Il mio nome è Lamar

Lamar Odom alla fine è davvero diventato la stella che tutti si aspettavano…

Un ragazzone nero, alto due metri e otto dal fisico possente ma agile, non è un individuo che se ti passa davanti ti lascia indifferente.

Se poi tu sei uno scout NBA e lui una giovane promessa che frequenta un college importante come UNLV (dove era giunto dal più modesto Rhode Island due anni prima), un'ala di spessore, di quelle che potrebbero cambiare il destino di una franchigia, probabilmente comincerebbe a girarti la testa all'idea di poter scegliere il giovane virgulto.

Nel 1999 questo è quanto deve essere passato per la testa di chi, nella Città  degli Angeli, era deputato a scegliere qualcuno in grado di invertire un trend negativo che perdurava ormai da tanti anni e che vedeva i Clippers recitare la parte dei cugini poveri o dei fratellini scemi (vedete voi) dei gialloviola lacustri.

E così, dopo che Chicago ha chiamato al Draft Elton Brand da Duke alla prima, Vancouver e Charlotte chiamano rispettivamente Stevie "The Franchise" Francis e "Baron" Davis ; si fa ancora silenzio nella sala in attesa che il Commissioner David Stern annunci la chiamata numero quattro da parte dei Clippers : ed proprio lui, Lamar Odom.

La prima stagione losangelina è quella del 1999-2000 e il ventenne Lamar sforna 16,6 punti e 7,8 rimbalzi a partita, conditi da 4,2 assist. Cifre di primo piano che lo catapultano al centro dell'attenzione dei media e degli addetti ai lavori come uno dei prospetti più interessanti dell'intero circus NBA.

La squadra però è debole e povera di talento e la vecchia gloria celtica Chris Ford non riesce a galvanizzarla, così i Clippers chiudono la stagione con un misero 15-67.

Nella stagione 2000-01 si cambia coach e Alvin Gentry, che può contare su una pattuglia di giovani di valore provenienti dal draft (Quentin Richardson, Keyon Dooling e Darius Miles), porta il team ad un sensibile miglioramento, 31-51, ma i playoffs sono ancora lontani e Lamarvelous, come intanto è stata ribattezzata la giovane promessa, chiude con statistiche lievemente migliori rispetto alla stagione dell'esordio (17,2 punti, 7,8 rimbalzi e 5,2 assistenze per lui).

I guai per il giovane Lamar hanno inizio a San Antonio, il 30 ottobre 2001, quando dopo una rovinosa caduta il ragazzo si infortuna gravemente al polso destro, lesionandone i legamenti.

In un primo momento sembra recuperare ma poi iniziano a formarsi sui legamenti delle calcificazioni che inducono lo staff medico dei Clippers a suggerire l'intervento di pulizia.

Odom perde 45 gare di stagione regolare per questa ragione più una decina a causa di una sospensione da parte della Lega per uso di sostanze stupefacenti.
Non è un bel biglietto da visita per una giovane stella e la reputazione di Lamar inizia a vacillare. Le sue cifre medie dicono 13,1 punti, 6.1 rimbalzi e 5.9 assists più circa una stoppata a partita.

Nella stagione 2002-03 il ragazzo salta ancora un mucchio di partite (32 in totale) per malanni vari e un'altra sospensione a causa di abuso da stupefacenti e le sue cifre scendono sensibilmente, convincendo il front office dei Clippers che è giunta l'ora di far cambiare aria a Lamar.

L'occasione capita subito e Odom viene scambiato e spedito a Miami, dove è in corso di allestimento una squadra giovane e motivata, che ha nel rookie Wade la sua punta di diamante.

Alla corte di coach Van Gundy, Lamar sembra trovarsi a meraviglia : gioca 80 gare nella stagione 2003-2004 e colleziona cifre di tutto rispetto : 17,1 punti, 9,7 rimbalzi e 4,1 assists ad allacciatura di scarpe. Il suo contributo risulta decisivo per la stagione vincente di Miami, che riesce a raggiungere la soglia delle semifinali, impegnando in sei durissime partite gli Indiana Pacers.

E proprio quando una fulgida carriera in Florida si prospetta per il virgulto da Jamaica, NY, la roulette del destino riprende a girare e questa volta esce lo zero ; infatti gli Heat hanno iniziato a pensare in grande e il Direttore per le operazioni di mercato Pat Riley decide di allestire una squadra da titolo e in cambio di Shaquille O'Neal spedisce ai Lakers Caron Butler, Brian Grant e lo stesso Odom, che così torna nella città  che aveva dato il battesimo alla sua carriera tra i professionisti.

I Lakers non sono più quelli dell'accoppiata Kobe-Shaq e il coach non è più Phil Jackson, il coach Zen dei sei titoli a Chicago più tre a Los Angeles ; stanco delle beghe tra le sue due superstelle e della sua fin troppo chiacchierata love story con la figlia del proprietario dei gialloviola, Jerry Buss, PJ ha deciso di distaccarsi dal turbolento ambiente losangelino e prendersi un nuovo periodo di riposo.

A condurre una squadra abbastanza debole sulla carta, in piena fase di ricostruzione, viene chiamato Rudy Tomjanovic, nella speranza che riesca a riproporre la stessa formula vincente di Houston.

Però ai Lakers non c'è Olajuwoon e soprattutto lo stesso coach Tomjanovic non è abbastanza energico da resistere alle bizze di Kobe Bryant che, non più disciplinato da “Coach Zen”, capisce di poter fare quello che vuole e si mette in proprio, costringendo la squadra a stargli dietro, provocando ovvi malcontenti.

Le altrettanto ovvie spaccature nel gruppo si palesano ben presto e si riverberano in campo in una stagione mediocre, dove una squadra influenzata dall'individualismo di Kobe, viene maltrattata un po' dappertutto e finisce fuori dai playoffs con un record di 34-48, con l'allenatore cacciato a metà  stagione e con un frustratissimo e molto poco Lamarvelous Odom a fare da pressochè da valletto a Bryant, racimolando 15 punti a gara, prendendo circa 10 rimbalzi e servendo 3 assist a partita, ma non prendendo neppure uno dei tanti tiri decisivi che peraltro Kobe riserva solo a sè stesso.

Ma proprio quando la situazione sembra precipitare verso il caos, la dirigenza angelina, fortemente pressata dallo stesso Bryant, che pare finalmente più motivato a vincere insieme alla squadra che a giocare da solo, richiama il coach di tanti successi.

Così Phil Jackson riprende il timone della squadra nella stagione 2005-06 , reintroducendo l'attacco col triplo post (o attacco triangolo, insomma il marchio di fabbrica di coach Tex Winter e dei successi di Jackson a Chicago e Los Angeles), la disciplina zen e ricostruendo praticamente dal nulla il gruppo, non più solo attorno a Bryant, perché come a Chicago Jordan aveva a fianco Scottie Pippen, qui a L.A., Kobe può contare sicuramente su Lamar Odom.

Dato un nuovo e più funzionale assetto al gruppo, nel rispetto delle diverse identità , trovato un play razzente e realizzatore in Smush Parker e facendo di necessità  virtù nei restanti ruoli col contributo dei vari Mihm, Medvedenko, Jackson, George e Cook, i Lakers disputano una stagione nuovamente positiva, con un Kobe finalmente vero leader, capace di giocare assieme ai suoi compagni e renderli migliori giorno dopo giorno, esaltandone i miglioramenti e mascherandone le lacune sotto l'ombrello del suo infinito talento.

Nel sistema di Phil Jackson anche Lamar sembra trovare lentamente il suo equilibrio e conclude la stagione con 14,8 punti e 9,2 rimbalzi per gara e arrivando, cosa più importante, a servire 5,5 assist, cifra notevole che da ragione dell'evoluzione del giocatore, non disgiunta da quella della persona.

Non è un mistero che Coach Jackson abbia la capacità , rara nei gestori, pardon, allenatori NBA di oggi, di plasmare, modificare, resettare la mentalità  dei suoi giocatori verso il gioco e la squadra.

Così anche un Kwame Brown, sfuggito a stento al linciaggio mediatico in quel di Washington di cui era stato prima scelta assoluta solo qualche anno fa, è riuscito a trovare una propria dimensione nell'attacco triangolo e più ancora nell'ambiente dei Lakers, come del resto ha fatto lo stesso Kobe, che una infarinatura di zen l'aveva già  avuta ai tempi della prima e fortunata gestione zen del coach.

Dopo il recupero di Ronny Turiaf, i Lakers sembrano pronti per una stagione 2006-07 che potrebbe essere foriera di grandi soddisfazioni, anche se dopo un inizio sfolgorante la squadra è ora incappata in due sconfitte consecutive.

A rendere comunque roseo il futuro contribuisce la presenza in quintetto e il contributo già  consistente di Andrew Bynum, il nuovo centro di stazza che ai Lakers mancava da quando hanno perso Shaq per le note vicende.

Pur avendo necessità  di tempo per esplodere (è classe 87…), dalle prime uscite il ragazzo pare già  all'altezza della situazione ed ha destato l'apprezzamento dei media, dando l'idea di poter divenire dominante di qua a poco tempo.

E Lamar? Mai tanto Lamarvelous quanto ora, è partito come una scheggia, tirato a lucido, dinamico e determinato a far valere tutti i suoi due e otto per oltre cento chili sia da esterno che da interno, collezionando in queste prime sei partite 20,2 punti di media, 7,8 rimbalzi e 5,3 assist, con giocate che esprimono finalmente tutto il suo enorme potenziale, finora parzialmente inespresso.

Odom appare un giocatore finalmente maturo, in pace con sé stesso, consapevole, pienamente inserito nei meccanismi della squadra e di un attacco che non prevede isolamenti per la stella, ma la capacità  di tutti i giocatori di costruire il tiro migliore, con altruismo e intelligenza o, come direbbe Coach Zen, “con mente libera e cuore aperto”, entrambi pilastri della filosofia zen, ma anche paradigmi base di un grande campione come potrebbe rivelarsi Odom.

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