Kevin Garnett, con lui inizia la rivoluzione dei liceali subito nella NBA.
In questi giorni di follia marzolina l’attenzione degli appassionati di basket è spostata sul meraviglioso mondo della NCAA. Così tra pronostici, Cenerentole e bande di allegri ragazzi con la tromba si scorgono più vivamente alcuni dei futuri campioni della NBA.
Quest’anno sono due i nomi sulla bocca di tutti, Greg Oden di Ohio State, centro di devastante forza fisica, e Kevin Durant di Texas, ala di 2,05 dal talento offensivo disarmante. Sono tutti e due ragazzi del 1988, ovvero di 19 anni d’età .
Per la NBA possono già fare il grande salto perché in norma con le nuove disposizioni della NBA. I ragazzi che vogliono passare professionisti prima di finire la carriera universitaria canonica (4 anni) devono o aver compiuto i 19 anni d’età al momento del draft (ma Durant è di settembre) oppure aver trascorso almeno un anno di college.
Greg Oden e Kevin Durant sono allora i primi grandi protagonisti di una nuova generazione di giocatori NBA, di tutti coloro ai quali è stato inviso il passaggio diretto dalla high school alla NBA.
E’ finita apparentemente un’era. E’ passata la generazione dei liceali.
Molti di voi avranno sicuramente visto lo splendido film di Spike Lee (mio regista vivente preferito) “He Got Game”, con Ray Allen nel ruolo del protagonista di nome Jesus. Ricorderete che il promettente ragazzo, appena finito il liceo, si ferma a pensare al suo futuro.
College ? E se sì quale college ? Passaggio diretto nella NBA ? E se sì meglio subito ingaggiare un agente ? Ogni ragazzo che ha appena finito il liceo entra in quella effimera fase della propria vita dove gli sembra stia decidendo una volta e per sempre il suo futuro.
E’ un fase delicatissima, che ogni liceale ha vissuto in maniera diversa. E’ una fase così importante per ognuno di noi (oddio, non per chi non ha finito il liceo e non sono pochi”) che sono usciti anche un paio di film, “Notte prima degli esami”, a testimoniare le ansie, le paure ma irreprensibilmente sulla stessa moneta anche tutta la passione e i sogni di gloria che un ragazzo prova in questo periodo.
Ti sembra che si sia chiuso un mondo e se ne stia aprendo un altro. E allora i ricordi, le nostalgie, le paure ma le incertezze e ancora le speranze che il nuovo mondo che stai scegliendo ti può regalare.
Immaginate, o meglio, trasportate col ricordo la vostra esperienza personale su uno di questi ragazzi che a basket sanno giocare fino al punto di credere di potercela fare subito.
Dalla high school alla NBA, un passaggio che non c’è più. E non c’è più forse un’intera generazione di talenti.
Per inciso, io sono nato nel 1985, due mesi dopo LeBron James, eroe della sua generazione. La mia generazione allora, andando oltre il basket, è ancora immatura, è quella che da adolescente ha dovuto subire il trauma di due torri che crollano nel cuore della più grande città del mondo, è quella generazione “a cavallo” tra l’epoca di VHS e Floppy disk e quella di Internet, Youtube dei video ovunque, SKY mille canali.
La generazione d’inizio Terzo Millennio. Mai passaggio di calendario fu tanto reale. Dagli anni ’90 al 2000 è cambiato tutto, traumaticamente dal 2001 siamo usciti con un mondo nuovo, non necessariamente migliore.
Nel basket però un ventenne va più presto al potere, e allora possiamo dire che LeBron James è stato l’ultimo travolgente acuto di quella generazione che il college lo vedeva solo con un’inutile perdita di tempo prima della gloria e di tanti dollaroni verdi luccicanti.
Ma perché così tanti ragazzi erano così ansiosi di entrare subito nella NBA ? I motivi sono tanti, la presunzione di essere un campione innanzitutto, perché al liceo batti facilmente qualsiasi brufoloso e tutti intorno te lo dicono elogiandoti a Dio in terra.
Poi c’è l’emulazione, così per un Kobe o Tmac che ce l’hanno fatta allora””ce la posso fare pure io”.
Più spesso, e sprofondiamo nel realismo di certi spaccati d’America (la nazione più potente del mondo) è solo una necessità , una dannata necessità . In famiglia non ci sono i soldi nemmeno per le bollette della luce, mamma si convince che è vero, un’istruzione è importante, ma forse un pò di più l’assegno bancario per convertire il destino da malvagiamente infame a sorprendentemente benevolo.
Poi se sei Kobe, Tmac o Lebron, facciamo pure parlare di stronzate gli psicologi in TV, sei già un campione e davvero il college non ti serve a niente.
Ma qui nascono almeno due questioni. Davvero il college non serve a niente anche per chi a basket sa già giocare ? E soprattutto, per un Kobe che c’è l’ha fatta chi ha fatto i pensieri sbagliati in quelle notti prima e immediatamente dopo gli esami ?
E’ doveroso allora un breve excursus storico. Petersburgh High School, Petersburgh, Virginia. C’è un ragazzino enorme che semplicemente domina sotto le plance. Il suo nome è Moses Malone.
Era normale allora, una specie di legge non scritta, che tutti i liceali andassero prima a fare esperienza in qualche college. C’erano stati casi di Tony Kappen e Connie Simpson nel 1946 e di Joe Graboski nel 1948 ma era un’altra epoca e l’impatto fu praticamente nullo.
Reggie Harding fu scelto dai Pistons nel 1962 ma giocò 4 stagioni NBA sottonono in un’epoca in cui la NBA non aveva ancora grande visibilità . Il suo gesto pionieristico fu praticamente dimenticato nonostante Harding non fosse proprio uno qualsiasi. Era solito infatti portare una pistola nella borsa agli allenamenti, se non anche droga. Finì ammazzato per le strade di Detroit nel 1972.
Un primo importante antecedente fu piuttosto suggerito da Spencer Haywood. Stiamo sempre a Detroit, sempre nei primissimi anni ’70. Il ragazzo non completò la sua carriera universitaria e prima del suo anno da junior (il terzo su quattro) firmò per i Denver Rockets della ABA. Fu una sentenza di un giudice dopo lunghe e travagliate dispute ad ammetterlo anche nella NBA.
Ma con Moses Malone si passò, con scandalo, sulle pagine nazionali. Il ragazzone finì sotto le mire di tutti i college ma insieme a loro anche di una squadra della ABA, all’epoca vivace lega pro concorrente della NBA.
Moses però, da bravo ragazzo ligio alle consuetudini e alle regole, firmò una lettera di intenti per Maryland. Tutto a posto, tutto tranquillo, finché qualche dirigente degli Utah Stars non allungò a lui e alla sua famiglia disgraziata un assegno da un milioni di dollari e un contratto garantito.
Che fare ? In questi casi si va poco oltre con la fantasia, si firma perché a casa non ci sono i soldi per mangiare. Moses Malone diventa il primo giocatore a saltare il college per una squadra professionistica, anche se della ABA. O almeno, come abbiamo visto, come tale fu percepito.
E tutti pensano di colpo”ma allora si può ? Darryl Dawkins l’anno dopo, nel 1975, si dichiara al draft, viene scelto e subito gioca bruciando quindi Malone che entrerà nella NBA solo l’anno successivo.
Lo segue Bill Willoughby, che si ritira dalla NBA all’età di 26 anni dopo una carriera da “journeyman”. Avrà così tanto rimorso del doppio salto che si laurea all’età di 44 anni. Ormai la strada è tracciata. Tutto facile no ?
E invece tutt’altro perché in realtà certe abitudini sono difficili da abbattere se non vi è un profondo cambiamento di mentalità . Nonostante infatti ormai il dado era tratto tutta la faccenda veniva vista ancora come un’eccezione e non come un segno dei tempi in evoluzione.
Passeranno infatti vent’anni prima della rivoluzione, con poche eccezioni. La prima è quella di Swee’Pea, direttamente dai playground in cemento di New York, altro che liceo, peraltro nemmeno scelto al draft, e poi la storia di Shawn Kemp, scelto nel 1989 come emerito sconosciuto ancora gemma rara fuori dai licei fino alle Finals del 1996.
Ecco, restiamo qui. Stagione NBA 1995/96, la rivoluzione. Tra i rookie scalcianti di questa annata c’è un ragazzo alto e smilzo che ha trascorso l’ultimo anno di scuola a Chicago. Si chiama Kevin Garnett, cambierà la storia di un ruolo, quello di ala grande e soffierà sul principio di un’intera generazione.
La generazione dei liceali. Di Kobe e di Tmac, e del necessario e “tragico” risvolto di Korleone Young per esempio, esempio vivente che non è stato tutto rose e fiori. L’esempio vivente che la scelta era a dir poco difficile e che non tutti avevano il reale talento per farlcela. Per i nomi però, per tutti i nomi, vi do appuntamento alla prossima puntata. Qui solo un’appunto. Perché saltare il college ?
I liceali “figli di The Big Ticket” sono ragazzi viziati. Dalla TV, da amici e parenti, da agenti, sponsor e pubblicità varie. Ecco allora che da metà anni ’90 in poi la mentalità è cambiata. Chi ha un contratto con i professionistici è sempre stato un eroe ma adesso lo è anche chi ce l’ha con un’azienda di scarpe. Fare soldi, prima di qualsiasi cosa.
Si pensa””Io sono nato per giocare a basket e ringrazio Dio per questo, quindi non mi serve avere una laurea perché non camperò grazie a questa”. Peccato, peccato davvero, e qui mi allaccio ancora alla mia piccola esperienza personale.
Peccato perché l’università è tante cose ma soprattutto divertimento, cioè condivisione di tutto, gioie e paure, ma soprattutto un’età che non tornerà più perché definita nel suo poco tempo.
Si può fare l’università anche a 40 anni ma converrete che è tutto diverso, che l’università in realtà è tanto l’esigenza di studiare per specializzarsi in qualcosa (vabbè”lo devo dire”) quanto per lo più un’epoca, una fase della vita, un’altra.
Che senso ha andare nella NBA (come andare a lavorare”.) saltando il periodo dell’università che ad ognuno è dato, ma che non tutti accolgono a sé ? Spesso ci sono delle necessità , in entrambi i casi di cui sopra, per il resto non capisco chi non passa in aula magna.
Nella NBA nella maggior parte dei casi ci sarebbero andati comunque, altrimenti non sarebbero stati nemmeno scelti e quindi non sarebbero stati talenti futuribili. E allora ? Il college basket, così, ad occhio e croce, è un mondo che vale la pena di conoscere.
Anche così, come forse Oden e Durant, un anno e via. La generazione dei liceali si è persa qualcosa. Non parlo di basket, Kobe domina comunque e dovunque. Ma Kobe mio bello, hai perso un treno in corsa che non passerà più.
Chissà a cosa pensava in quei giorni di fine liceo, che la sua voglia incontenibile di conquistare il mondo sarebbe dovuta abbattersi subito, senza compromessi.
Ma in fondo non ci sono tante differenze. Kobe voleva dimostrare che non era una follia adolescenziale stare al passo di Michael Jordan, io ero incollato alla TV guardando a poche ore dall’apertura delle porte Larry Brown che con in braccio la figlia s’infilava l’anello al dito.
La forza di una passione. Notte prima degli esami. Qualsiasi esame.
[Nella prossima puntata tutti i nomi dei liceali che hanno fatto il grande salto nella NBA, a presto !]