Un lampante esempio dell'azione che danneggia l'attacco di Sacramento
L'atmosfera è di nuovo cupa, come fra fine gennaio e inizio febbraio; l'ultima, recente vittoria 106-90 al Rose Garden di Portland è un raggio di sole in uno spogliatoio che, prima della partita, non traboccava certo di ottimismo. Sono ricomparse le contestazioni all'Arco Arena; i tifosi scontenti per le due sconfitte consecutive patite da Golden State e Washington han fatto sentire la loro voce.
Tutto è tornato in bilico per i playoffs: non tanto per il risicato vantaggio sugli Utah Jazz, quanto per il calendario delle prossime settimane.
Sacramento è attesa da una nuova mini tournè in trasferta fra San Francisco, Dallas, San Antonio e Los Angeles, sponda Clippers. Fortunatamente Utah avrà otto delle ultime dodici partite in trasferta contro avversarie di livello simile. In queste condizioni però un vantaggio di una partita è mezza, per di più determinato dall'ultimo scontro diretto, non significa nulla. Dal canto loro gli Hornets, a due partite piene di distanza, avrebbero un calendario più semplice, anche se non sembrano più la squadra che ha incantato Oklahoma.
Il vero mistero è capire cosa sia successo alla squadra che aveva vinto 14 partite su 18 tra il 3 febbraio e il 14 marzo. Perché è brutto dirlo ma quella, nella stagione dei Kings, è la vera eccezione. Dal 17 marzo, giorno della sconfitta 98-93 alla Conseco Field House, sono arrivate cinque sconfitte in otto partite. Due sole volte i Kings sono andati oltre i 100 punti, contro i Blazers e contro i Sonics, non proprio la versione occidentale dei Bad Boys di Thomas e Dumars.
Nel mese e mezzo da sogno le partite oltre i cento punti erano state 12 su 18. Come si sa i numeri non significano nulla senza la loro interpretazione. "Penso che nelle ultime partite - ha dichiarato Rick Adelman - la squadra non abbia giocato come tale: abbiamo mosso troppo poco la palla in attacco non creando opportunità per tiri semplici. Ci siamo semplicemente accontentati della prima conclusione disponibile."
La cartina di tornasole della squadra in questi casi è Brad Miller perché l'ex Pur due University è il primo a soffrire in termini di tiri e punti quando la palla non gira; sembra fin troppo facile dirlo all'indomani di una partita da 24 punti in cui la squadra ha vinto. Dal coinvolgimento offensivo dipende anche la concentrazione e la grinta che il centro dell'Indiana mette nelle altre fasi del gioco: ecco quindi spiegate le recenti "figure da niente" contro giocatori come Kwame Brown e Adonal Foyle.
Se la palla in attacco ristagna, è facile notare l'affollamento in post basso dove Artest, Rahim e Bonzi Wells, recentemente tornato in quintetto per l'infortunio di Kevin Martin, sembrano fare a turno. Ron Artest è in un periodo offensivo di grande difficoltà ; sembra quasi che i fischi del suo vecchio pubblico abbiano rotto le armonie con le quali il giocatore era approdato nel nord California.
Nelle ultime 7 partite il giocatore ha messo assieme un "gelido" 38 su 118 al tiro; il 30% delle sue conclusioni arrivano dall'arco del tiro da tre. Il resto è frutto di azioni di post basso e di avvicinamento a canestro: "Mi piace quando l'attacco parte da me - ha spiegato recentemente il giocatore - perché posso creare per me e per i miei compagni."
Nella realtà dei fatti Artest è un buon attaccante che si crede ottimo; spesso tende a forzare soluzioni. Al di là delle brutte percentuali, minimo storico il 2 su 12 di Salt Lake City, è l'attacco complessivo che perde in fluidità . Anche perché, e qui viene l'altro aspetto del problema, Wells ma soprattutto Rahim hanno grosso modo le stesse caratteristiche. Per questo l'attacco funziona meglio, non guardiamo ai tabellini individuali ma all'efficacia complessiva, con uomini come Thomas e Garcia che, per essere produttivi, non necessitano di situazioni statiche disegnate apposta per loro.
Rick Adelman ha inizialmente dato carta bianca al suo nuovo giocatore, ritenendo che il newyorkese avesse bisogno di spazio per inserirsi al meglio e sfruttare a pieno la sua versatilità ; ora però sarebbe il caso che gli dicesse due parole. Artest si sente leader e, come tale si comporta in termini di "presenza offensiva". Dovrebbe capire d'essere più efficace nelle situazioni in cui non si propone come prima punta, bensì come uno dei cinque.
Adelman avrebbe tra l'altro un vantaggio doppio da una situazione del genere perché, l'ex Pacers non smette di difendere, come fanno molti attaccanti Nba, in relazione al numero di tiri che può prendere.
Il coach ex Portland ha anche l'arma per imporsi: può far notare il parziale di febbraio e inizio marzo per dire che quando si è fatto in un certo modo i risultati sono arrivati.
Sarebbe un "vago" ricatto ma il fine giustifica i mezzi se dall'esito delle ultime dieci partite dipende quell'approdo alla post season che, è bene ricordarlo, all'inizio della stagione sembrava l'obiettivo minimo per questo gruppo.
Allo stato attuale appare più come una grazia ricevuta.