Fa impressione parlare di Kevin Garnett per quel che succede attorno a lui fuori dal campo
Difficile rimettere in piedi un vaso finito in mille pezzi nel momento meno opportuno; Difficile ricostruire una squadra che, giunta ad un passo dalle finali Nba, s'è sfaldata invece che sfruttare la disapparizione di chi aveva stoppato quella brillante cavalcata. Minnesota e Kevin, Timberwolves e Garnett, una storia che va avanti da 11 anni; e, secondo qualcuno è prossima alla conclusione.
Flashback all'incontro di pre-season contro Indiana; "Da-Kid" ha già giocato 23 minuti, è seduto in panchina e per quella sera è destinato a non rientrare a dispetto dello svantaggio della sua squadra. Coach Dwayne Casey chiama time out, ma ancor prima di aprir bocca, è zittito dall'appassionata arringa del faro della franchigia, urla e imprecazioni nello sconcerto generale. Obiettivo: spronare i compagni. Passa qualche secondo, la partita riprende: Casey si avvicina a Garnett, gli dice qualche parola. Il prodotto di Farragut Academy sembra annuire ma, dopo qualche attimo, riprende a urlare all'indirizzo di Michael Olowokandy, che dovrà pur servire a qualcosa.
"E' stato imbarazzante - ha spiegato il coach - non perché Kevin abbia detto cose sbagliate. Non è quello il suo ruolo. Lo farò giocare di più almeno non prenderà più il mio posto." E' curioso come qualche anno fa lo stesso atteggiamento sarebbe stato preso come l'insopprimibile voglia di vincere del cavallo di razza. Ora, con un titolo di Mvp ed uno sciopero occulto di 45-50 partite alle spalle, la situazione è diversa. "Kevin è nella lega da ormai tanti anni (29, la sua età ndr) - ha precisato il general manager Mc Hale - e siamo cresciuti assieme giorno dopo giorno aiutandoci a vicenda ed aiutando i compagni." Che suona un po' come: Garnett se lo può permettere.
Casey s'è appena riaggregato alla squadra: è volato nell'Indiana dopo la vittoria con Los Angeles per i funerali del padre, morto per complicazioni cardiache connesse al suo diabete. La squadra è stata allenata da Johnny Davis, l'ex coach di Philadelphia e Orlando, che ha cercato di proseguire nel lavoro del suo superiore. Ma il centro dell'attenzione spetta sempre a Garnett; recentemente il giocatore ha dovuto smentire le voci sul licenziamento del suo storico agente Andy Miller: "Il nostro rapporto - ha spiegato il giocatore a margine di un'iniziativa di beneficenza per gli sfollati colpiti dall'uragano Katrina - è più saldo che mai. Ho solo stipulato un accordo con l'agenzia William Morris per la gestione delle mie sponsorizzazioni." Detto questo, che Garnett sia inquieto è un dato di fatto; altrove, sul sito potete leggere delle ipotesi di scambio concrete o fantasiose che potrebbero coinvolgerlo. Aggiungiamo una variabile fondamentale a quanto scritto precedentemente: se il giocatore vuole una squadra più competitiva non è detto sia facile ricollocarlo. Ma se cerca maggiore "esposizione pubblicitaria" il Minnesota non è il meglio a cui ambire.
Rimangono le ragioni tecniche di questo suo malcontento: "Kevin sa già di essere un Hall of famer - spiega Sam Mitchell, prima guida spirituale del giocatore nella lega, ora confinato sulla panchina dei Raptors - e si rende conto che il tempo sta passando senza una concreta chance di vincere qualcosa." Il solito discorso, leit motiv per tanti altri grandi. Dal '97 Garnett non ha mai fatto segnare meno di 20 punti, 10 rimbalzi e 5 assist. I numeri possono tradire perché l'anno scorso il giocatore, più o meno per scelta, si espresse al di sotto delle possibilità . La rinuncia a Cassell non lo ha convinto del tutto. Altro aneddoto raccontato dallo stesso Mitchell, quello che 10 anni fa prendeva sottobraccio i giornalisti per raccomandar loro di tener d'occhio il ragazzo: "Nell'anno del suo esordio - spiega il coach di Toronto - ogni tanto lo prendevo in giro per l'abbigliamento e per tutto l'oro che si portava al collo. L'anno scorso ne abbia riso, una sera che Kevin si presentò al palazzo in giacca e cravatta." Come dire: Garnett sa riconoscere presunti errori ed è un generoso.
Il Campo Le prime due sconfitte della stagione sono venute in trasferta, in back to back al supplementare. Scherzi di una lega spietata, in fatto di calendario, con le sue squadre; ne hanno beneficiato Seattle e Los Angeles Clippers, successivamente battuti nello stato dei laghi. "E' positivo - ha commentato Casey - che la squadra debba affrontare da subito certe difficoltà ; ci aiuteranno a trovare unità di gruppo." Più o meno della stessa opinione Troy Hudson: "E' dura la vita in trasferta, si tratta di continuare a giocare con intensità ogni partita in programma." Sul significato della parola intensità in stagione regolare nella Nba di questi anni si potrebbe aprire un dibattito. Che non coinvolge di certo i soli T-Wolves.
Sul campo l'idea nuova portata dallo staff tecnico è quella di utilizzare il più possibile un quintetto piccolo con Troy Hudson, Marko Jaric e Antony Carter contemporaneamente sul terreno di gioco. S'è visto per la prima volta allo Staples Center in una partita particolarmente apatica per Wally Szczerbiak. "Vogliamo alzare il ritmo delle partite - ha spiegato il coach - e vedere cosa succede: la mia esperienza mi dice che di solito gli allenatori avversari tendono ad adattarsi a quello che tu metti sul campo. Se invece controbattono con giocatori grossi, bisogna esser bravi a sfruttare i vantaggi d'una situazione del genere." Il primo ad adattarsi in questi casi era proprio Flip Saunders. Casey non ne parla ma l'ulteriore spiegazione potrebbe stare nel "segreto" che Jaric nasconde, male peraltro, fin dai tempi della Virtus Bologna: il serbo è un'ala, prestato al playmakin'. Con tutti gli annessi e connessi.
Altro punto interessante è la definizione di una rotazione stabile; l'idea dello staff è quella di arrivare, prima o dopo, a 9 giocatori. Questo significa che "mad dog" Madsen e Frahm, i giocatori meno impiegati fra quelli messi in campo, potrebbero presto esser messi da parte. In questa scelta potrebbe giocare un ruolo fondamentale il "coach occulto", Kevin Garnett che potrebbe dare segnali di approvazione o meno.
Un mosaico complicato dal quale dipenderà il futuro immediato in termini di risultati sul campo, e le prospettive. Se, sulla scia di una serie di risultati inferiori alle attese, dovesse arrivare una richiesta di cessione, secondo i giornali di New York più che probabile, sarebbe sconvolto il quadro di una squadra che potenzialmente vale uno dei primi quattro posti della Western. E che quindi si propone come mina vagante del campionato. Al contrario, se il barometro volgesse al bello, Kevin Mc Hale, la cui posizione non è più così salda, potrebbe cercare di "accontentare" la sua stella portando a Minneapolis il giocatore che faccia dimenticare la nostalgia per Cassell, e perché no Spreewell.