Focus: Baron Davis – Part II

Baron Davis ai tempi di UCLA

La storia di Baron Davis, per molti versi, ricorda quella raccontata da Italo Calvino nell' omonimo romanzo dal titolo "Il barone rampante" (1957), in cui il giovanissimo nobile Cosimo, a causa di una adolescenza irrequieta fatta di litigi e contrasti, fugge per vivere da solo su di un albero: inizialmente, agli occhi di tutti, appare un semplice fenomeno da baraccone, ma in seguito, l' esperienze e le grandi personalità  incontrate nel corso della sua vita, permetteranno al bizzarro protagonista di conquistare una dignità  e un'importanza che gli conferiranno grande rispetto da parte di tutti.

Cos'hanno in comune il barone "letterario" e quello "cestistico"?
Innanzitutto la nobiltà  che, tuttavia, se per Cosimo, è una nobiltà  familiare, per Davis ovviamente è quella strettamente tecnica; in secondo luogo il percorso di vita, che progressivamente ha portato entrambi i protagonisti a scrollarsi l' ingombrante etichetta di "individuo fine a sé stesso e completamente avulso da qualsiasi contesto e regola", fino a conquistare una superiore dignità  umana nel caso di Cosimo, o a diventare persino il leader di un gruppo nel caso di Davis.

La nobiltà  o, per lo meno, la tranquillità  familiare per Davis è un aspetto invece molto più spinoso: il nucleo familiare del Barone è persino peggiore di quello classico afro-americano, perché non solo è assente la figura del padre, ma pure la madre risulta persona dalla dubbia affidabilità .

Baron quindi viene allevato dai nonni, e in particolare dalla nonna Madea (spesso inquadrata durante la serie contro i Mavs) che, dopo la morte del nonno Luke, risulterà  la guida spirituale di tutta una vita.

D'altra parte, che Baron Davis fosse una persona speciale fin da ragazzino e possedesse già  naturalmente le stimmate del fuoriclasse e dell' individuo che poi, in un modo o nell' altro, è destinato ad emergere o a far parlare di sé, era un dato di fatto evidente fin dall' infanzia, soprattutto se il mentore è nientemeno che Earvin "Magic" Johnson.

I complimenti che l'ex-gialloviola ha rivolto al Barone in occasione dell' Apocalisse inflitta nel primo round di play-off ai Mavs, hanno idealmente rievocato gli sguardi di ammirata attenzione che sempre Magic rivolse al Barone, allora dodicenne, durante un provino svoltosi nel Gymnasium di U.C.L.A: era una specie di try-out per i migliori adolescenti della California, e i complimenti che Magic rivolse al Barone (Barone: "Ad un certo punto arrivò Magic e mi disse: "Hey Baron, mi piaci, puoi aspettare un minuto, mi conosci?"), se da un alto rappresentavano una "mini-investitura", dall' altro lato consolidarono la grande consapevolezza di sé che Davis già  possedeva in precedenza e che poi maturerà  ulteriormente alle high-schools.

Non casualmente, a Crossroads, dove il Barone frequenterà  le high-schools, uno dei temi preferiti da Davis era su come avrebbe investito i soldi guadagnati con il basket: non solo sport, ma anche molte e intense attività  sociali per soddisfare questo profondo desiderio personale di aiutare i meno fortunati. I professori tendevano a snobbarlo, ma i riconoscimenti (McDonald's All American) e i titoli vinti (Gatorade player of the year) gli diedero inevitabilmente ragione.

Per chi è nato a Los Angeles, South Central, in California, il fascino dei Bruins (U.C.L.A) non può non esercitare un'attrazione fatale, praticamente irresistibile: la scelta dell' Università  fu di conseguenza un corollario inevitabile.

Le sue due stagioni con i Bruins furono in sé stesse eccellenti (13.6ppg e 5.1ass) tanto da diventare un primo quintetto All-American nel suo anno da sophmore; tuttavia continuarono a serpeggiare alcuni dubbi su di lui, sia di natura tecnica che fisica.

Dal punto di vista tecnico, il Barone già  allora era considerato una delle point-guard più talentuose e potenti della nazione (dice uno scout di allora, in previsione draft: "È un vero atleta da NBA, sembra costruito come un giocatore da NFL; è un realizzatore terrificante da ogni punto del campo, può portare chiunque in post-basso, ti uccide in transizione, ed ha forza e mani grandi per difendere"), ma la sua razionalità  nelle scelte e soprattutto nella shot-selection apparivano ancora assai sospette (sempre lo stesso scout: "Nella prima parte di stagione ha tirato in maniera terrificante da fuori, tanto da ricordare Reggie Miller, ma, nella seconda parte, le sue statistiche sono scese e lui ha continuato a tirare sempre e comunque; anche in difesa non sa limitare la sua aggressività  nemmeno quanto ha problemi di falli. Il suo vero problema è il self-control" ).

La questione tecnica ne sottendeva poi una di tipo caratteriale: l' incapacità  di rientrare in certi schemi, in un sistema collettivo e con un' innata predisposizione a metter sé stesso e la sua natura davanti a qualsiasi logica di squadra: insomma la classica condizione esistenziale di ogni fuoriclasse che in virtù di un talento fuori dal comune tende a violare le leggi per promuovere e imporre invece la "legge di sé stesso".

Ma quello che ha alimentato i dubbi su di lui e che, secondo i maligni, gli avrebbe persino fatto perdere qualche posizione nel Draft 1999 (3° pick dagli Hornets) è stato quel maledetto ginocchio destro (cartilagine) che in qualsiasi momento poteva mettere in discussione tutta la sua forza esplosiva. Cartilagine che, pur in una modesta stagione da rookie (5.6ppg"), non ha impedito al Barone di affondare in testa a Kevin Garnett una delle più terrificanti schiacciate degli ultimi anni; il tutto condito da precedente rimbalzo difensivo e personalissima interpretazione del coast-to-coast.

Furono soprattutto però gli anni successivi a mostrare con più continuità  il potenziale del giocatore: media punti in costante crescita (top i 22.9ppg del 2003-04), un talento e una forza fisica praticamente debordanti, che lo portarono nel 2001-2002 a toccare i vertici in maglia Hornets: prima convocazione all' All Star Game, poi in estate con USA Team per i Mondiali di Indianapolis.

In quell'anno cominciarono anche i suoi problemi, legati ad un carattere non sempre malleabile e che difficilmente sopporta di stare lontano dalla luce dei riflettori: furono soprattutto quei maledetti Mondiali estivi a condizionare la sua immagine.

Quella sporca dozzina che portava la maglia USA Team e che portò a termine una delle spedizioni più fallimentari nella storia del basket americano, perdendo imbattibilità  (contro l' Argentina) e onore (solo 6° posto!!), scatenò logicamente il "j'accuse" dei critici più feroci: in particolare Paul Pierce (tra l'altro grande amico del Barone, anche lui nativo delle zone di Los Angeles) e Baron Davis vennero aspramente criticati per il loro carattere presuntuoso, da prime donne.

Per di più come spesso accade, quel momento negativo sembrò proprio l' ideale per esasperare il tutto ed mandare ulteriormente a nozze chi criticava (anche a ragione) alcuni aspetti tecnici del Barone: la mancanza tipica in tanti giocatori americani di un valido mid-range game, in parole povere, arresto-e-tiro da i cinque/sei metri. Il Barone divenne quindi un simbolo, l' icona di una situazione tecnica e morale che stava caratterizzando i giovani virgulti dell' NBA: giocatori viziati, indisciplinati, portatori di una morale distorta e per di più carenti sul piano tecnico. Il Barone era uno dei simboli poco incoraggianti di quella che poi venne ribattezzata come X Generation.

Continua…

Rileggi qui la prima puntata del focus:
Focus: Baron Davis – Part I

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