Earvin Magic Johnson, uno dei più grandi interpreti di sempre del ruolo di playmaker
Il playmaker, la quintessenza del basket. Un ruolo a cui si deve essere predestinati, registi non si diventa, si nasce.
Nella storia della NBA, o se vogliamo del basket mondiale, il ruolo del play è visto storicamente come il perno attorno al quale far girare la squadra. In campo, al regista è affidato l'arduo compito di ordinare i compagni, chiamare e far eseguire i giochi, trovare l'uomo smarcato.
Non è da tutti fare il play, e di questo si è spesso accorto chi, come me, a quel ruolo era destinato un po' per forza, un po' per qualche defezione di madre natura.
Quasi sempre, infatti, ricopre quella posizione il giocatore più piccolo, in termini di statura, vuoi perché presumibilmente più agile e più veloce, vuoi perché l'altezza è meglio destinarla a chi gioca nei pressi dell'anello.
Ma, dicevamo, playmaker non si diventa. Chiamare un certo gioco in un determinato momento della partita è qualcosa che richiede esperienza, talento e molto studio.
Capire cosa è meglio per la squadra in una certa fase della gara è compito del coach, vero, però il coach oltre la linea del pino non può andare. Chi è in campo deve prendere delle decisioni che nella repentinità del gioco possono cambiare da un momento all'altro. E qui sta la competenza e la capacità del regista.
Forse si può andare oltre, però. Se osserviamo chi ci ha fatto incantare nel passato, come lo straordinario Magic o il pragmatico John Stockton, o a chi ci fa sognare oggidì, come Steve Nash e Jason Kidd, possiamo trovare un minimo comun denominatore: la fantasia.
Oltre alle funzioni a se stessi conferite, questi grandi hanno donato al loro ruolo una dimensione ulteriore. Giocare con la fantasia permette, ieri come oggi, di vedere in campo cose che gli altri non vedono, di fare cose che nessun altro può fare.
Schiacciare è forse una delle cose che più affascinano il tifoso comune. Ne è la prova l'enorme seguito di eventi come i vari Slam Dunk Contest o di giocatori nati (e solo a volte emancipatisi) come schiacciatori.
Ma per il tifoso più fino, altre due sono le specialità , le magie, che possono emozionare.
Una è la stoppata, propria di chi ha tempismo, atletismo, forza e spirito.
L'altra è l'assist. La vera perla di questo sport. Non serve essere atletici, non serve saltare tanto, non serve essere giganti. Per trovare li, in mezzo all'area affollata di giocatori, chi segnerà due punti serve occhio, prontezza di riflessi e mani educate.
Guardando ai grandi del ruolo, pensare e chiamarli semplicemente registi appare riduttivo. I già citati Magic, Stockton, Nash, Kidd, a cui aggiungiamo Nate Archibald, Bob Cousy, Oscar Robertson e Isiah Thomas, tanto per citarne qualcuno, non erano semplici registi. Erano creatori del gioco.
Non si limitavano al seppur difficile compito di ordinare e far girare la squadra, loro dettavano il ritmo, cercavano e trovavano angoli di passaggio dove altri non vedevano che braccia o gambe.
Seguendo la pallacanestro oltreoceano da solo un decennio e poco più, non ho potuto avere il piacere di guardare "in tempo reale" grandi del passato, né ho avuto possibilità di godermi, se non a posteriori e con un mare di DVD, le prodezze di Magic Johnson.
Ma proprio grazie a quei filmati e alla mia voglia di conoscere questo grande personaggio, ho avuto la possibilità di apprezzare ed imparare tanto da quello che a mio parere è il più memorabile esempio di playmaker mai esistito.
Earvin Magic Johnson, classe 1959, 2,05 di altezza e un sorrisso da 360 denti, entrò tra le luci della ribalta nel mondo NBA a soli vent'anni. E già nella stagione da rookie, 1979-80, si fece protagonista di alcuni dei più incredibili momenti della storia.
Campione NBA al primo anno, traghettò i Lakers ad altri quattro titoli nel 1982, 1985 e nel bienno 1987-88. Fu quattro volte MVP delle Finali, ben tre volte MVP della stagione regolare (1987 - 1989 e 1990), due volte MVP dell'All Star Game.
L'era dello Showtime, da lui battezzata, è l'esempio più splendente di un modo di giocare illuminato da un dono. La fantasia, l'estro, il talento del play gialloviola, fecero di quella squadra un esempio favoloso di pallacanestro.
Oggi quei fasti rivivono forse in un altro grandissimo: Steve Nash, MVP 2005 e 2006. Grazie alle intuizioni di uno storico ex regista della Milano anni d'oro, tale Mike D'Antoni, i Phoenix Suns e il loro play canadese mettono in scena ormai da un triennio un gioco fatto di corsa, corsa e ancora corsa.
Giocare a 1000 all'ora, come dice Dan Peterson, è il cuore e la virtù di Steve Nash, il quale non si limita, da genio qual è, a spingere il team, ma si fonde tutt'uno con esso, tanto da riuscire, e questo è un valore aggiunto che ben pochi hanno, a migliorare ogni singolo compagno.
Diverso invece, John Stockton. Il classico uomo medio, 1,85m d'altezza, impostava il gioco nel rigore e nell'ordine impartiti da coach Sloan. Trovare l'uomo libero era cosa alquanto facile, ma è entrato nella storia insieme a Karl Malone, per il celebre Stockton-to-Malone, ossia l'essenza più pura del pick&roll.
Insomma, che si tratti dello Showtime di Magic o della razionalità di Stockton, essere registi è un qualcosa che va interpretato, sviluppato e arricchito con il proprio talento e le proprie doti.
Perché, ricordiamocelo, playmaker non si diventa, si nasce.