Rasheed Wallace ad Est fa il bello ed il cattivo tempo…
Una è la squadra da battere. L'altra lo diventerà presto e intanto gioca vince e si diverte perché è già fortissima. Poi c'è la sorpresa dell'anno, e chi l'avrebbe mai detto che potesse andare così bene. Infine c'è un gruppo di ragazzi, guidati da un 39enne ancora piuttosto arzillo anzichenò, che sa e può dare ancora fastidio pur privo del suo migliore giocatore fino a fine stagione.
Detroit, Cleveland, Chicago, Indiana. Benvenuti nella Central Division. Benvenuti nella prima potenza della Eastern Conference.
Quattro squadre su cinque sopra il 50 per cento delle vittorie. Quattro squadre su cinque che andranno ai playoff. Metà griglia è roba loro e di nessun altro. Southeast e Atlatic stiano pure a guardare: magari un po' di briciole riescono pure a raccogliere (a parte Miami c'è giusto qualcosina per Boston e Orlando).
Central division. La terra dei pistoni ultimamente più ruspanti che mai, ma anche miniera d'oro per quel ragazzino che risponde al nome di Lebron James, nonché paese dei balocchi per i giovanotti di Chicago e dove anche Indiana è intenzionata a scavare ancora.
Chi manca? Ah già , Milwaukee, l'anno scorso una delle rivelazioni, capace di giocare una pallacanestro divertente, vincente e a tratti spumeggianti. Ma quest'anno la fortuna, i Bucks, non li ha nemmeno guardati di sfuggita: gli infortuni, guarda un po', a T.J Ford, Mike James, Keith Van Horn si sono aggiunti a un Michael Redd sempre immarcabile ma non come un anno fa. Risultato: cerbiatti fermi sul 41% di vittorie, playoff lontani e anzi: lo Sceicco Bianco è finito a Dallas in cambio di niente e quindi ricostruzione dall'anno prossimo con Redd a fare da uomo franchigia.
E così sono le altre quattro che banchettano allegramente. Così va avanti da un mese e così, a quanto sembra, finirà finché ci sarà benzina nelle gambe.
E dire che Detroit non è che fosse partita in quarta. All'inizio.
Eppure attualmente è, come già detto prima, la squadra da battere. Diciamocela tutta. Hamilton e compagni hanno iniziato a giocare forte da circa un mese e mezzo. Una prima parte di stagione anonima, un po' perché di vere e proprie stelle in squadra non ce ne sono, un po' perché qualche vittoria qui e poi qualche sconfitta là tanto i più forti siamo noi e c'è ancora tutta la stagione da giocare. Un po' perché Mr. Prince si è messo a fare Prince ancora più Prince di prima.
E così, con l'Airone più in forma che mai e incisivo sia in difesa che in attacco (quasi venti punti e oltre sei rimbalzi a partita nelle ultime 18), e la vera difesa granitica di coach Brown che piano piano sta uscendo fuori -ci sono le eccezioni, naturalmente: vedi le tre trasferte a Phoenix, Sacramento e Seattle- i Pistons sono in testa alla Division con il secondo record di Conference (davanti c'è solo Miami) con appena 89.9 punti subiti di media e un filotto di otto vittorie di seguito.
Il resto è roba già vista. Rip Hamilton sfiora i 20 di media. Billups tira benissimo dal perimetro (42%). Inossidabili gli Wallace (Rasheed al massimo in carriera di media nei rimbalzi: 8.2) e anche l'apporto del sesto uomo McDyess è consistente e concreto. Ciliegina sulla torta: Larry Brown eletto miglior coach di Febbraio. E pazienza se proprio coach LB tempo fa si era rifugiato in castelli costruiti per aria con il lego quando alla domanda: "Come mai una partenza così in sordina?" aveva risposto: "Sì no beh, la squadra era nuova, dovevo conoscere bene i nuovi giocatori"". Per la cronaca, l'unico giocatore degno di questo nome arrivato in estate è McDyess. Arroyo è arrivato solo a gennaio e giochicchia, niente di più.
Un gradino sotto, i Cavaliers. O bisognerebbe dire direttamente: Lebron James?
La stagione stellare di LBJ è stata già profondamente analizzata in altre sedi e forse aggiungere altra acqua al mulino servirebbe a poco. Ricordare le sue cifre, per quanto riduttivo, può bastare. 25 punti, 7 rimbalzi, 7 assist e il 50% dal campo solo sfiorato (48%).
Numeri che da capogiro è dir poco. Non tanto perché è un Sophomore, per usare un termine del collega. Non tanto perché ha 20 anni. VENTI. Quanto perché ogni partita dà l'idea di poterla dominare, a suo piacimento. Quanto perché lui è di fatto il playmaker della squadra e nonostante abbia una media di 20-25 tiri tentati a partita, tutti, ripeto TUTTI i suoi compagni del quintetto hanno aumentato vertiginosamente la propria media punti. Insomma, tutto questo è molto più di quanto abbiano fatto i suoi predecessori alla sua età . E bada che è gente che si chiama Garnett, Bryant, McGrady, Stoudamire. Detta in maniera grezza, LBJ corre il rischio, serio, di diventare il più giovane Mvp della storia della Nba.
Ma le sei sconfitte di seguito di Cleveland potrebbero dare l'impressione che il giocattolo potrebbe essersi beh rotto forse no. Magari un po' ammaccato. I Cavs, al contrario dei Pistons, sono partiti forti subito. Forte soprattutto perché il numero ventitré si è messo a Jordaneggiare già dalla primissima partita. Tre sconfitte di fila, d'accordo, seguite però da sei vittorie di seguito con 30 punti di media di James. Poi un infortunio lo ha tenuto fuori per due partite -danni limitati: una vittoria e una sconfitta-. Poi un piccolo crollo. Sei perse tutte di fila.
Lebron convalescente ha tiracchiato non proprio benissimo (9-25 contro Indiana, 6-22 contro San Antonio, 9-19 contro Miami). Gooden da un po' di tempo a questa parte non è più quello di inizio stagione e forse la stanchezza potrebbe averci messo del proprio: forte così per 82 partite effettivamente Cleveland non poteva giocare. Ora i Cavs hanno il quinto miglior record della Conference. Nel momento in cui scrivo, 33 vinte e 27 perse. I playoff sembrano sicuri. Coach Silas ha lavorato bene, rilanciando come si deve Drew Gooden, migliorato in ogni statistica e alla miglior stagione della sua carriera.
Affidando il controllo del gioco a James ha fatto sì che McInnis avesse più tiri a disposizione, Jeff mai così on fire come quest'anno. E poi c'è un atleta sopraffino come Ira Newble diventato dal nulla numero 3 titolare ripagando la fiducia del coacho con l'impegno e la difesa che ogni allenatore vorrebbe avere-. Bravo, Silas, anche per aver creduto fino alla fine nel "Cedro" Ilgauskas. Piedi di burro senza marmellata ma capace di una stagione monstre, proprio da All Star Game. 18 punti, 8 rimbalzi, exploit da 35 punti e 18 rimbalzi. Roba che a vederlo muoversi in campo verrebbe da ridere dalle risate. Eppure il Cedro c'è. Con o senza James.
Molto bene anche la panchina. Varejao e Pavlovic sono decisamente più di semplici prospetti per il futuro tant'è che già mezza Nba è sulle loro tracce. Trattore Traylor ha saputo riciclarsi splendidamente dopo le ombre di New Orleans della scorsa stagione e ora è uno specialista coi fiocchi (4.8 rimbalzi di media, massimo in carriera) ed è stato importante anche il contributo di Eric Snow. Per lui minutaggio ridotto rispetto a quando giocava nei Sixers -spodestato di fatto dalla regia da Lebrone- ma ha risposto presente ogni qualvolta è stato chiamato in causa.
Diversa la situazione dei Chicago Bulls. Se per i Cavs a inizio stagione i playoff erano l'obiettivo minimo, quello per i tori, a inizio stagione, era un traguardo decisamente insperato. Nove sconfitte di fila. Critiche caos e che casino in quel di Chicago. Teste calde teste vuote centri macché manco a pagarli oro talento tanto e testa poca. Filastrocca che ben si adattava allo spogliatoio pre-season dei Bulls.
Squadra giovane, sì diciamo più dei giovanotti senz'arte né parte a cui si sono aggiunti ben quattro rookie: Luol Deng, Chris Duhon, Andreas Nocioni e Ben Gordon. Si vabeh e poi? Ma allora Skiles e Paxson dei playoff proprio non vogliono saperne. E chi l'ha detto? Ecco qua. 53% di vittorie, appena lo 0.2% in meno rispetto ai Cavs di Lebrone. E soprattutto, playoff playoff playoff. Salvo una caduta libera e improvvisa, i ragazzini dello United Center giocheranno le partite che contano di più. Dopo sette anni di nulla. Dopo sette anni in cui non erano riusciti a mettere in fila 4 vittorie. Beh quest'anno di vittorie di seguito ne hanno centrate cinque. Poi sette. E poi ancora cinque.
Skiles e Paxson hanno fatto i miracoli. Loro, e naturalmente i giovincelli che ogni giorno infiammano lo United Center. Sopresa sorpresa: Eddy Curry e Tyson Chandler un centro vero insieme riescono a farlo, e probabilmente anche qualcosa in più. Buonissimo realizzatore il primo (15 punti e il 70% dalla lunetta, record carriera) ed eccelso rimbalzista il secondo (7p+9r). Su di loro pendeva un pessimismo cosmico. Ora vengono celebrati come la coppia lunghi del futuro, roba del tipo Olajuwon-Sampson dei primi anni '80" vabeh no, questo proprio no. Ma da loro un rendimento simile, scherzi a parte, proprio non lo si aspettava.
Così come non lo si aspettava dal tridente Deng-Gordon-Duhon. Da chi partire? Mah. I primi due sono in lizza per vincere il premio di miglior rookie dell'anno. Premio che vincerà quasi sicuramente Okafor, ma che bravi anche questi due qui! Il talento offensivo di Gordon, scelta numero 3 assoluta, è forse senza uguali. Tiratore eccellente, 43% da 3 punti e 84% dalla lunetta, già più volte è stato rookie del mese. Tende forse a tirare un po' troppo ed è proprio per questo che Skiles lo fa partire dalla panchina.
Sì perché in quintetto parte Chris Duhon. Arrivato nell'anonimato a Chicago con la scelta numero 38 si è rivelato playmaker affidabile, giocatore universale fra i primi della Lega per rapporto fra assists e turnovers e ottimo come sempre in difesa, forte anche a rimbalzo ma un po' limitato in attacco. E va beh. Tanto c'è il sempre più bravo Kirk Hinrich, destinato a diventare fra i migliori 10 della Lega nonostante sia ancora un po' deficitario al tiro, e per l'appunto Luol Deng.
Paragonato a Grant Hill ai tempi del college (anche lui è cresciuto a Duke). Difesa solida, grande istinto per il rimbalzo (ed è più un 2 che un 3, ha un massimo di 11 contro Dallas). E talento offensivo da tanto di cappello. 17 punti a gara farciti da una buona dose di faccia tosta, dato che ha tenuto testa in alcune partite a gente come Allen Iverson, Kobe Bryant e lo stesso Grant Hill.
Rimane Indiana. La derelitta Indiana. Artest fuori per la stagione, Jermain O'Neal, Jamaal Tinsley e Jonathan Bender ultimamente s'infortunano anche pettinandosi. Insomma, la stagione è di quelle da dimenticare, dal momento che i Pacers erano partiti a inizio stagione come la numero 2-3 della Conference. Eppure qualcosa si può ancora salvare. Ad esempio l'ultima, stoica stagione di Reggie Miller, 13 punti e il 90% dalla lunetta e un exploit di 36 (TRENTASEI, e ha trentanove anni) contro Portland. Le cose buone che hanno mostrato i due Jones, Fred e James, e Jamaal Tinsley quando i Pacers giocavano senza il quintetto titolare per le squalifiche di Detroit.
E l'ottimo ritorno di Jeff Foster, fermato a lungo (anche lui) da un brutto infortunio che ma che appena rischierato in campo ha fornito un contributo solido e consistente (8+9). Bisogna recuperare Stephen Jackson, ancora piuttosto lontano dagli standard di Atlanta e San Antonio. Sperare che Croshere e Pollard ritornino continui e decisivi come lo sono stati in passato. E allora forse sì, i playoff, ora alla loro portata con il 50% di vittorie e l'ottavo posto della griglia, potranno regalare ancora qualche soddisfazione. Ai Pacers, ma soprattutto a Killer Miller: un addio perlomeno degno di una carriera strabiliante. A dir poco.