arco di un triennio, ora veramente non concedono più alcun alibi agli Stati Uniti.

A Pechino la formazione statunitense probabilmente non subirà  grandi rinnovamenti proprio per dare un senso al concetto di "continuità " su cui Colangelo ha imperniato la sua missione: la formazione attuale dà , già  di per se, ampie garanzie a qualsiasi livello e intaccarla nella sua chimica di base potrebbe essere pericoloso.

Alcuni cambiamenti potrebbero esser invece legati all' età  di alcuni giocatori, o al tentativo di dare spazio a qualche elemento giovane che dovesse emergere nella prossima stagione così da rendere la nazionale il più attuale possibile.

Sostanzialmente l' unico giocatore a rischio di età  potrebbe essere Kidd, ma già  quest'anno il fuoriclasse dei Nets ha dimostrato di poter giocare ancora ai massimi livelli magari con un minutaggio più controllato: in ogni caso sono pronti Billups e Deron Williams.

Non è certa la riconferma di Mike Miller, tiratore puro, rivelatosi comunque molto più adatto (39% da 3p) di Joe Jonhson (30.8% da 3p in Giappone) a partire dal pino e a colpire contro la zona o sugli scarichi: al suo posto potrebbe essere chiamato il nuovo fenomeno Durant, oppure Wade ma nel secondo caso si opterebbe per un'altra tipologia di giocatore.

Oltre a Wade, si parla con insistenza di Chris Bosh per Pechino, non solo per il valore assoluto del giocatore, ma anche perché il lungo dei Raptors fornirebbe quei punti in post basso che onestamente a Las Vegas sono un po' mancati soprattutto da Howard: ad uscire dalla formazione sarebbe in questo caso Chandler, utile invece per rimbalzi e intimidazione. L' infortunio che ha colpito durante l' estate Oden, elimina quasi automaticamente il lungo di Portland dal progetto olimpico.

Con una verità  di fatto comunque gli USA devono fare i conti: le competizioni internazionali hanno dimostrato chiaramente che un team vincente deve essere composto di giocatori di qualità , ma ancor più deve basarsi su precisi equilibri collettivi, sia in campo che fuori.

In questo senso, Colangelo non deve incorrere nuovamente nel vecchio errore in cui erano caduti i selezionatori del passato più recente: scegliere cioè giocatori di talento e di fascino mediatico sacrificando in nome di questi le chimiche del gruppo.

Vedi anche:
Focus: Team USA (Part I)
Focus: Team USA (Part II)

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