Numeri alla mano Crawford s'è salvato ma New York deve dimenticare in fretta la trasferta di Miami
Una settimana dopo, i playoffs sono più lontani: questa è la sostanza dopo le sconfitta di Washington, in casa contro i Nets, e la vittoria di Indianapolis. Abbiamo tenuto fuori le vicende di Miami, perché a poche ore dalla conclusione della partita, non riusciamo ancora a trovare un modo per definirle.
E come se tutto ciò non bastasse il principale motivo di preoccupazione per tutti i tifosi dei Knicks sono le condizioni fisiche di Stephon Marbury: la tendinite al ginocchio sinistro che lo tenne fuori per le ultime 11 partite della scorsa stagione s'è aggravata. Tutti noi, osservatori e tifosi, spesso diamo per scontato che i giocatori abbiano problemi fisici; anche perché l'Nba è così impegnativa che è scontato che ogni giocatore debba far fronte al dolore.
A 1'38" dalla fine della partita contro i Pacers, Steph non ce l'ha più fatta ed ha seguito dalla panchina, dolorante col ginocchio fasciato nel ghiaccio, i suoi compagni che vincevano 108-106 quella partita. Nei giorni successivi non s'è allenato, ha fatto trattamenti antinfiammatori e massaggi. Contro gli Heat, in un contesto come vedremo particolare, ha costeggiato la partita con 6 punti nel primo tempo e 2 su 3 al tiro. Nella ripresa Isiah Thomas non l'ha utilizzato.
"E' difficile valutare le sue reali condizioni - ha detto l'allenatore/presidente prima della sfida agli Heat - perché Marbury non è uno che si lamenti. Ma con i medici siamo giunti alla decisione di controllarlo quotidianamente e limitarne l'utilizzo." Segnale inequivocabile che c'è reale preoccupazione. "Dobbiamo valutare la situazione - ha detto il giocatore a fine partita - non voglio nuocere alla squadra. Stasera non riuscivo a correre."
In Florida New York è stata imbarazzante; quand'hai la fortuna di incontrare una squadra che ti "concede" Shaquille O'Neal e Dwyane Wade dovresti azzannarla; invece i Knicks sono stati azzannati oltre ogni misura. Un parziale di 27-0 dal 3-2 al 29-3 in 7'34" del primo periodo. La frazione s'è poi chiusa 40-12. "Non c'è una spiegazione accettabile per l'esser sotto 29-3 - ha spiegato in sala stampa Thomas - come uomo e come giocatore professionista devi stare in campo e competere con i tuoi avverari." “Siamo entrati in campo piatti", ha fatto eco Eddy Curry.
L'ex play dei Pistons ci ha provato con la psicologia, chiamando time out e guardando in faccia i giocatori; ma sono oggettivamente poche le cose che un allenatore può fare quando si trova di fronte a momenti di questo genere. Detto questo: c'è una spiegazione per figuracce del genere.
Essa risiede nella scarsa attenzione all'attitudine difensiva dei giocatori presi singolarmente, del gruppo e, in ultima analisi, dell'allenatore; è evidente che questa squadra nel suo DNA ha qualcosa che la espone a serate di questo tipo.
Date le condizioni di Miami, qualcuno ha avanzato l'ipotesi della sottovalutazione dell'avversario: "Non possiamo sottovalutare nessuno perché non siamo così forti", ha tagliato corto Quentin Richardson. Rimane la colossale occasione buttata alle ortiche. E l'imbarazzo di sentire il pubblico degli altri che ti applaude sarcastico quando fai canestro.
I Knicks, è giusto dirlo, hanno reagito con un secondo quarto da 29-16; spinti dai soliti Crawford e Curry, si sono ritrovati sul 79-73 a 8' dal termine. A quel punto però, Jason Williams, ha frustrato le speranza di quelli della grande mela. Però quante volte quest'anno la squadra è andata sotto per poi cominciare a giocare, grazie a una scossa emotiva, in preda all'urgenza di rimontare?
Lo stesso copione l'abbiamo visto al Garden contro i New Jersey Nets; Stephon Marbury ha guidato il rientro dei suoi, tanto per cambiare sotto di 13 a 8' dalla fine. Il capro espiatorio dell'ennesimo amaro finale è stato Curry che, su un errore al tiro di Carter, s'è fatto precedere da Cliff Robinson che ha realizzato i due punti decisivi. "Non mi piace perdere - ha detto Thomas alla fine - però è in serate come queste che mi convinco che, tenendo assieme questo gruppo per un po', potremo fare grandi cose."
L'opinione è legittima; a patto di non ricadere sempre nei soliti errori, persino al cospetto del principale avversario alla corsa ai playoffs. Quest'ultimi per certi versi sono un obiettivo secondario.
Se consideriamo i Nets i veri avversari per quell'ambito posto alla post stagione, l'attuale vantaggio di 3 partite della banda-Kidd, impallidisce di fronte ai due calendari. New York è già stata a ovest, nelle 39 partite che mancano dovrà giocare a in casa dei Lakers, a San Francisco, a Dallas e a New Orleans; più in generale avrà 19 trasferte. I cugini sono ad ovest al momento di scrivere e ci torneranno a inizio marzo per un tour di 6 partita in 9 giorni che contiene anche le classiche e tremende tre fermate in Texas.
Per i canoni Nba il calendario dei Knicks è più agevole. Con un record di poco superiore al 50%, che lascerebbe comunque la squadra con più sconfitte che vittorie, i playoffs sono raggiungibili. Detto, per dovere di cronaca, dell'incognita di Toronto, c'è da chiedersi se il reale margine di miglioramento di questo gruppo sia un mediocre record che permette di proseguire il campionato.
Lo stesso Thomas dice di aspettarsi di meglio. Molti dicono che con la debolezza delle Eastern Conference i playoffs basta raggiungerli; arrivarci per fare una comparsata però non serve a niente. Non pensiamo nemmeno che sia un argomento così pesante nel momento in cui Dolan valuterà l'operato del suo dirigente/allenatore. A meno di non ricadere nell'errore di fondo, quello che ha causato dal termine dell'era Ewing tanti patemi: il pregiudizio secondo il quale a New York è preferibile una stagione mediocre ad una negativa, utile per ricostruire.
Al contrario, proprio la debolezza della Conference autorizza a pensare che, una volta alla post season, primo o ottavo posta faccia paradossalmente poca differenza; a patto di limitare i propri difetti, e col grosso punto di domanda legato a Marbury. Non è quindi più utile ragionare in questi termini, metter mano ai problemi reali, a partire da un minimo di organizzazione difensiva?
E sulla base di questo metro di giudizio, valutare definitivamente se il gruppo così com'è ha realemente le chance di grandezza per le quali è stato costruito, se manca un pezzo, o se la casa è da ricostruire dalle fondamenta. Questo è il nocciolo della questione. O no?