NBA Focus – Il Coach

Red Auerbach, il simbolo degli allenatori vincenti NBA

Pochi anni dopo la più felice intuizione della sua vita, quel gioco che doveva tenere in attività  gli scalmanati collegiali della YMCA di Springfield, James Naismith, il professore canadese, ebbe una seconda intuizione e comunicò al suo allievo prediletto, "Phog" Allen, non senza condire le parole con un certo alone di ieraticità  che a un vero Maestro non guasta mai, che questo sport non andava allenato ma bensì soltanto giocato, negando di fatto a una intera categoria, quella degli allenatori , diritto di cittadinanza nel mondo del basket.

Fortunatamente il nostro prof qualche dettaglio l'aveva ben trascurato nella fretta di portare avanti il “Progetto Basket”, però l'idea di base era buona, ma cosa dico buona, geniale, e così altri portarono avanti e perfezionarono il lavoro del canadese.
Primo tra tutti gli innovatori del gioco del basket fu il bidello della YMCA che, stufo di recuperare la palla dalla cesta ad ogni canestro (e non erano tantissimi allora : vi immaginate l'esaurimento nervoso del pover'uomo se alla disputa avessero preso parte due squadre dei giorni nostri votate al “run and gun”?), impose ai convenuti l'asportazione del fondo della cesta, e siccome ciò donava al gioco una dinamicità  nuova, l'innovazione fu benedetta e al simpatico bidello un posto nell'Hall of Fame nessuno si sentì di negarlo.

Capitolo allenatori.
"Quindi, prof il gioco va solo giocato, non allenato; stia a guardare come le disegno il ruolo !".
Parole e musica di Phog Allen, il primo allenatore vincente della storia del basket. Al ruolo di spalla, come Peppino accanto a Totò o Ollio accanto a Stanlio, l'ineffabile professor Naismith, che fedele al suo dettame, andò in panchina a “non-allenare” le sue squadre e collezionò il primo record perdente della storia, un po' come DeCoubertin alle Olimpiadi, ma erano altri tempi; oggi ve lo immaginate Stern a creare un qualcosa disinteressatamente, per il bene del gioco senza prenderne vantaggio personale? Difficile? Dite pure impossibile.

Phog Allen, Frank McGuire, Hank Iba, Bruce Drake: sono nomi che appartengono alla storia del gioco ed ai più sono sconosciuti, però al loro lavoro di creatori, innovatori, sperimentori, si deve se oggi il gioco del basket è così ricco in tattica e strategia. Il tutto partendo da assunti semplicissimi, quali il fatto che per vincere occorre segnare un punto più degli avversari o, se preferite, subirne uno di meno.

E' un po' come la questione della bottiglia piena a metà . Considerarla mezza piena o mezza vuota è questione di filosofia.

I grandi giocatori hanno indubitabilmente reso grande questo gioco ma i grandi allenatori, specialmente quelli di college ed high school hanno donato a questo gioco diverse filosofie interpretative, chiavi di lettura e strategie vincenti. Hanno ideato attacchi e difese di squadra, perfezionato la didattica dei fondamentali, la metodologia di allenamento e conquistato così un posto di primo piano nella storia di questo gioco.

E' il caso di John Wooden a UCLA, Pete Carrill a Princeton, Adolph Rupp a Kentucky, Dean Smith a North Carolina, Pete Carrill a Princeton e più recentemente di Bobby Knight a Indiana e del suo allievo Mike Krzyzewski a Duke. Gente che ha rivoluzionato il gioco dalle fondamenta, rendendolo così complesso eppure così semplice e favorendone l'appeal verso le masse di giovani e giovanissimi di tutto il pianeta.

Ebbene si, caro Prof, il basket si può anche allenare, eccome!!!

Ma anche tra i pro si può allenare questo gioco? O la necessità  di tener conto di tante individualità  differenti rende impossibile fare una proposta tattica di squadra, offensiva e difensiva?

E qui il discorso si complica e le strade si dividono.

Infatti quasi mai i grandi santoni del college sono riusciti a "sfondare" come allenatori dei pro. Molti, in verità , se ne sono ben guardati dal provarci ed i pochi che si sono giocati questa carta (John Calipari da UMass ai Nets e Rick Pitino da University of Kentucky ai Celtics hanno miseramente fallito nel tentativo di riciclarsi coi pro.

Addirittura Pitino ha fallito anche come GM dei poveri Celtics, le cui scelte quantomeno discutibili (accantonamento di gente come Billups, Bowen e Ben Wallace in cambio di brocchi o mezzi brocchi) hanno condannato la franchigia ad altri 10 anni di permanenza nel limbo dei dimenticati.

Il problema non è tanto il gioco quanto le dinamiche personali e del sistema : i giocatori, insomma, i loro agenti, i loro contratti e le loro pretese.

La necessità  di dover convivere con una o più stelle, la cui disponibilità  al sacrificio è di solito inversamente proporzionale alla busta paga, mentre il loro ego è direttamente proporzionale alla stessa, rende difficile escogitare qualche formula vincente che vada bene per tutta la squadra e conseguentemente, se nello sport collegiale prevale l'identità  di squadra e proprio il nome della stessa è scritto sulle maglie, nel basket professionistico prevale l'individualismo, ed è sempre il nome del giocatore a comparire sulle maglie e sulla carta stampata.

Ciò nondimeno, i pro necessitano di essere allenati, di essere guidati ad un obiettivo comune e se il compito è più difficile non è però meno necessario. Spesso il ruolo di allenatore è inteso in maniera più estesa, perché oltre a farla giocare, spesso il coach deve anche "fare " la squadra, ricoprendo anche la carica di gm.

E in questo doppio ruolo è stato maestro negli anni 60 Arnold "Red" Auerbach, artefice dei successi a ripetizione dei Boston Celtics di Bill Russell e Bob Cousy ; nel decennio successivo Auerbach e il suo immancabile sigaro si accomodarono dietro la scrivania degli irlandesi, garantendo loro altri venti anni di successi, culminati con la dinastia dei Bird, McHale e Parish.

Capace di grande umanità  coi suoi prediletti, Auerbach è da considerarsi uno degli ultimi allenatori-dittatori, per i modi e il clima a cui costringeva i biancoverdi.

E' indubbio che a chiunque debba farsi seguire da un gruppo di persone, specie se professionisti, occorrono autorevolezza e carisma.
Qualità  di cui Patrick Riley da Shenecktady, NY, già  All-American per la Kentucky di coach Rupp e protagonista perdente (meno male) della famosa partita "5 bianchi contro 5 neri" vinta dai colored di Texas-Western University.

Sulle rive dell'Oceano Pacifico, ha costruito a Los Angeles sul finire degli anni 70 una dinastia che ha poi vinto nel decennio successivo e lo avrebbe dominato se non fosse stata abilmente contrastata da Bird e soci e poi dai Pistons e dai Bulls. Se gli irlandesi del trifoglio puntavano tutto sulla difesa e il gioco di squadra sapientemente orchestrato da Bird, i gialloverdi di Riley erano gli esponenti dello "Showtime", laddove Magic Johnson, Jabbar, Scott e gli altri erano capaci di una pallacanestro ad alta velocità  spettacolare e coinvolgente.

E' però la versatilità  che fa di Pat Riley un grandissimo allenatore vincente. Negli anni di Miami e poi di New York le sue squadre si distinguevano per la durezza difensiva e il gioco controllato, mentre nell'ultima apparizione alla guida della combo Shaq and Wade, il nostro mago ha tirato fuori dal cilindro una via di mezzo tra le due precedenti apparizioni, che tenesse conto della freschezza di Wade, della necessità  di non usurare Shaq per averlo al massimo quando contasse davvero e di esaltare le qualità  di un supporting cast dove Posey, Walker e il fantasioso Jason Williams potessero sentirsi protagonisti. Risultato? Anello, manco a dirlo.

Parlando di anelli è doveroso soffermarsi sul "Signore degli anelli", al secolo Phil Jackson, altrimenti noto come "Coach Zen".

Giocatore professionista di livello non elevatissimo a New York negli anni 70, ma intelligente ed attento conoscitore del gioco, fece in quegli anni la conoscenza con la filosofia Zen, divenendone attento studioso e praticante.

Appese al chiodo le scarpe da basket e allenò nella CBA, lega professionistica di secondo piano rispetto alla ABA e soprattutto alla NBA, cogliendo diversi successi ; però la svolta nella sua carriera avvenne quando accettò come assistente la panchina dei Chicago Bulls, che in capo a due anni divenne sua.

Qui fece la conoscenza coi due uomini coi quali ha condiviso poi tanti successi : coach Tex Winter, inventore dell'Attacco Triangolo (Triple Post Offense) e Michael Jordan, il giocatore che ha reso vincente col proprio talento e il proprio spirito tutto l'insieme.

Ma allora, vi chiederete, se MJ ci ha messo talento e spirito vincente, mentre Winter ci ha messo un attacco disciplinato eppure così libero da esaltare il talento dei giocatori e, aggiungiamo noi, il gm Jerry Krause ci ha messo la propria maestria nello scegliere un supporting cast di vere stelle, Pippen e Kukoc tra tutte, cosa ci ha messo di suo il buon Jackson per conquistare i sei titoli che i Bulls hanno vinto assieme?

Lui ci ha messo il suo approccio filosofico alla vita, e non è poco.
La capacità  di controllare al meglio l'emotività  del gruppo che è risultante dell'emotività  dei singoli, di apporre i giusti cambiamenti quando occorreva, di dare la possibilità  a ciascun giocatore di esprimere sé stesso nel gruppo.
Lui ha fatto capire a tutti che il ruolo dell'allenatore, nei pro, si estende ben oltre il confine del campo, della seduta o della gara. Lui è stato capace di entrare nel cuore e nella mente dei suoi giocatori, creando un gruppo coeso in cui la fiducia reciproca è stata la base di tanti successi.

Come Riley, ha saputo ripetersi anche altrove e ha difatti vinto tre titoli anche a Los Angeles, prima che la coppia Kobe Shaq scoppiasse defraglando rumorosamente. Anche qui delle star vincenti, il fido Winter e lo Zen. Al momento Jackson sta cercando di formare un nuovo nucleo vincente ai Lakers e sebbene appaia ben lontano dalla meta, complici i capricci della superstar Kobe Bryant, le sue indubbie capacità  di leader fanno ben sperare quelli che hanno nel cuore i gialloviola.

Se volete un altro ritratto di indubbio vincente non possiamo che soffermarci su coach Gregg Popovich, un passato nella CIA (non è una nuova lega ma una vecchia e alquanto discussa agenzia spionistica americana), dopo il quale ha deciso di dedicarsi a qualcosa di più tranquillo e così ha preso il comando dei San Antonio Spurs, che ha portato a 4 titoli in dieci anni, non male per uno che sembra aver detto "Vabbè adesso basta con 'sti spioni qua, ora mi prendo una pausa : vediamo come passare il tempo…mare…golf…ma si, dai, alleniamo gli Spurs…".

Scherzi a parte, una delle note peculiari di questo coach è la imperturbabilità , il suo autocontrollo, che sono divenuti proverbiali e lo hanno aiutato a gestire personalità  alquanto focose in maniera assolutamente esemplare. Ma le capacità  e le idee non gli mancano di certo.

Ha saputo trarre da Duncan il massimo, cambiandogli ripetutamente ruolo, ha scoperto la via europea, tirando fuori dal cilindro prima Ginobili e poi Parker, ha donato una seconda (o terza, o forse addirittura quarta) giovinezza a nonno Horry, trasformandolo in una arma tattica di inimmaginabile efficacia, ha saputo costruire un nucleo che, solo ritoccandolo qua e là , gli ha permesso di essere ai vertici per gli ultimi dieci anni e la fiaba non pare ancora all'epilogo.

Il basket è vario, come il mondo e così anche tra gli allenatori NBA ci sono dei profili particolari.

Don Nelson è il coach che ha consacrato il run and gun, gare sempre a punteggi altissimi e chiamate pure "Chi l'ha visto?" se cercate notizie della difesa. Amatissimo dai giocatori (ma dai?…), non è però mai riuscito a fare di questo sistema un sistema vincente, forse perché assecondando senza guidarlo il talento dei giocatori si fa fatica ad andare lontano e prevale una pallacanestro individualistica spesso fine a sé stessa.

Ci sta riprovando ora con Golden State e seppur non vincente, il basket di coach Nelson è però divertente e coinvolgente, chiedetelo ai 22 mila spettatori fissi ad ogni partita dei playoffs degli Warriors, che seppure eliminati, sono di certo tornati a casa contenti… .

C'è un coach per cui un articolo da solo non basterebbe. Chiedete a Federico Buffa che nel suo libro "Black Jesus Anthology" ha dedicato diversi capitoli a raccontarne la storia. Per comodità  e soprattutto spazi vi rimando ad esso. Leggetelo perché ne vale la pena e non solo per i capitoli sul coach in questione.

Il coach di cui parlo è Larry Brown con la sua carriera tra università  e professionisti. Inutile citare quali squadre pro che ha allenato. Quasi tutte. La sua alma mater ? North Carolina. Le volte che ha cambiato squadra in corsa ? Innumerevoli. I suoi successi? Finale NBA con Philadelphia e Allen Iverson, forse il giocatore con cui ha instaurato il legame più profondo (il che non gli ha impedito di licenziarlo e licenziarsi svariate volte in quegli anni…), titolo con Detroit e finale l'anno successivo sempre con Detroit.

La sua filosofia ? “My way or highway”, come a dire : se non ti sta bene quello che ti dico, fuori dai piedi (e spesso ha anticipato la scelta dell'interlocutore di turno chiedendone la testa al gm o instradandolo verso uno scambio salvo cambiare spesso avviso nel giro di una nottata).

Forse l'unico allenatore di college che ha saputo imporsi nei professionisti, forse una delle menti cestistiche di maggior valore in circolazione, di sicuro un uomo dalle mille contraddizioni e forse per questo ancora più affascinante, benché una certa carica autodistruttiva che è insita in lui lo abbia spesso condizionato negativamente, impedendogli di raccogliere i successi che le sue capacità  renderebbero possibili. Un'anima senza requie che ora, ritiratosi, forse potrà  trovare, a meno che si possa assistere ad un suo nuovo ritorno, e non sarebbe la prima volta…ci sta nel personaggio.

Impossibile infine non citare Larry Bird che, dopo aver smesso i panno di “Legend”, ha allenato i Pacers sul finire del millennio, meritando il titolo di Allenatore dell'Anno, dopo aver riportato Indiana nei playoffs dai quali mancava da tempo immemore.

Calmo, misurato, umile e però deciso, pronto a mettersi in gioco in prima persona ma capace di lasciare il palcoscenico ai suoi giocatori, è l'esempio di come un coach dovrebbe comportarsi ed è un peccato che problemi di affaticamento cardiaco lo abbiano costretto a lasciare, benché Larry abbia sempre visto sè stesso come un giocatore e non come un allenatore.

Il suo contributo al basket in questo poco tempo trascorso sulla panchina è però etico e a mio personale avviso grandissimo, avendo dimostrato quale debba essere il posto dell'allenatore, più simile a quello del regista cinematografico, che non appare e rifugge le luci della ribalta, che a quello dell'attore, sempre protagonista e al centro dell'attenzione del pubblico.

Pur essendo sbagliato in assoluto, quindi, l'assunto del Professor Naismith in questo aveva colto nel segno : il basket è soprattutto un gioco per giocatori. Arbitri ed allenatori rivestono un ruolo accessorio. Importantissimo e necessario, però comunque accessorio. Che piaccia oppure no.

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