“C’era una volta in America”

Michael Jordan tornò con i Wizards nei giorni dell’11 Settembre…qui sembra salutare un’era che per gli USA non c’è più

Il titolo di questo articolo vuol dire molto, oltre il gioco del basket. Chiamatemi presuntuoso, idealista, incurabile sognatore ma il principio non cambia. “C’era una volta in America”” o forse sarebbe meglio dire “C’era un volta l’America””che noi ragazzi dall’altra parte del mondo guardavamo con gli occhi del bambino che lì vi vedeva la realizzazione dei suoi sogni più belli.

E oggi, come sta l’America oggi ? Non risponderò io a questa domanda, non ne ho i mezzi né il carisma. Però mi sento di dire qualcosa, io che l’amo l’America poco meno di quanto ho festeggiato l’Italia campione del mondo del capitano Cannavaro e dell’uomo del destino Grosso.

L’America è cambiata, non è più la stessa, e su questo penso che tutti convengano. Il mondo tutto è cambiato, siamo nel terzo millennio ormai, bene. Ma la questione è semplice : questo grande paese, il più grande di tutti, è cambiato in meglio o in peggio ?

Anche qui ci si pone davanti a una domanda difficile da rispondere. Ma non voglio fuorviare oltre, l’idea che mi sta a cuore parte dalla realtà  politico-sociale e arriva fino al basket.

L’America ha perso la sua aurea d’invincibilità .

E’ il tratto per me dominante della modernità . Prima non era così, no, non lo era affatto. Ogni singolo americano guardava al mondo intero (se lo faceva) con un arrogante senso di superiorità  che tanti credevano gli derivasse direttamente dal Signore, altri più pragmaticamente, come la scuola filosofica americana ci insegna, dalla propria potenza militare-economica e quindi politica e di influenza culturale.

Venne Pearl Harbor, tragedia inattesa per mano giapponese, gli USA entrarono in guerra, fecero piazza pulita e chiusero baracca e burattini con la bomba atomica. Game over. L’impero che fu di Roma parla oggi americano.

Poi ci fu l’Unione Sovietica, che detta così non ricorda granché, ma per gli americani venne il pericolo di una superpotenza rivale che potesse competere con gli Yankees in una guerra. Di più però c’era un’altra paura, il virus letale chiamato comunismo che una volta entrato negli States, si pensava, poteva minare alle basi il principio stesso dell’essere americano.

Ma non successe mai, i timori (come la crisi di Cuba sotto Kennedy) erano reali ma non così la percezione di vivere in guerra, di sacrificarsi, di soffrire né di cambiare il proprio way of life. Anzi, la rivalità  con i comunisti sovietici innalzò l’orgoglio a stelle e strisce al livello di guardia. Per noi altri.

Il muro cadde, gli USA e il mondo esultarono, ancora una volta l’impero che fu di Roma parlava americano. L’americano medio continuava a ignorare quale fosse persino la capitale della Spagna o dove fosse veramente l’Europa, si esaltava alle gesta di Michael Jordan come prima faceva per Magic, Kareem e ancora oltre di Babe Ruth.

Ma una mattino, un pomeriggio italiano, sì, davvero, letteralmente, l’America e il mondo cambiarono per sempre.

Era l’11 settembre del 2001, 3 aerei dirottati da fanatici terroristi islamici distrussero le Torri Gemelle a Manhattan, colpirono un’ala del Pentagono e un quarto, precitato per l’eroismo dei passeggeri in Pennsylvania, fu scampato alla distruzione del Campidoglio o della Casa Bianca.

L’11 settembre del 2001, allo schianto in diretta del secondo aereo sulla seconda torre, lì, quella mattina, in quel momento, quando il mondo intero ebbe la prova inconfutabile che l’America era sotto attacco, ebbene in quell’istante il gigante americano perse per sempre la sua aurea d’invincibilità .

Da quel momento in poi iniziava un nuovo gioco, anzi, per la prima volta l’America scendeva in campo al pari degli altri. Il Vietnam era stato il più grande incidente, anche se non l’unico, di una partita che in realtà  non era mai iniziata, perché guerra fredda, diplomatica, lontana più che dal cuore dalle braccia e dalle gambe degli americani che si sentivano così al sicuro, così distanti dalle barricate nei loro giardinetti con canestro sul muro, così forti, così invincibili.

Ma oggi la competizione li chiama, li ha sorpresi tragicamente e loro devono rispondere. Per giocare, si sa, serve umiltà . Non è facile per chi fino a poco tempo si sentiva, e nemmeno a torto, il padrone del mondo. Ma era seduto in poltrona, oggi scende per la prima volta in campo, non più vergine del sangue in casa propria per mano del nemico.

Passare adesso al basket non è facile, ma sono sempre il presuntuoso, idealista e incurabile sognatore di prima. Il gioco è iniziato con l’avanzare della globalizzazione, la NBA è piena di giocatori stranieri, anche star, con uno Steve Nash due volte MVP della Lega, gli USA perdono ormai puntualmente ad ogni competizione internazionale, l’ultima ai mondiali in Giappone.

“C’era una volta in America””.

Non ho fatto un prologo così lungo per non passare al basket senza un ponte. Ragazzi, agli americani, oggi che la partita del Terzo Millennio è appena iniziata, serve semplicemente quello che il caro istruttore dei Marines urlava alle reclute in Full Metal Jacket.

Impegno, dedizione, sacrificio, umiltà , coraggio, doti che Team USA ha clamorosamente lasciato in uno di quei grandi frigoriferi che si vedono nei telefilm.Così grandi che c’è un talento enorme, limpido, puro. Ma la modernità  ci insegna che per vincere oggi, con così tanta competizione mondiale, non serve solo il talento, servono anche gli urli del tenente dei Marines.

Internet è bello e caro, puoi chattare con un agricoltore indiano e devolvergli 100 dollari per combattere l’aridità  delle loro terre, o guardare film porno in alta risoluzione. Ma è anche possibile che un ragazzino argentino si scarichi un mix di Michael Jordan, poi vada per strada a cercare per ore un canestro che non c’è”.lo trova, scaccia un gruppetto di bambini che sognano di diventare il prossimo Maradona, tira ad un canestro, fa una penetrazione”.

Siamo tutti più vicini, il leader kamikaze dell’11 settembre Atta prenotò un corso di volo in America dalla Germania, è tutto più facile, veloce, ma è la competizione che ci unisce perché ognuno ha una propria identità  prima personale, poi nazionale, e ognuno naturalmente vuole che si affermi la sua in questo gioco in cui tutti partecipano, nessuno escluso.

Ho già  detto con cosa si scende in campo. Innanzitutto con il talento, poi con il pacchetto del tenente. Nel basket nessuno ha più talento dei giocatori americani, è sempre stato così….questo gioco l’hanno inventato loro”.è così oggi”.Kobe e Tmac, Iverson e Lebron, game over”.e penso che sempre lo sarà . Voglio che sia molto chiaro in questo.

Ma nell’NBA sono entrati negli ultimi anni giocatori stranieri di grande talento, tanto che secondo me oggi non ha più senso parlare di All Star Game tra le due conference perché una partita delle stelle tra americani e stranieri sarebbe tanto equilibrata quanto spettacolare. Proviamo un po’ ad immaginarla.

Il mio quintetto per talento degli stranieri sarebbe Nash, Ginobili, Kirilenko, Nowitzki, Yao. Bella squadra, e se proprio insistete vi do anche 7 cambi, Parker, Barbosa, Diaw, Gasol, Stojakovic, Bogut, Ilgauskas e ho lasciato a casa Giricek, Delfiino, Pietrus, Pachulia, Arroyo, Radmanovic, Nesterovic, Dalembert, Nenè e altri ancora.

E’ la squadra di un due volte MVP della lega (Nash), di una superstar come Nowitzki, di Yao amore di Stern che porta a paparino tanti dollaroni, insomma sono forti, si qualificherebbero sicuramente ai playoff NBA e forse arriverebbero tra le prime 4.

Ma la squadra americana rimane un’altra cosa. Nella migliore delle ipotesi : Iverson, Kobe, Tmac, Garnett, Shaq e dalla panchina che in un ipotetico roster migliore della NBA secondo me includerebbe il solo Nowitzki s’alzerebbero i vari Carter, Wade, Lebron, Carmelo e compagnia bella.

Ragazzi, credetemi non c’è gara. Come talento non c’è assolutamente gara, non si comincia nemmeno a discutere. Appunto, a discutere, in un mondo ideale. Ma se si dovesse giocare una partita un braccio si chiama talento, l’altro si chiama tenente dei Marines. Ebbene, Iverson si dispiacerebbe che Kobe ha l’ultimo tiro, Tmac vuole più isolamenti, Lebron non è The Chosen One per niente”si comincerebbe assolutamente a discutere.

Il problema è semplice e lo ripeto allo spasimo, non è una questione di talento. Il resto del mondo è migliorato certo, ma gli stranieri nella NBA come i rivali degli USA sul campo di questo mondo globale sono più motivati a combattere il gigante/impero che loro a riconoscere di aver perduto l’innocenza e quindi a combattere con umiltà .

I giocatori stranieri sono più tecnici, si specializzano come gli operai nelle fabbriche (Udrih è nella NBA per il lavoro sporco e un po’ di tiro), lottano, difendono, è la scuola dapprima europea (memore dell’epopea sovietica e poi iugoslava) poi anche argentina che privilegia il lavoro di squadra, la crescita nei fondamentali, la difesa come chiave per la vittoria.

Principi che i ragazzi americani non apprendono da subito perché la modernità  ha portato (io dico per fortuna per lo spettacolo) i ballers dell’And1 come miti da seguire, Hot Sauce che palleggia sotto le gambe, in testa agli avversari, facendo giochetti incredibili che stupiscono lo spettatore tanto chi guardava solo l’NBA e urla “E’ passi !!!!”.

No, è solo un aspetto del basket, ma poi nell’NBA, nell’affrontare il mondo magari con le regole FIBA che te ne fai di Air Up There che schiaccia dopo un 720, di orde di ragazzini che li seguono come star di Hollywood.

Bene, anzi benissimo, perché solo il primo a cui piace la strada, però ritorno qui a dire che la scuola americana ha altri miti. Ecco, magari segue anche gli stessi principi di quella europea, anzi li porta ad un livello artistico nelle favolose università  americane, ma se poi Lebron non ci va e decide di fare il grande salto questo è il problema.

La scuola americana è diversa non perché siano diversi i suoi principi ma per gli interpreti di questo gioco. I migliori sono ragazzi afro-americani che nella maggioranza vedono alla NBA una valvola di sfogo o più pienamente una via uscita dal ghetto e quindi dalla droga e dalla criminalità . Sono gli atleti migliori del mondo, i più veloci, quelli che saltano più in alto, se hanno anche una palla in mano e un po’ di talento sono semplicemente inarrestabili.

Magari i ragazzi europei hanno un tiro migliore, difendono di più, hanno fondamentali migliori ma se vogliamo misurare in assoluto il talento maggiore l’americano ti salta in testa, ti mette con il sedere per terra e ha anche un senso dello spettacolo infinitamente superiore, specifico dono della cultura americana dove lo show può essere spesso fine a se stesso ma è sempre parte del loro carattere.

Se questi ragazzi, con il loro senso dello spettacolo e con i loro miti vogliono imparare anche i fondamentali o forse affinarli, vogliono apprendere insomma quello che nel resto del mondo è l’unica arma per poterli vincere devono andare all’università .

Ma se l’università  è l’unica opportunità  per questi ragazzi di apprendere oltre al talento (che in vero è innato) lezioni sul basket e loro non ci vanno allora non bisogna indugiare oltre, è maturo il momento di rendere il college obbligatorio per tutti, per l’intero quadriennio.

In NBA i ragazzi americani saranno più maturi, umanamente e tecnicamente, Team USA avrà  chance in più sul terreno della vittoria che si conquista dalla difesa, dal lavoro di squadra”.poi la NBA sarà , così, dominata per sempre dai Lebron, Kobe, Garnett che, Dio li benedica, del college non hanno avuto bisogno per il talento ma chi lo sa, oggi sarebbero ancora più forti perché difenderebbero di più, sarebbero disposti più al sacrificio quando rappresentano la nazionale.

E’ un’idea, una delle tante, se mai veramente può essere il college a cambiare la mentalità  degli americani. Io non ci credo più di tanto. L’11 settembre ha portato tragicamente l’America in partita, nel basket come nella realtà  sociale vinceranno se avranno più motivazioni, basta poco, solo questo, rimangono i più forti come l’unica superpotenza politico-economica-miltare e d’influenza culturale, si pensi ai film.

“C’era una volta in America””.oggi non c’è più”

“o forse ha semplicemente cambiato nome, il modo d’esprimersi, e noi a stentiamo a riconoscerlo come De Niro invecchiato alla fine della sua vita, tradito dal suo amico più caro in nome del cinico potere, cieco alle passioni e agli ideali.

Da 5 anni esatti non è cambiato il talento di ognuno, le sue passioni, i suoi ideali. Sono cambiate le regole del gioco. E’ più difficile vincere ma finalmente più facile e più vero sentirsi campioni del mondo.

[“C’era una volta in America” è il mio film preferito, non “C’era una volta l’America”, si badi bene, c’è sempre qualcosa che non muore mai]

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