TWolves: l’era post-atomica

Green, Jefferson, Gomes e Telfair, più Ratliff. Linfa nuova a Minneapolis.

E così è successo.
Kevin Garnett ha lasciato Minneapolis. Se n'è andato dai Minnesota Timberwolves, la franchigia che lo aveva scelto dal liceo di Farragut, Illinois nel 1995 e che finora erano stati sinonimo, per lui, di NBA.

Escludendo le prime stagioni (1989-95), se si parlava di TWolves ci si riferiva ad un solo giocatore, colui che aveva alzato il livello della squadra sino alla Finale di Conference del 2004, facendo sognare una città  che non viveva basket a così alti livelli dai pionieristici tempi dei Lakers di Mikan.

E' anche vero il contrario, ovvero l'incapacità  (escluso quel benedetto 2004, quando Garnett fu anche MVP) di "The Big Ticket" di portare Minny oltre il primo turno dei playoffs, nonostante un supporting cast non sempre di basso livello: Gugliotta e Marbury, Brandon e Szczerbiak, Cassell e Sprewell.

Ma non è il caso di fare la volpe con l'uva: Garnett rimane un signor giocatore, probabilmente una delle più forti ali della storia della Lega (di certo il miglior rimbalzista ora in circolazione), e perderlo significa aprire una voragine nella squadra in termini tecnici (punti, rimbalzi, assist, stoppate, recuperi) e non solo, considerando la leadership che ha portato KG a diventare il vero simulacro dello sport nel Minnesota.

La voragine la si può riempire con pazienza, talento e fortuna, cominciando magari dalla merce arrivata da Boston in cambio di Garnett: Al Jefferson, Gerald Green, Ryan Gomes, Sebastian Telfair e Theo Ratliff, oltre a due prime scelte future (una nel 2009) e un compenso pecuniario.

Ovviamente paragonati uno ad uno al nativo della South Carolina i giocatori ex-Celtics non reggono, ma nell'insieme pare una trade non così disastrosa per i Lupi di Kevin McHale (ex leggenda proprio di Boston e attuale GM di Minnesota) come invece si pensava al solo menzionare KG lontano da "casa".

Cominciando da Theo Ratliff, un "must" della trattativa, grazie al suo mega-contratto in scadenza: l'ex Detroit, Phila, Atlanta e Portland, 34 anni suonati, nell'ultima stagione ha giocato solo 2 partite ed è pronto ad una stagione da vivacchiare in attesa che scada il suo accordo da 11.7 milioni di dollari.

La rifondazione di Minnesota passa anche dallo spazio salariale che fra una stagione Big Theo libererà , oltre che ad un discreto numero di scelte arrivate dal Massachusetts (due da primo giro, di cui una tornata indietro dall'affare Szczerbiak-Davis).

Parlando di futuro, un giocatore dalle prospettive rosee arrivato nel Minnesota è sicuramente Gerald Green, ventunenne ma già  con due anni di NBA alle spalle. Partito titubante nella stagione da rookie, l'ex numero 5 dei Celtics (casacca lasciata proprio a Garnett) ha saputo raddoppiare le proprie cifre nell'anno appena trascorso: da 11 a 22 minuti a partita, da 1.3 a 2.6 rimbalzi, da 0.6 a 1.0 assist, da 5.2 a 10.4 punti.

Una progressione decisamente interessante per l'ex high schooler del Texas, vincitore tra l'altro dell'ultima gara di schiacciate dell'All-Star Game a Las Vegas. Se di highflyer ce ne sono tanti, capaci di sfondare i canestri con violenza, Green aggiunge anche un discreto tiro dalla distanza (38% nell'ultima stagione, con la netta sensazione di costante miglioramento).

Gerald Green potrebbe partire già  da starter, ruolo che comunque gli spetterà  a breve, ma più verosimilmente il posto in quintetto se lo giocheranno il rookie da Florida Corey Brewer e l'anch'egli neo-arrivato Ryan Gomes.

Quest'ultimo, al terzo anno di NBA come Green ma anagraficamente più anziano di 4, è partito spesso in quintetto nell'ultima stagione bostoniana (60 volte sulle 73 partite giocate), facendo registrare 12 punti e 5.6 rimbalzi a sera. Gomes è un buon giocatore, affidabile come molti altri che hanno completato la carriera al college, nel suo caso Providence con la quale è stato anche All-American.

Affidabile invece non è proprio l'aggettivo adatto a descrivere Sebastian Telfair.
Classico esempio di playmaker da Grande Mela, il cuginetto di Stephon Marbury viene dalla sua prima (e fino ad ora ultima) stagione in biancoverde, in cui ha fatto notevoli passi indietro dai due anni nel caos di Portland. Scelto dai Blazers nel 2004 (rinunciando a giocare per Louisville, l'ateneo allenato da coach Pitino), "Seba" ha scritto due stagioni così così nell'Oregon, arrivando comunque ad un passo dalla doppia cifra di media-punti.

Un caratterino non facile ed una serie di amicizie nel mondo gangsta rap non aiuteranno di certo Telfair a strappare a Foye il ruolo di point guard titolare a Minny. L'arrivo di Telfar ai Wolves sa tanto di "pacco postale", un' ottima mossa dei Celtics che si sono liberati di un giocatore scomodo (pizzicato per la seconda volta in poco più di un anno in possesso di armi da fuoco, mentre guidava con patente sospesa) senza dover rinunciare a quello che è il loro miglior playmaker, Rajon Rondo, spesso inserito nelle voci riguardanti la trade per Garnett.

Ma il giocatore preteso da Minnesota, quello su cui si fa più affidamento è Al Jefferson. 22 anni, alla quarta stagione in NBA, "Big Al" era la pietra angolare dei verdissimi Celtics, l'uomo su cui si basava la nidiata di talentini di Coach Rivers.

Reduce dalla sua miglior stagione, in cui ha scritto 16.0 punti e ben 11.0 rimbalzi di media a partita, Jefferson diventa ora la stella dei Timberwolves. Frenato nei primi due anni dall'inesperienza e da qualche acciacco, l'ala forte del Mississippi può definitivamente esplodere, imponendosi come un fattore in area pitturata, essendo già  di fatto nella top ten dei rimbalzisti della Lega, oltre che un intimidatore da non sottovalutare (1.54 stoppate a sera). Può giocare da ala grande e all'occorrenza da centro e con Blount può formare un discreto tandem sotto canestro.

Come ne esce Minnesota da questi vorticosi giorni?
Meno peggio del previsto, decisamente. Il quintetto ipotizzabile è quello con Blount, Jefferson, Brewer, Davis e Foye, con in panchina gente come Green, Gomes, Jaric e Madsen.

Realisticamente discreti, ma non ancora da post-season. Certo con Rondo al posto di Telfair la trade sarebbe stata decisamente ottima per i Wolves, ma evidentemente o Ainge non ha ceduto o McHale e Randy Wittman, il coach, vogliono puntare forte su Foye in point guard.

La rifondazione è cominciata.
L'era post-Garnett parte dai vecchi giocatori e da un'infornata di giovani talenti (non dimentichiamo che sono arrivate anche due prime scelte per i prossimi due Draft) che, allevati con calma e perizia, possono portare nel giro di un lustro i Timberwolves di nuovo nelle zone calde della Lega.

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