Se perfino i Warriors riescono a essere vincenti, vuol dire che qualcosa sta cambiando…
"Scusate, è qui la festa?" sembrano chiedere i tifosi degli Warriors e dei Clippers, un tantino meravigliati dell'andamento dei propri beniamini, nelle prime posizioni della Pacific Division, con un record finalmente importante, dopo anni di vita da bassifondi.
E la festa sembra sia appena iniziata proprio lì, sulla West Coast, specialmente in quel tratto che dalla Baia di San Francisco scende verso la Città degli Angeli ; da quando i Minneapolis Lakers vi si trasferirono nel 1959, la città è divenuta la capitale dello "Showtime", una pallacanestro frizzante, tuttocampo, offensiva ed altamente spettacolare, specie con interpreti del calibro di Jerry West, Magic Johnson e Kareem Abdul Jabbar e, più tardi, il duo Kobe-Shaq, campioni che hanno fatto la storia dei Lakers e della Lega.
Però questa volta non sono i Lakers, impantanati in un lungo processo di ricostruzione sotto la guida del "Maestro Zen" , bensì i Clippers, per lungo tempo i parenti poveri dei ricchi e famosi nababbi in gialloviola, ad ottenere le luci della ribalta principale.
Infatti, dopo aver lasciato San Diego, dove erano giunti col nome Braves da Buffalo solo otto anni prima, i Clippers sono approdati nel 1978 a L.A. dove hanno vissuto diversi anni senza andare ai playoffs, condannati alla mediocrità da un presidente affarista, poco incline a reinvestire gli introiti in salari per stelle di prima grandezza ; quando una star giungeva ai Clippers era sempre di passaggio, perché tempo un anno veniva smistata in cambio di scelte future al Draft , contanti o mestieranti di poche pretese (e capacità ).
La squadra attuale, però, è stata costruita pezzo per pezzo dalle sapienti mani di coach Mike Dunleavy Sr. che ha saputo aggiungere l'esperienza e la leadership di "Sam-I-Am" Cassell ad un guppo ricco di talento, capitanato da Corey Maggette tra gli esterni ed Elton Brand sotto canestro, e che ultimamente ha visto anche il lungo Chris Kaman e il talentuoso ed altissimo playmaker, il rookie Shawn Livingston, ritagliarsi spazi da protagonisti in un gioco frizzante, improntato sulla grande pericolosità offensiva che finora sta fruttando il primo posto nella Pacific Division, con un record di 15 vittorie e 8 sconfitte.
Risalendo lungo la Pacific Highway verso nord si giunge nella Bay Area, da sempre culla di un basket votato all'attacco, certamente spettacolare ma non sempre vincente, ad eccezione del periodo in cui a San Francisco furoreggiava il "RUN TMC", ovvero tre dei più spettacolari ed esaltanti esterni che si siano mai visti giocare assieme : Tim Hardaway, Mitch Richmond e Chris Mullin.
Mike Montgomery, il coach proveniente dal rinomato college di Stanford, ha saputo fondere il talento di Jason Richardson, Troy Murphy, Mike Dunleavy Jr. e Derek Fisher con uno dei giocatori individualmente più devastante, che risponde al nome di Baron Davis e fornire alla squadra una organizzazione di gioco dinamica e funzionale, che ha portato già nella seconda parte dello scorso anno gli Warriors ad un record vincente che però, mediato da quello disastroso della prima parte di stagione regolare, non è bastato a raggiungere i playoffs.
Però quest'anno ad Oakland hanno giurato di raggiungere l'agognato traguardo, che vorrebbe dire perdere quella sinistra fama di squadra materasso ed acquisire, assieme ai playoffs, quella ben più lusinghiera di team rivelazione. Quest'anno, dopo le prime 24 gare, il bilancio recita 14 vinte e 10 perse ed il terzo posto nella Pacific Division e ciò fa ben sperare i sostenitori degli Warriors.
Attese di conferma per la rivelazione del 2004-05, i Suns di coach D'Antoni, troppo presto arenatisi nei playoffs, vittime forse della stessa concezione di gioco che li ha portati così in alto ; grande presenza sul perimetro ma solo dinamismo sottocanestro, ricetta che nei playoffs non ha finora mai pagato, se si eccettuano i Lakers di Magic, dove però egli stesso e AC Green davano una più che sostanziosa mano a Jabbar e Rambis.
La banda capitanata da Steve Nash, inoltre, gioca quest'anno senza il suo principale uomo d'area, Amare Stoudamire, il cui infortunio, che lo terrà lontano dai campi per lunghi mesi, pare poter condizionare significativamente questo inizio di campionato, in cui Phoenix occupa il secondo posto nella Pacific, con un bilancio vincente di 14 vittorie e 9 sconfitte.
E pensare che da New York era stato prelevato in estate il centro Kurt Thomas, in cambio di Quentin Richardson, destinato a far spesso coppia con Amare Stoudamire e rendere più "quadrata" , più "da playoffs", una squadra sbilanciata sui ruoli esterni, in cui il talento scorre a fiumi : Steve Nash è un'autentica macchina da canestri e assist, ben coadiuvato da Shawn Marion sul perimetro, dove peraltro i sostenitori dei Suns non troveranno neppure Joe Johnson, andato a "fare il leader" nella cenerentola Atlanta.
Però coach D'Antoni sembra aver optato per distribuire il minutaggio e soprattutto le responsabilità offensive tra diversi giocatori, tra cui lo stesso Thomas, autore di una quasi doppia doppia per allacciata di stringhe (9 punti e 9 rimbalzi di media) e poi Barbosa, Raja Bell, Eddie House e Boris Diaw, tutti oltre la doppia di punti a partita.
"Primo, non prenderle" sembra un motto sconosciuto a queste tre franchigie, che invece preferiscono "segnare un punto più degli altri" come lo scorso anno anche Seattle, il cui record perdente di quest'anno è frutto di un ridimensionamento degli obiettivi e conseguentemente del roster, senza contare il cambio della guida tecnica.
Ma un'altra squadra sembra in questa prima parte dell'anno aver abbracciato questo credo, senza però venir meno alle proprie convinzioni offensive. Si tratta nientemeno che dei vicecampioni uscenti, i Detroit Pistons che, congedato il santone Brown, oggi alle prese con il rompicapo NewYork, hanno affidato il roster, praticamente immutato da tre anni nei ruoli chiave, a Flip Saunders.
Coach di provate capacità ed esperienza, non un players' coach ma neppure un integralista del "to play in the right way" , Saunders pare aver riscosso notevole successo tra i giocatori, specialmente quel Chauncey Billups che, data un'organizzazione tattica più flessibile in cui può tornare a realizzare oltre che creare per la squadra, sta viaggiando su medie considerevoli per il ruolo (18,4 punti e 8,8 assistenze per gara).
Dietro di lui l'intera squadra, che detiene il miglior record di Conference e della intera NBA, con 18 vittorie e solo 3 sconfitte, mostra un basket fatto di giochi ed isolamenti opportuni, senza trascurare il proverbiale marchio di fabbrica della squadra di Motown, cioè la difesa, che funziona a pieno regime anche quest'anno. Un basket forse più essenziale rispetto a quello voluto dal santone da UNC, forse troppo intriso da influenze color del cielo, e per ora sicuramente redditizio.
Per concludere una considerazione personale riguardo a questa nouvelle vague del gioco con 4 piccoli e un solo lungo, comunque molto dinamico.
Si tratta di una scelta complessa che presenta pregi e difetti : tra i primi la pericolosità offensiva intrinseca al fatto di attaccare con 5 terminali offensivi. Poi il fatto che questo tipo di attacco punisce i missmatches con la velocità , dato che pochi lunghi sono dinamici e poche ali grandi hanno la velocità di un'ala piccola e si trovano in difficoltà nel marcare il quarto esterno.
Inoltre la miglior selezione dei tiri, che derivano quasi tutti da situazione di campo aperto o scarico dei penetratori, che rivestono enorme importanza in questo tipo di attacco.
Infine, la spettacolarità di questo modo di giocare, che in difesa si estrinseca in grande aggressività sugli esterni e mobilità , spesso con utilizzo di difese alte e pressanti, che portano a recuperi e stoppate, cose che il pubblico gradisce sempre vedere.
Però se si vuole coniugare lo spettacolo alla vittoria, possibilmente nelle 7 partite della finale, occorre che la squadra sia bilanciata, sia attrezzata e sappia giocare diversi tipi di pallacanestro e mostri meno punti deboli che sia possibile al proprio avversario.
Tra le squadre citate, Detroit mi pare l'unica, ancora oggi, a poter arginare lo strapotere degli Spurs, i campioni uscenti, unico vero schiacciasassi di questa stagione.
Detroit appare più bilanciata e dotata di individualità obiettivamente più forti rispetto ai Clippers o gli Warriors, a cui però un tipo di gioco offensivo come questo consentirà di raggiungere i playoffs senza troppi patemi, a meno di scivolate d'ala nei prossimi mesi di regular season.
Phoenix, invece, benché sensibilmente più forte di queste ultime, mi pare ancora una volta troppo sbilanciata in questo assetto offensivo, e però credo sia doveroso lasciare alla squadra di D'Antoni il tempo di reinserire Stoudamire prima di esprimere giudizi affrettati.
Va tenuto anche conto del fatto che, a parte la tradizione che vuole le squadre "leggere" mai vincenti nei playoffs (ma c'è sempre una prima volta"), un gioco prettamente offensivo e tuttocampo porta ad un maggior logorio i giocatori durante la stagione regolare e quindi, in vista dei playoffs, a stelle più stanche e meno pronte a quei guizzi, quelle prestazioni straordinarie che spesso hanno deciso le serie e hanno fatto la storia dei playoffs.
Nella miglior tradizione di imprevedibilità della NBA, per sapere quanto questi attacchi saranno vincenti si tratterà di aspettare che l'ultimo pallone entri nel canestro, ma se il buon giorno si vede dal mattino, i sostenitori di questo tipo di pallacanestro potrebbero aver visto giusto… o no?