Sembra sopita la proverbiale grinta di Kevin Garnett
Solito piacevolissimo botta e risposta tra Flavio Tranquillo e Federico Buffa durante una partita dei T'Wolves:
"Flavio, ma questo strano mammifero che sta chiamando lo schema d'attacco, è lo stesso che, nell'azione precedente, in difesa ha stoppato con recupero incorporato? Ma stiamo scherzando?"
"Eh sì, proprio così: Kevin Garnett, appunto, il vostro abituale play di 2m10."
Kevin Garnett sostanzialmente è questo, ovvero un giocatore che, fin dalle prime orme rilasciate su di un parquet NBA, ha dato subito la sensazione di essere un esemplare tecnico completamente fuori dalla norma per la sua capacità pressoché unica di saper unire le proprietà balistiche tipiche di un esterno alle doti intimidatorie e di rimbalzista di un lungo di 2m10: uno "sguardo al futuro", come viene definito il monumentale Ivan Drago in "Rocky 4", un "raggio di luce" che fin dal suo primo anno ha saputo illuminare di purissima tecnica e di miracolosa coordinazione il pianeta NBA, proponendo una interpretazione del gioco del tutto inusuale per sintesi di caratteristiche tecniche e profondità nella visione del gioco.
Ma le capacità balistiche di Kevin sono solo la metà del fascino che il talento di Mauldin (South Carolina) ha saputo esercitare sul mondo PRO e su quello cestistico in generale: l' altra metà consiste nel suo spirito agonistico, nel suo animus pugnandi, nella capacità e nella volontà di saper trascinare la sua squadra; in una parola, nel suo essere un leader.
E la leadership di "The Big Ticket" è sempre stata di primissimo piano, perché imperniata sui fatti, e non sulle parole o sulle belle frasi da recitare davanti alle telecamere ma che non trovano poi corrispondenza in campo: Garnett esprime la sua guida spirituale e tecnica attraverso l' intensità di ogni suo allenamento, la consistenza precisa ed essenziale di ogni sua giocata, la voglia di sacrificarsi e di soffrire con grande umiltà prima di tutto in difesa che in attacco, quando invece il fatto di essere il fuoriclasse riconosciuto del gruppo potrebbe giustificare in lui qualche pausa di rilassamento o presunzione.
Una leadership, quella di Garnett, che si è sviluppata e si è approfondita nel corso della sua, ormai lunga, carriera NBA (la prossima stagione sarà la dodicesima) e che di fatto è stata la logica conseguenza di una maturità e di una solidità mentale che si sono potute notare fin dal suo anno da rookie: il giocatore non era ancora ventenne, proveniva direttamente dalle high schools (Farragault HS, la stessa di Ronnie Fields tanto per intendersi), ma già in lui si potevano intravedere con una certa evidenza le stimmate del leader (il g.m McHale su K.G. al primo anno: "È così maturo, vuole in continuazione delle responsabilità , e più gliene dai e più ne vuole.").
Purtroppo la sua presenza e la sua influenza carismatica verso i compagni, negli ultimi due anni, non è che sia sparita (sarebbe decisamente improprio dirlo) ma, questo sì, si è assopita, si è un po' spenta, non è più travolgente e inebriante come prima.
È un aspetto questo, che si coglie sicuramente non dai numeri che rimangono di assoluta eccellenza (22.4ppg, 12.8rpg e il 48% dal campo nella stagione appena conclusa), ma dai quei piccoli particolari che, in precedenza, di Garnett facevano traspirare tutta l' aggressività , la voglia di vincere e il desiderio di comunicare tutto questo questi ai compagni: fino a qualche tempo fa, K.G. "sgonfiava il pallone" quando conquistava il rimbalzo con la sua proverbiale e perfetta tecnica a tenaglia, poteva incenerire con un semplice sguardo un compagno reo di non essere riuscito a passare attraverso un blocco (famosi ormai i suoi scontri in allenamento con Szczerbiak), urlava dopo un canestro decisivo.
In definitiva, il carisma e la personalità di un vincente o di una persona superiore alla media, in qualsiasi ambito, si legge anche in queste sfumature: la capacità di coinvolgere chi sta attorno, di trascinare, di comunicare uno spirito positivo e di far trasudare tutta la propria mentalità da ogni singolo gesto.
Ora , invece, questo furor agonistico è venuto un po' meno: gli occhi di Kevin sono meno rabbiosi di una volta, e lo stesso giocatore in più circostanze ha dato la sensazione di farsi travolgere dagli eventi più che di volerli aggredire. E il motivo di "questa pace interiore" sta nel venir meno di quel teorema che gli antichi latini avevano posto come condizione essenziale dei rapporti umani ma, che per estensione, si può applicare a qualsiasi rapporto a due: "do ut des", dò affinché tu mia dia.
Un rapporto o, nel caso specifico, una collaborazione, si fonda infatti sulla capacità di sapersi coinvolgere, motivare e stimolare reciprocamente: da qui nascono l' entusiasmo e la gratificazione, ma il contributo deve essere necessariamente biunivoco, pena la fine di tutto.
Un matrimonio sportivo, come quello tra Garnett e i Wolves può finire per due motivi: o per quella sorta di appagamento che interviene dopo aver vinto tanto e che spinge i due partner a separarsi per trovare nuovi stimoli, oppure per incompatibilità , perché uno dei due non soddisfa l' altro. E nel caso di K.G., la spiegazione è decisamente la seconda: Garnett in questi anni ha dato tanto, tantissimo ai Wolves, ma la dirigenza purtroppo non ha saputo improntare un piano per consentire al suo fuoriclasse di competere in maniera credibile e con continuità per il titolo.
Insomma, in questa che si preannuncia essere una litania estiva di voci di atleti che reclamano la possibilità di conquistare i vertici della LEGA e che fanno questo in nome di un DIRITTO che nello sport prende spesso il nome di CLASSE o TALENTO, la situazione di Garnett merita sicuramente un'attenzione speciale.
Il "caso K.G." forse è stato meno pubblicizzato ed ha fatto meno clamore di quello di Bryant: Garnett, per quanto straordinario, difficilmente accumula gli exploits individuali di Bryant, e non ha il suo stesso impatto mediatico ma, soprattutto, in perfetta sintonia con quelle che sono le loro differenze caratteriali, l' insoddisfazione e la polemica di K.G. contro la sua società è stata, per quanto profonda e sentita, comunque più contenuta nei modi rispetto a quella di Bryant.
Tuttavia la rottura tra Garnett e i Wolves è, per certi versi, persino più clamorosa di quella verificatasi in ambito losangelino: in tempi non sospetti si affermò come Bryant, in forza di uno stile di gioco spettacolare, appariscente, spesso più fine a sé stesso che funzionale a logiche di squadra, ma anche di un carattere con aspri accenti di egoismo e egocentrismo, rappresentasse l'essenza e il "life style" di Los Angeles. Tuttavia se Bryant è i Lakers e ad essi ha legato per ora tutta la sua carriera, non è valida invece l' equazione inversa poiché i Lakers, nella loro storia, "sono anche Bryant", ma il talento di Philadelphia non è che una pagina della loro storia enciclopedica.
Viceversa, il binomio Garnett-Minnesota è tanto inscindibile quanto reciproco: da un lato Garnett ha trascorso, per ora, tutta la sua carriera da PRO a Minny, ma dall' altro lato tutti i principali record di franchigia sono stati scritti da lui. In definitiva: se Garnett è i Wolves, a maggior ragione la franchigia si identifica quasi del tutto in lui.
È stato un matrimonio lungo, durato 11 anni, tanto lungo da sembrare interminabile e che per molti romantici rappresentava la conferma che nel mondo dello sport, per quanto travolto dalla mentalità capitalistica e del denaro, sopravvivono intatti ancora valori morali come ad esempio i "giocatori simbolo" di una squadra; tuttavia, come detto in precedenza, se mancano gli stimoli, anche il rapporto apparentemente più saldo è destinato a disintegrarsi miseramente. E in questo caso, per Garnett, stimolo è sinonimo di vittoria, di possibilità di lottare per l'anello:
Se non stai lavorando per vincere il titolo, che senso ha rimanere in un certo tipo di situazione? Io sono qui per vincere, non per tornare a parlare ogni anno dell' anno successivo. Ho 30 anni. Posso disputare probabilmente ancora 4 o 5 anni ad alti livelli. Sai cosa ti dico? Che il mio orologio sta facendo tic-tac, i miei anni sono limitati.
Parole dure, inequivocabili, che non lasciano spazio ad interpretazioni personali, e che racchiudono da un lato l' ansia di chi sente lo scorrere inesorabile del tempo e che, per questo, sente ancora più inesorabilmente diminuire le proprie opportunità di vittoria; ma dall' altro una dura invettiva contro la propria dirigenza che non ha saputo muoversi in maniera adeguata per costruire un team di alto livello.
In fin dei conti, i fatti danno ampiamente ragione al giocatore: solo nella stagione 2003/04 i Wolves hanno rappresentato una possibilità credibile per il titolo quando, con l' acquisto dei free-agent Sam Cassell e Latrell Sprewell, Minnesota ha raggiunto la finale della Western Conference, persa poi 4-2 contro i Lakers di Bryant e O'Neal. Per il resto, tanti errori o "nulla di fatto" in sede di mercato dovuti sia ad una scarsa lungimiranza nella comprensione del reale valore di alcuni giocatori, sia ad inefficaci opere di convincimento per firmare free-agent o trattenere i talenti di casa: la dirigenza non è riuscita a trattenere per esempio Marbury (che comunque non accettava la leadership di Garnett) fuggito poi ai Nets, ha fallito completamente alcuni scambi come quello Cassell per Jaric, e nel draft 2003 ha scelto con il n. 26 l' high schooler Ndudi Ebi, quando con il 29 i Mavs scelsero Josh Howard in uno dei più grandi "steal of the draft" di sempre.
A questo, per sovramercato, si aggiunga pure che nemmeno la città di Minneapolis, con il suo clima e la sua configurazione sociale, aiuta la dirigenza in sede di mercato.
Minneapolis è famosa storicamente per i suoi laghi tanto che nell' area cittadini si possono numerare sino a 24 piccoli laghi ("Minne" nel linguaggio lakota significa "acqua", appunto), ma il suo clima invernale è piuttosto rigido e inclemente; ulteriormente, in diversi momenti del Novecento (anni '20/'30, ma anche anni '90) la città è stata caratterizzata da gravi problemi legati al crimine organizzato, alla malavita e alla violenza.
"Murderapolis": è questo il soprannome poco edificante che la città di Minny ha acquisito nel corso del secolo scorso e dovuto proprio all' altissimo numero di omicidi. In seguito l' amministrazione del posto ha cercato di prendere provvedimenti legali ed educativi, ma ancora oggi, nonostante qualche tenue miglioramento, Minneapolis è una delle città d' America con i più accentuati fenomeni di segregazione razziale tra bianchi e neri e con il più alto tasso di povertà tra i neri.
Come evidente, il "fascino" della città è piuttosto sinistro, discutibile, e difficilmente rappresenta uno dei motivi principali per cui un free-agent di nome decide di infilarsi la stessa maglia di Garnett: difficile essere invogliati dal freddo di Minneapolis, quando si può tranquillamente optare per il caldo di Orlando, il lusso di Los Angeles o i riflettori di New York.
Con i Wolves, si firma per due motivi: o per trovare più minutaggio che altrove, o perché ci sono solide basi per vincere. Chi cerca più minutaggio difficilmente è un free-agent che possa fare la differenza; di solide basi per vincere ce ne sono state solamente nel 2003-04 ma, a ben vedere, si è trattata di una stagione isolata.
Kevin Garnett, in definitiva, non ha più alcun buon motivo per continuare il suo rapporto con questa franchigia ed ha deciso di andarsene per vagliare contesti più competitivi e credibili. È solo una questione di tempo: il giocatore è legato alla società con un contratto che scadrà nel 2008-09 (primo contratto da 126mln per 6 anni firmato nel 1997, ulteriore estensione di 100mln firmata poi nel 2003), per cui o se ne andrà quest'estate attraverso qualche mega scambio o la prossima da free-agent di extra-lusso.
Kevin McHale, il g.m della società , ha ovviamente reiterato la propria convinzione e la propria ferma volontà di trattenere il giocatore:
Escludo categoricamente che Kevin possa essere inserito in qualche scambio: è il nostro giocatore più importante, è la pietra miliare di questa organizzazione. Certo che se qualcuno dovesse offrirci la luna per lui, allora"
Nelle parole del dirigente si condensano i problemi più spinosi di questa vicenda. Innanzitutto, il bivio fondamentale cui si trova di fronte un dirigente in situazioni di questo tipo: scambiare un giocatore, sfruttandone tutto il suo valore di mercato, per acquisire un sostanzioso pacchetto di giocatori con cui rifondare la squadra, oppure trattenere il proprio fuoriclasse contro volontà e perderlo l'anno successivo in cambio di nulla? Tanto ormai è chiaro, a meno di dietrofront clamorosi da parte del giocatore, che Minnesota la prossima estate ha possibilità praticamente nulle di rifirmare "The Big Ticket""
In secondo luogo, dato lo straordinario valore tecnico del giocatore e l' entità altrettanto corposa del suo contratto, quale squadra potrebbe decidere di smantellare il proprio roster quest'anno per avere Garnett subito, piuttosto che aspettare un altro anno e firmarlo il prossimo in qualità di free-agent?
Terzo: visto che quest'anno Garnett è acquisibile solo attraverso una mega trade di mercato, quale squadra ha realmente le risorse tecniche per acquistare il fuoriclasse di Minneapolis? E chi potrebbe assumersi il rischio di cedere tanti giocatori o un solo fuoriclasse per un altro fuoriclasse (scambio alla pari) con tutti i problemi di amalgama che deriverebbero da cambiamenti così clamorosi?
Intanto però i rumors di mercato si sono scatenati in maniera a dir poco frenetica perché è inevitabile che la possibilità di acquisire un fuoriclasse del genere stuzzichi la fantasia e i progetti di vittoria di tante franchigie.