Una delle tante foto di repertorio che ritraggono Iverson contro Bryant
Allen Iverson, LeBron James, Kobe Bryant, tre modi assolutamente diversi di interpretare il medesimo gioco: è possibile confrontarli?
In senso assoluto, certamente no, ma si possono paragonare alcuni aspetti del loro gioco e della loro personalità , traendone un bilancio in cui ciascuno dà il suo voto ad ogni caratteristica.
Bisogna sgombrare il campo da alcune suggestioni: che Kobe batta i Mavericks 62 a 61 o che LeBron segni 52 punti in una gara o AI vari quarantelli non comporta automaticamente una loro prevalenza sulle altre star.
Ciò che fa di un giocatore una vera superstar è il rendimento in una intera stagione, nelle partite e e nei finali di gara che contano e, soprattutto, nei playoff. Detto ciò, c'è un altro aspetto che rende un campione un vero volano per l'intera squadra, ed è il carisma, la leadership, come dicono gli americani.
Cosa sia questa categoria così semplice in apparenza, ma in realtà così sfuggente, è presto detto: non è la prepotenza di voler imporre le proprie scelte, nè la tendenza a giocare da soli, ma la capacità , col proprio gioco, di trascinare i compagni a rendere di più e meglio, ciascuno con le rispettive caratteristiche e peculiari abilità .
Michael Jordan, a 40 anni suonati, era ancora un esempio per i compagni quanto ad abnegazione in allenamento, voglia di sudare sul parquet, energia nel difendere. Già , perchè un vero leader difende, oltre ad essere spesso il top scorer, quanto e più degli altri.
Inoltre, un vero leader si dimostra tale anche quando il suo coach non brilla per personalità , giocando comunque per vincere anche quando la sua squadra non va bene.
Detto ciò, viene fuori una classifica della leadership dei tre giocatori in base a questi parametri:
1°) Iverson;
2°) LeBron;
3°) Kobe.
Perchè? Perchè un Iverson senza Larry Brown come coach sembra ancora più dominante con Maurice Cheeks, allenatore a lui gradito perchè lo lascia giocare come vuole e come sa.
Invece, un Bryant senza Jackson…l'abbiamo visto lo scorso anno, con un organico non molto dissimile da quello del 2005 – 2006, giocare da solo, sbagliare più tiri, annientare un signor partner come Lamarvellous e portare giù a capofitto i suoi fuori dai playoff.
Cos'ha che non va Kobe Bryant? E' un carattere molto difficile, orgoglioso, cattivo con gli avversari anche al di là del necessario, incapace di fare gruppo coi compagni, deciso a vincere da solo le gare perchè abituato a primeggiare a causa dei suoi straordinari mezzi fisici e tecnici, portato all'egocentrismo ed al senso del dramma ed in grado, con una straordinaria volitività , di sostenere le enormi responsabilità che si prende nei finali di partita, ma al solo scopo di primeggiare lui, piuttosto che di far vincere i suoi.
Diciamolo chiaro: quando il suo ex coach (oggi non più ex!) scrisse di lui che era un bambino capriccioso ed il suo ex compagno Shaq, con parole meno eleganti e forbite, espresse la sua incapacità di superare la ragnatela difensiva di Detroit alle finali del 2004 e sacrificarsi per un gruppo comunque fortissimo, non avevano torto.
La verità è che questo splendido giocatore le responsabilità se le assume solo in caso di vittoria (tutte) e le scarica sui compagni in caso di sconfitta. Detto ciò, attualmente è uno degli attaccanti più forti in assoluto sul pianeta, discontinuo al tiro da tre punti, ma anche in grado di stabilire il favoloso record di 12 triple in una gara, praticamente immarcabile in penetrazione, anche tra una selva di braccia protese: sgusciante come un'anguilla, ama le giocate nel traffico e conclude spesso in schiacciata le penetrazioni.
Ultimamente ama molto le penetrazioni rovesciate con schiacciata all'indietro ad una mano, quasi mai stoppabile. Anche il suo tiro in area e dalla media è in parte discontinuo, tra un quarto di gioco e l'altro, ma tende a diventare infallibile ed entrare “in striscia” nei dintorni del quarto quarto di gioco, ma anche nel terzo quarto.
Autore di una caterva di canestri decisivi, anche durante i playoff, è giocatore collaudato sotto pressione, e in tali casi anzi si esalta a tal punto da essere secondo, su questo aspetto, solo al mitico Michael Jordan.
Difensore individuale “velenoso”, se ce n'è uno, tra rubate e stoppate imprevedibili ed un costante fiato sul collo del suo diretto avversario, ama molto meno la difesa di squadra e sacrificarsi per gli altri, così come il gioco organizzato: solo un coach “Zen” come Phil Jackson ha dimostrato di saperlo ben gestire, alternando, con questo cavallo di razza, il bastone e la carota.
Ricordiamo di lui due anni fa, quando, a causa di un infortunio alla mano destra, riusciva ugualmente a segnare una caterva di punti con la sinistra, senza essere ambidestro. Un giudizio su di lui può essere solo questo: “non sfidatelo, soprattutto nei playoff, perchè avrete la peggio, ma se proprio dovete giocarci, raddoppiatelo in continuazione e fatelo innervosire: il ragazzo tende a perdere lucidità quando i suoi difensori non perdono la calma”.
Allen Iverson è il non plus ultra del giocatore di playground: mortifero nel tiro, immarcabile in pentrazione, sgusciante in palleggio (è l'unico a usare meglio di chi l'ha inventato, Tim Hardaway, il famoso “crossover”), in grado di scaricare magistralmente dalla penetrazione decine di assist, generoso in attacco ed in difesa, capace di vincere anche da solo le gare, ma spesso in grado, soprattutto negli ultimi due anni, di coinvolgere i compagni nel gioco, è un difensore fantastico se si tratta di velocità e furti di palloni, con il solo limite della stazza assai esigua.
Non ci importa se vesta hip hop, mandando su tutte le furie il Commissioner, nè dei suoi tatuaggi, della sua tendenza a regolare con la pistola le questioni matrimoniali o a frequentare tavoli da poker: Iverson è un giocatore che ci emoziona sempre, che fa sognare chi è “normale” e sogna di giocare a basket con i “grandi”, con un repertorio di finte e di tiri “arrotolati” che nessun videogioco sarà mai in grado di riprodurre, perchè è sempre diverso e perciò imprevedibile.
Amiamo il fatto che giochi anche acciaccato e con il dolore addosso, che sbagli qualche tiro di troppo, ma che segni sempre quelli decisivi. Non ha mai vinto un titolo, ma non aveva Shaquille O'Neal come centro, ed è stato comunque capace di portare i suoi praticamente da solo alle finals e questo la dice lunga sulla sua abnegazione e generosità .
Giocatore non certo playmaker puro, si è inventato da un paio d'anni la capacità di orchestrare l'attacco grazie alla sua immensa classe, scaricando sui compagni decine di assistenze. A lui si devono l'esplosione di Dalembert come centro, gli spettacolari alley-hop di Iguodala in attacco, il ritorno come attaccante di un Webber acciaccato, ma sempre dotato di classe immensa e mani fantastiche.
Il giudizio su di lui, per me, è uno solo: “Fino ad oggi, l'MVP della lega”.
Il “caso LeBron” personalmente mi lascia perplesso e sgomento. Perplesso per l'immensa dote di talento e mezzi fisici di cui gode “the chosen one” , “il prescelto”, sgomento per come un tale talento potrà ancora migliorare da qui a 10 anni di NBA.
Non è possibile che un 20enne sia alto 2,03 mt. e pesi 115 chili di masse muscolari asciutte ed elastiche, che salti a quel modo, che passi la palla con tale maturità , che segni con tale scioltezza tiri da otto metri e che accelerai così forte in palleggio contro difensori più piccoli e (in teoria) più veloci di lui. Nessuno l'ha mai fatto, se non il primo Jordan, forse.
Ma rispetto a questi c'è qualcosa in più e qualcuna in meno: passa la palla meglio di lui (ed è tutto dire), a soli vent'anni, ed è sicuramente più forte e potente fisicamente, tanto da amare il contatto fisico (i meno giovani si ricorderanno di un'altra guardia così: Bernard King), ma difende molto meno bene, anzi, direi che si risparmia molto in difesa, eccetto che per fulminee palle rubate e qualche stoppata e per prendere rimbalzi.
Al momento, le sue statistiche si avvicinano paurosamente a quelle di un Magic Johnson, con più punti segnati e qualche rimbalzo in meno, ma con un potenziale offensivo decisamente superiore. Resta un'incognita, ancora, la sua tenuta sotto pressione, non avendo ancora disputato i playoff, ma si ha la sensazione che costui lascerà un segno indelebile su questo pianeta prima di lasciarlo.
Mike Brown non mi sembra il coach adatto ad insegnargli a difendere, e quindi lo vorrei vedere o in un contesto vincente, o con un diverso allenatore: un Jackson, un Popovich, un Brown (Larry), o un Pat Riley, ma ciò che è certo è che questo giocatore è ancora indecifrabile per molti.
La sua capacità di alternare punti ed assist è di una maturità ancora inspiegabile, mentre sono in costante miglioramento le poche pecche offensive, come un tiro da fuori non sempre costante.
Quanto alla leadership, anche quella è in costante crescita, e si è fatta più “silenziosa” di quando era un diciottenne agli esordi. Su di lui non possiamo che dire: “Se impara a difendere, questo è il più forte di tutti!”.
Buon 2006!