Nba Hall of Fame 2006

Charles Barkley, simbolo dell'edizione 2006. Un personaggio sempre attuale.

Anche quest'anno la Hall of Fame di Springfield ha reso immortali alcuni dei protagonisti della pallacanestro mondiale. Si tratta di un'edizione che ricorderemo con particolare piacere, perché consegna agli annali anche il nostro Sandro Gamba, eletto nella sezione allenatori. Inutile stare a chiedersi o a sorprendersi per questa scelta. Gamba è stato senza dubbio uno dei migliori allenatori europei di sempre, avendo vinto tutto con i club e avendo conseguito traguardi straordinari anche con la Nazionale.

La cerimonia, sobria ed elegante come al solito, oltre a Gamba ha annunciato anche gli altri nuovi Hall of Famers. Si tratta di Charles Barkley, Dominique Wilkins e Joe Dumars per la sezione giocatori, di Geno Auriemma per i coach e di David Gavitt per i dirigenti. Il totale degli iscritti all'arca della gloria sale quindi a 264.

Diamo pertanto un'occhiata ad un rapido profilo dei premiati, cercando di cogliere i tratti più essenziali di carriere che, per essere descritte in modo puntuale ed esauriente, richiederebbero una trattazione ben più ampia.

SANDRO GAMBA

Milanese d.o.c. ha mosso i primi passi con il basket nel secondo dopoguerra, per curare una ferita ad una mano causata da un proiettile accidentale. Ha sempre giocato nell'Olimpia (ai tempi Borletti, prim'ancora che diventasse Simmenthal, Ndr), dove ha vinto ben nove tricolori. Dopo aver appeso le scarpe al chiodo, ha iniziato una lunga esperienza in panchina, durata circa trent'anni. I primi passi li ha mossi con Cesare Rubini, un altro dei tre hall of famer italiani (il terzo è Dino Meneghin, NdR). Fece esperienza sul pino vincendo tre scudetti, una Coppa dei Campioni e due Coppe delle Coppe.

Poi il grande salto, con la prima esperienza da capoallenatore, alla guida della Ignis Varese, un autentico squadrone, con Morse, Yerlverton, Meneghin, Ossola, Rusconi, Bisson e tanti altri. Il fatturato in quattro stagioni parla di due scudetti e due Coppe dei Campioni. Allenerà  anche la Berloni Torino e la Virtus Bologna, ma verrà  ricordato più che altro per essere stato il grande coach della Nazionale in grado di vincere gli Europei di Nantes (1983). In azzurro ha allenato in due periodi non consecutivi (dal '79 all'85, poi dall'87 al '92, NdR), vincendo inoltre l'argento olimpico a Mosca 1980, l'argento agli europei di Roma ed il bronzo a quelli di Stoccarda.

GENO AURIEMMA

Se Gamba è l'orgoglio del nostro basket, qualcosina potremmo rivendicare anche al proposito di Geno Auriemma. Si pronuncia Gino e discende da genitori italiani. È il grande punto di riferimento nel panorama Ncaa femminile.

Da 21 anni è head coach nella squadra più vincente in assoluto: Connecticut. Ha condotto gli Huskies a 5 titoli Ncaa, 8 Final Four con due perfect season. È alla soglia delle 600 partite vinte. È stato nominato a 5 volte coach dell'anno, ha vinto 12 tornei della Big East. Tra le sue allieve spicca naturalmente Diana Taurasi, la grande stella statunitense del basket in gonnella.

DAVID GAVITT

La sua nomina è sostanzialmente dovuta alle innovazioni che è stato in grado di portare all'interno del campionato Ncaa. Negli anni '80 Gavitt, che è stato commissioner dal 1982 al 1984, ha espanso il torneo a 64 squadre, ha riformulato le Final Four, consentendo l'utilizzo di impianti più grandi, solitamente destinati al football, per consentire a più tifosi di assistere alle Final Four e soprattutto ha firmato con la CBS il primo contratto televisivo per garantire la copertura a scala nazionale del torneo. Con Gavitt, il torneo Ncaa ha assunto dunque la dimensione che conosciamo tuttora, superando quegli scogli di provincialismo che ancora lo affliggevano. Secondariamente David Gavitt è stato anche head coach a Providence, portata cinque volte al torneo, con una partecipazione alle Final Four.

DOMINIQUE WILKINS

Era nell'aria, è successo. Nique entra nella galleria degli immortali, un riconoscimento più che mai giusto, anche per risarcirlo di quelle soddisfazioni che da giocatore, pur avendo dato un contributo enorme alla Nba, non è mai riuscito a togliersi.

Stiamo parlando di un'ala piccola dai mezzi fisici spaventosi, in grado di giocare fino a quarant'anni ai massimi livelli nonostante un gravissimo infortunio al tendine d'achille. Negli anni ottanta, dopo il ritiro di Julius Erving è stato il principale antagonista di Michael Jordan sul piano della spettacolarità  e della capacità  di sospendere il fiato agli appassionati con i suoi interminabili voli, tanto da essere soprannominato Human Highlight Film.

Di nascita è francese, in quanto il padre, si servizio nella Air Force, in quegli anni lavorava a Parigi. Il basket era nel Dna famigliare, infatti anche suo fratello Gerald è riuscito a diventare un celebre giocatore Nba. Entrambi sono usciti da Georgia, dove Nique ha avuto una media di 21.6 punti nelle tre stagioni in cui ha indossato la maglia dei Bulldogs.

Il suo ingresso nella Nba non è stato dei più nobili, in quanto si rifiutò di firmare per gli Utah Jazz, e venne dunque scambiato agli Hawks per John Drew, Freeman Williams e un conguaglio in denaro. Da quel giorno la sua carriera è stata una continua escalation con una marea di riconoscimenti individuali, cui è sempre mancato, non soltanto per colpa sua, un anello che avrebbe potuto, come nel caso di Charles Barkley, proiettarlo sul serio nell'olimpo dei più grandi.

Si è sempre trattato di un giocatore in qualche modo preceduto dalla sua fama. Si diceva di lui: beh, certo, bravo, segna sempre trenta punti, ma la sua squadra perde. Se non pensasse solo al suo tabellino, magari le cose cambierebbero, perchè gli Hawks sono una buona squadra. C'è del vero in tutto ciò, ma anche la miopia nel considerare che rispetto ad altri campioni, Wilkins ha sempre fatto quello che sapeva fare meglio, ossia il realizzatore, il principale terminale offensivo, lasciando ad altri il compito di organizzare l'azione. A volte la gloria è stata soltanto mancata di un soffio, come nel 1988, quando a fronte di una postseason a 31.2 punti di media, Nique perse di soli due punti la gara7 contro i Celtics di Larry Bird, poi sconfitti in finale dai Los Angeles Lakers.

Quando Nique, negli anni '90, per reagire alla eterne critiche, cambio il suo gioco cercando di diventare un giocatore di squadra, aumentando sia i rimbalzi che gli assist, il resto della squadra non era più quella degli anni migliori, così anziché migliorare, le cose sono andate via via peggiorando, fino al gravissimo infortunio al tendine d'achille che troncò di fatto anche la sua carriera ai massimi livelli nella Nba. Tornò forte come prima, segnando ancora 30 punti di media e superando quota 20000 punti in carriera, ma le sua chance di giocare per il titolo erano ormai morte per sempre.

Nel 1994 gli Hawks, lasciando assolutamente scioccati i loro fan, cedettero Wilkins ai Clippers in cambio di Danny Manning, grande talento perso in una marea di infortuni.
Grazie alla sua grande professionalità , continuò ad essere un grande atleta, alternando la sua carriera tra l'Europa, dove nella sua Parigi vinse il titolo di mvp e l'Eurolega con il Panathinaikos, e la Nba, dove a 38 anni suonati, è ancora riuscito a mettere a referto quasi 20 punti di media nei San Antonio Spurs. Tornò ancora in Europa, nella Fortitudo Bologna, e fu autore del celebre fallo che consentì a Danilovic di mettere a segno il gioco da 4 punti che fece ribaltare il risultato alla Virtus nella gara decisiva del derby scudetto. Chiuse la carriera ad Orlando insieme a suo fratello Gerald alla veneranda età  di 40 anni.

JOE DUMARS

L'esatto opposto di Wilkins, potrebbe appunto essere Joe Dumars. Zero spettacolarità , zero ricerca del gesto a sensazione, ma assoluta sostanza a servizio della propria squadra, per quello che è stato uno dei migliori difensori di tutti i tempi.

Pur senza eccellere in nulla, Joe Dumars può essere considerato uno dei migliori all-around di tutti i tempi, vincendo due titoli Nba e un titolo di Mvp delle finali nel 1989. Ha sempre saputo combinare la grinta e la durezza del bad boy con i modi gentili e la sportività  dell'uomo del sud, arrivato dal cuore della Louisiana in una città  diametralmente opposta alle sue origini, qual era Detroit.

Grande realizzatore Ncaa a McNeese State, dove mise a referto 26 punti di media nel suo anno da senior, venne adocchiato dall'allora Gm dei Pistons, Jack McCloskey. Detroit aveva soltanto la scelta numero 18, tanto che disperava di prenderlo, ma Dumars, volendo andare a Detroit, riuscì clamorosamente ad "evitare" le precedenti chiaramente, arrivando disponibile a quando toccava a McCloskey chiamare. Il suo obiettivo era quello di giocare insieme ad Isiah Thomas, e ce l'aveva fatta.

La carriera di Dumars partì dall'ombra di una guardia scelta a metà  primo giro, senza troppe aspettative. Riuscì a conquistarsi il rispetto e la considerazione di tutti partita dopo partita, capendo subito come i Pistons avrebbero tratto da lui un contributo più importante come difensore, in un epoca di grandi guardie realizzatrici, che non come puro realizzatore, visto che di punti, la squadra di Chuck Daly, poteva farne anche in altre maniere. La sua intelligenza, la sua umiltà  ed il suo proverbiale spirito di sacrificio gli valsero prontamente un posto nel primo quintetto rookie, in compagnia, tra gli altri, di Patrick Ewing e Karl Malone.

La sua difesa fece soffrire tutti, compreso il più grande di tutti: Michael Jordan.

Sono a dir poco leggendarie le Jordan Rules, ossia il sistema difensivo studiato da Daly per limitare lo strapotere di MJ nei playoff. Dopo una serie da oltre 45 punti di media a serata contro Cleveland, Michael era il peggiore incubo di chiunque se lo potesse trovare di fronte. A Joe Dumars i Pistons chiesero di fare qualcosa che mai nessuno era mai riuscito a fare e che mai nessuno sarebbe più stato capace di fare: limitare Jordan.

Fu lì che Dumars, finora all'ombra di Isiah Thomas e Bill Laimbeer, acquisì quella credibilità  che gli permetterà  persino di vincere il titolo di mvp nelle finali del 1989, anche se venne convocato per il suo primo All Star Game soltanto nel 1990. Tutti i Pistons si adoperarono in una tremenda difesa, senza esclusione di colpi, su Michael Jordan. Joe Dumars fu assolutamente magistrale nell'applicare il lato più tecnico di quella difesa, impedendo ad un atleta più alto di lui, più veloce di lui e con un talento illimitato, di penetrare a destra o di convergere verso il centro dopo aver ricevuto il pallone all'angolo.

A testimonianza della sua voglia di vincere, le sue migliori stagioni a livello individuale furono le ultime, quando superò sempre i 20 punti di media in una squadra che, dopo il gravissimo infortunio che sostanzialmente troncò la carriera ad Isiah Thomas, non fu più in grado di lottare per il titolo. Dumars, che nella sua carriera ha vinto a livello individuale molto meno di quanto avrebbe meritato, si era però già  conquistato la stima degli addetti ai lavori, ed un'etichetta di vincente che nessuno gli avrebbe mai più levato. A consolidare questa fama, c'era il fatto di essere un duro non solo nel modo di giocare, ma anche nella sopportazione del dolore e nella capacità  di dare il massimo sul parquet curandosi sempre più del bene della squadra che non della sua incolumità  fisica. Durante una gara contro i grandi rivali New York Knicks, si fratturò una mano. Venne operato due giorni dopo. Doveva stare fuori almeno un mese e mezzo, ma dopo tre settimane era di nuovo sul parquet.

Dopo aver vinto la medaglia d'oro ai mondiali del 1994 in quello che ancora poteva essere definito un Dream Team, chiuse la carriera nei Pistons adattando il proprio ruolo, sempre negli interessi della squadra, provando a fare il playmaker, per consentire a Allan Houston di giocare da guardia con ottime doti in fase di realizzazione, sostituendo per altro in modo eccellente l'infortunato Lindsey Hunter.

Il resto è storia recente. Da vera bandiera dei Detroit Pistons, è passato dietro la scrivania come General Manager, costruendo mattone su mattone la squadra che con Larry Brown e alcune caratteristiche per certi versi simili a quelle dei Bad Boy, vinsero il titolo Nba del 2004. Il tutto ragionando sempre nell'ottica e negli interessi di quello che sarebbe stato il miglior operato negli interessi della squadra, sacrificando i due migliori giocatori di una squadra talentuosa ma perdente: Grant Hill e Jerry Stackhouse. I giocatori presi al loro posto erano dei novelli Joe Dumars. Poco appariscenti, tant'è che all'atto delle trade tutti pensavano che i Pistons ci avessero clamorosamente rimesso, fino a quando Ben Wallace e Richard Hamilton non sono diventati due pilastri del team campione Nba.

Anche il resto della squadra non proveniva certo da nobili origini. RAsheed Wallace è arrivato ai Pistons con l'etichetta di grande talento poco gestibile, tant'è che pochi giorni prima del suo approdo nella Motor City, i Blazers l'avevano sbolognato agli Atlanta Hawks in cambio di un Theo Ratliff in pieno declino.

Tayshaun Prince, buon talento di Kentucky sul quale nessuno aveva scommesso una lira, fu scelto tardi nel draft proprio da Dumars, che aveva visto in lui quelle doti difensive che sarebbero emerse in seguito grazie all'operato di coach d'eccezione come Rick Carlisle e Larry Brown, che fu straordinario nel trasformare un rifiuto da marciapiede sulla via dell'Europa, qual era ridotto Chauncey Billups, in un autentico Mvp delle Finali.

Per quanto ha fatto da giocatore e per quanto sta facendo da dirigente, Joe Dumars è ancora oggi uno degli uomini più stimati e rispettati non soltanto nella Nba, ma nell'intero panorama sportivo americano. I suoi valori genuini e il suo amore per lo sport, gli sono valsi peraltro il primo Sportmanship Award. Un trofeo che con buona probabilità , anche se ad oggi la questione pare un tantino prematura, visto che comunque Dumars è ancora relativamente giovane, gli verrà  intitolato come Joe Dumars Trophy.

CHARLES BARKLEY

Chi ha iniziato a seguire il basket da poco, sicuramente l'avrà  notato accanto a quell'altro buontempone di Kenny Smith a fare il commentatore per la TNT, emittente che ha i diritti nazionali per la trasmissione delle partite Nba negli States. Chi ha avuto modo di sentirlo parlare, ha sicuramente notato come sia un tipo piuttosto corpulento, dalla lingua tagliente ma anche pronto alla battuta più genuina. In fondo in fondo, un personaggio.
Charles Barkley, prima di fare il commentatore televisivo e il candidato politico per il governatorato dell'Alabama, è stato uno dei giocatori più forti a cavallo tra gli anni '80 e gli anni '90.

Gli è stato affibiato uno dei soprannomi più azzeccati della storia della Nba: the round mound of the rebound. Le caratteristiche fisiche di Barkley sono state a dir poco anomale. Non arrivava ai due metri, era a momenti più largo che alto ma possedeva l'agilità  di un gatto, ed un tempismo straordinario per il rimbalzo. È uno dei soli quattro giocatori, insieme a Wilt Chamberlain, Kareem Abdul-Jabbar e Karl Malone.ad aver collezione oltre ventimila punti, diecimila rimbalzi e quattro mila assist. Un all-around d'eccezione, in grado di interpretare il ruolo di ala forte in modo rivoluzionario, dal momento che tecnicamente era in grado di ricoprire sostanzialmente tutti e cinque i ruoli. Grande potenza, agilità , controllo di palla, capacità  nel passare la palla e anche un buon vizio a tirare da fuori, con apprezzabilissimi risultati.

Barkley, come Wilkins del resto, è stato uno di quei giocatori che porterà  sempre con sé l'asterisco degli zero titoli Nba vinti, ma a differenza di Nique, in pochi si sono mai sognati di contestare la sua caratura sul parquet.

Dopo tre anni ad Auburn, dove non arrivava neanche a 15 di media, ma era già  in grado di prendere rimbalzi a palate, i Philadelphia 76ers lo scelsero con la quinta scelta assoluta nel leggendario draft del 1984. Nonostante una buona carriera, non riusci a rientrare nella selezione statunitense che avrebbe vinto la medaglia d'oro a Los Angeles nel 1984. Il fatto di non essere riuscito ad essere nella squadra allenata da Bobby Knight, in cui l'assoluto dominatore era stato Michael Jordan, gli diede un grosso stimolo per partire subito alla grande anche al piano di sopra.A fargli da chioccia, campioni straordinari come Julius Erving, Moses Malone e Maurice Cheeks, ormai chiaramente a fine carriera. Sir Charles Fece il compitino, mettendo già  a referto 14 punti e 8,6 rimbalzi a sera, sostanzialmente le cifre che aveva al college. Venne incluso nel primo quintetto Rookie. Rimarrà  a Phila per otto anni, ed il momento migliore fu quella stagione 1985 che vide i Sixers battuti soltanto ai Celtics nelle finali di conference.

Al termine della stagione 1991-92, dopo un'annata disastrosa, in cui i Sixers non fecero nemmeno i playoff, chiese ed ottenne la cessione ai Phoenix Suns in cambio di Jeff Hornacek, Tim Perry e Andrew Lang. E' il momento migliore della sua grandissima carriera.

Dopo aver vinto la medaglia d'oro indossando la maglia del Dream Team originale, quello di Barcellona 1992, nel 1993 si aggiudicato il titolo di Mvp della Nba. Nelle finali Nba viene sconfitto in sei gare dai Chicago Bulls pareggiando però il confronto individuale contro Michael Jordan. I due si sfidarono a suon di cinquantelli, ma i Suns dovettero abdicare a causa di una clamorosa serie negativa di Kevin Johnson, fino ad allora invece superbo.

Qui ha avuto inizio il calvario. Sir Charles ha dovuto condividere la sua attività  agonistica con una serie di gravi problemi alla schiena che hanno progressivamente limitato la sua mobilità , cominciando a fargli perdere moltissime partite ogni anno.

Nel 1996, prossimo alla fine della carriera, Barkley ha deciso di provare l'ultimo disperato assalto ad titolo cui teneva realmente tantissimo, riuscendo ad ottenere la cessione agli Houston Rockets.

Si trattò di una trade che non giovò a nessuna delle due pretedenti. I Rockets, campioni in carica dopo aver tra l'altro sbattuto fuori i Suns grazie al celebre bacio della morte di Mario Elie, avevano altri due sicuri hall of famer: Hakeem Olaujwon e Clyde Drexler. La perdita dei pezzi più pregiati del supportino cast, spediti a Phoenix proprio per ingaggiare Barkley e l'età  avanzata di un trio che sulla carta aveva obbligato i Rockets come favoritissimi, si rivelò in un clamoroso fallimento. Tanto che andò persin peggio l'anno successivo, quando i Rockets acquisirono un altro fuoriclasse a fine carriera :Scottie Pippen. Il gioco dei Rockets era ormai lento e prevedibilissimo, basandosi esclusivamente sul gioco in post di Sir Charles, che peraltro aveva ormai perso del tutto la sua esplosività .

Barkley, così come il suo eterno rivale a distanza, Karl Malone, ha chiuso una carriera straordinaria senza essere riuscito a vincere il titolo. Verranno ricordati all'ombra di Michael Jordan? Probabilmente la storia renderà  giustizia a Sir Charles. Anche senza l'anello, quanto ha prodotto, sul campo e fuori, con il suo carisma unico dell'omone grande e grosso capace di prodursi in reazioni spropositate, come la gomitata all'angolano a Barcellona '92 o le tante risse e semirisse in cui si è prodotto dentro e fuori dai parquet di mezzo mondo, salvo poi pentirsi e rimediare da sincero bonaccione qual è sempre stato.

Sarà  curioso vedere cosa riuscirà  a combinare Charles adesso. Non è mai stato un role model, anzi, è stato uno di quegli esempi che non andrebbero proprio mostrati al professionista tipo, per quanto riguarda la vita fuori dal parquet ed una serie di dichiarazioni alla stampa a dir poco fuori luogo, persino razziste in certe circostanze. Tuttavia, la sua passione per la politica sembra sincera e ha buone chance, grazie alla sua grande popolarità , di far leva sulla popolazione di colore. Diviso tra la corsa all'Alabama ed il microfono della TNT, siamo certi che avremo ancora notizie di lui.

I riflettori della cerimonia per la Hall of Fame 2006 erano tutti rivolti su di lui. Nel frattempo, ricordiamo il suo palmares individuale, a dir poco impressionante: Mvp Nba (1993), 5 volte primo quintetto Nba, 5 volte secondo quintetto Nba, 1 volta terzo quintetto Nba, 11 volte All Star, Mvp dell'All Star Game 1991, medaglia d'oro olimpica nel 1992 e nel 1996.

Nominato tra i primi 50 migliori giocatori della storia della Nba in occasione del cinquantenario della Lega attualmente diretta da David Stern, nel 1996. Ha chiuso la sua carriera con 22,1 punti, 11,7 rimbalzi e 4 assist di media. Chapeau, Sir Charles.

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