La pennellata mancina di Lamar
Potete chiamarla fortuna, o caso se preferite, ma se c'è una cosa di cui andare certa a questo mondo, è che con Lamar Odom la natura non si è certo risparmiata.
Nato a New York, con un padre alcolizzato alle spalle, ha come uniche costanti della sua infanzia il rumore del pallone, e il profumo dell'asfalto dei playground su cui, praticamente, cresce.
A quattordici anni si iscrive a Christ The King, una delle più famose High School newyorchesi, e grazie all'aiuto della sopraccitata madre natura, passa dall'essere uno scheletro di un metro e ottanta, a uno di 2,05 nel giro di un anno. Se ci aggiungete un trattamento di palla magistrale, e un'innata capacità di stare in campo e dominare, non dovrebbe suonarvi tanto strano un titolo locale dei licei con il pelle-ossa che ne segna 36 a referto nella finale con St. Raymond's.
A questo punto però le pressioni si fanno sempre più insostenibili, le telefonate sono ormai innumerevoli e il ragazzino si monta la testa. Dopo mesi di rifugi e fughe, e dopo essere arrivato a un licenziamento del coach di distanza dall'essere reclutato da UCLA, finisce ad UNLV, dove dura praticamente il tempo di un mattino.
Quando il telefono sembra aver ormai smesso di squillare, ecco che arriva la chiamata di tale Jerry Di Gregorio, coach dei Rams di Rhode Island, nonché vecchio "maestro di vita" dello stesso Odom, che si era rivolto a lui in cerca di consigli e disciplina.
Da qui all'NBA il passo è breve. Odom resiste solo due anni prima di cedere alla tentazione di confrontarsi con i più forti. L'occasione gli viene fornita dai Los Angeles Clippers che ne fanno la quarta scelta assoluta di uno dei migliori draft degli ultimi anni, quello del 1999.
Il suo debutto nella lega mette subito le cose in chiaro, 30 punti e 12 rimbalzi contro i Sonics del "guanto", Gary Payton, seguiti dalla prima tripla doppia a neanche due mesi di distanza.
Odom sembra essere quanto di più vicino a Magic Johnson abbia calcato i parquet dell'NBA dal suo ritiro, per la sua altezza unita all'incredibile visione di gioco e capacità di coinvolgere i compagni.
I suoi anni ai Clippers sono però tutt'altro che ricchi di soddisfazione. La società non è certo tra le più efficienti, l'amalgama è una parola sconosciuta a Hollywood, e il talento dei singoli finisce sprecato.
Lamar non riesce mai ad esprimere completamente il suo indiscutibile valore, complici anche numerosi infortuni e qualche problema di troppo con la Marijuana.
Nell'estate del 2003 arriva la svolta. Odom è free agent, e i Miami Heat di Pat Riley, che qualcosina di questo sport dovrebbe capire, bussano alla sua porta con un contratto di decine di milioni di dollari. Don "braccine corte" Sterling decide di non pareggiare l'offerta e il gioco è fatto. Gli Heat, grazie anche al rookie meraviglia Dwyane Wade, sono la rivelazione della Eastern Conference.
Questa è sicuramente la sua migliore stagione dall'ingresso della lega, con quasi una doppia doppia di media (17.1 punti e 9.7 rimbalzi) e una ritrovata fiducia nelle proprie immense capacità . Van Gundy lo colloca da numero quattro tattico, dandogli in mano buona parte delle responsabilità offensive di Miami.
Ma nonostante la stagione 2003/2004 sia andata oltre le più rosee aspettative per gli Heat, la possibilità di prendere il giocatore più dominante della lega, The Big Aristotele, cambia i piani della franchigia della Florida.
Odom, accompagnato da Brian Grant e Caron Butler, si ritrova all'improvviso ad indossare una delle casacche più "pesanti" dell'NBA, quella dei Lakers di Los Angeles che sperano di farne il nuovo Scottie Pippen.
Se nel basket bastasse sommare il talento dei giocatori in campo per avere un ordine di valori, i Lakers, con la coppia Kobe-Lamar sarebbero ai vertici della Western Conference. Ma giocare con l'"erede" (") può risultare molto difficile, anche e soprattutto per una stella come Odom.
Il numero 7 in gialloviola non riesce ad integrarsi negli "schemi"di coach Rudy T. , tattiche che prevedono per lo più giocatori fermi e palla in mano all'8, con facoltà di inventare. Vedere Odom con le mani sulle ginocchia sul lato debole, mentre guarda le evoluzioni del suo compagno, fa però male a tutti gli amanti di questo gioco.
Solidissimo in difesa, discreto stoppatore e con una fantastica tecnica a rimbalzo, Odom nella propria metà campo rappresenta una certezza. La sua impressionante apertura alare permetterebbe magari di schierarlo anche in punta in una zona, in modo da oscurare la visione di gioco agli avversari.
In attacco è semplicemente poetico quando riesce ad andare sulla mano sinistra, cioè praticamente sempre. Uno contro uno è assolutamente infermabile, ma potrebbe sicuramente migliorare nell'uso della destra e nel suo tiro dalla media, che è spesso incostante.
L'infortunio di Bryant, in concomitanza con l'avvicendarsi sulla panchina Lakers di coach Frank Hamblen, ha però dato la possibilità di esprimersi al meglio a Lamar, che ha risposto con prestazioni sempre eccellenti, spesso molto vicine alla tripla doppia.
Con il ritorno del numero 8, il problema della convivenza tra i due è tornato a farsi sentire a Los Angeles. Odom non è un leader, e questo è sicuramente un vantaggio per una squadra che ha già a libro paga tale Kobe Bryant. Ma sicuramente non è possibile utilizzarlo solo sul lato debole, in attesi di uno scarico per un tiro da tre punti. A quel punto, tanto vale far giocare Cook.
L'impressione e la speranza è comunque che i due riescano prima o poi a trovare un intesa di gioco. Troppo forti per non riuscirci. Ma per ottenere questo è necessario che KB8 riveda il suo gioco. La previsione di Shaq che voleva Kobe perdere giocando da solo, assomiglia per ora sinistramente a verità .
Per Odom ancora una volta non è arrivata la chiamata alla partita delle stelle, a causa dell'affollamento in ala a Ovest, e delle statistiche sicuramente inferiori a molti suoi pari ruolo. Vedendolo prendere la linea di fondo, però, non si può non pensare che il suo posto sia proprio lì, tra i migliori giocatori del mondo, a farci innamorare ancora di più di questo gioco.