I Tori alla carica

Ben Gordon si è subito fatto amare dal pubblico di Chicago

Una massima in auge fra i giornalisti sportivi, anche quelli più beceri, dice che solamente chi fa pronostici può sbagliarli.

In ossequio a questo non proprio originalissimo proverbio, la stragrande maggioranza degli osservatori di pallacanestro americana vedeva, dopo solamente poche giornate di regular season, i Chicago Bulls come un oggetto misterioso, una delusione, un qualche cosa lontanissimo dal sembrare una squadra pronta per i play-off.

Suona strano ma è così, la squadra dominatrice degli anni '90, verrebbe da dire l'ultima grande squadra dello scorso millennio, dallo scadere del fatidico 2000 non ha più trovato il bandolo della matassa.

Errori di programmazione, coach perdenti, giocatori scelti con criteri non proprio scientifici, scambi approssimativi.

Sì, i Bulls sono tornati in quel limbo di mediocrità  dal quale MJ li aveva sollevati a viva forza, grazie alla sua immensa competitività  (una delle doti, fra le tante).

Il pronostico del 2005, visti gli inizi, non poteva variare molto, invece, cheti cheti, in sordina, con quella dote tanto rara che si definisce umiltà , i giocatori della città  del vento hanno cominciato a risalire la china.

E intraprendendo questa ripida strada, hanno messo insieme un mese di dicembre che se non si può definire memorabile, si può certamente chiamare soddisfacente, al limite dell'incoraggiante.

Due numeri?

Una striscia di 5 vittorie in fila per cominciare, un bilancio nelle ultime dieci gare di 7 vinte e 3 perse, vittorie contro i Lakers prima e contro i San Antonio Spurs poi.

Non basta? Bisogna dire qualche cosa di più?

Allora bisogna cominciare con il dire che, come sempre, il tempo è sempre una medicina utile e che a questo livello di basket nulla si inventa. Così come il grande Mike D'Antoni ci ha messo un anno per prendersi e rendere propria la creatura Suns, gli stessi tempi sono occorsi al sergente di ferro Scott Skiles per far entrare nelle zucche delle sue reclute i propri dogmi.

In realtà  il dogma principale predicato da Skiles è la semplicità .

I Bulls di questo fortunato inizio di 2005 giocano una pallacanestro decisamente limitata quanto a variazioni tattiche e invenzioni strategiche, ma fanno della concretezza, dell'energia e della difesa i vessilli del proprio gioco.

La franchigia dell'Illinois ha fatto in sostanza buon viso a cattivo gioco.

Trovandosi nella necessità  di sfruttare un roster palesemente giovane ed inesperto, la stanza dei bottoni dei Bulls, per l'anagrafe il signor John Paxson ha costruito la propria strategia per poter andare incontro alla filosofia dell'ex play degli Orlando Magic.

Via quindi ogni enigma tattico. Via Jay Williams (al momento costui non è un giocatore NBA, forse cammina, forse corre, sicuramente è un gran bello spreco) e via Jamal Crawford. Guida mentale e tattica del gioco per contro ad un ragioniere di lusso come Kirk Hinrich.

Esatto. Un altro degli ottimi esponenti della felicissima nidiata uscita dal draft 2003 è oggi il vero leader di questi Bulls.

Per il prodotto da Kansas, il primo anno nella NBA ha fruttato subito il titolo di miglior giocatore dei Bulls per il 2003/4 (cosa non proprio impossibile), un posto nel quintetto dei migliori Rookie dell'anno e tanti, tanti confronti con la pietra di paragone di tutti i play bianchi dei prossimi 100 anni: John Stockton.

Quest'anno le sue cifre sono ulteriormente migliorate. Il numero 12 infatti, segna una media di 16 punti per gara, aggiungendo 6.8 assist, un numero che ha raggiunto anche quota 14 proprio nella recente vittoria contro i Celtics.

Accanto al "vecchietto" di cui sopra, gira una back court giovanissimo, ma fra i più interessanti e dinamici dell'intera lega.

Chris Duhon e Ben Gordon sono un dinamico duo dalle mille possibilità . Nonostante i limiti fisici, specie del primo, l'abnegazione e la spigliatezza con la quale questi due giovani provenienti rispettivamente da Duke e UConn hanno affrontato l'impatto con la NBA, ha dato una boccata di ossigeno ai tifosi abituati ormai a giocatori di scarso impegno (soprattutto se confrontato al talento) o di inadatta attitudine.

Le loro cifre non sono ancora quelle di possibili fuoriclasse, ma a giornate alterne sanno fornire aiuti preziosissimi all'attacco, giocano i pick'n roll con rara velocità , piegano le ginocchia quando devono in difesa e perché no, hanno già  dimostrato di saper risolvere qualche partita con tiri allo scadere.

E a proposito di attitudine, gli altri rookie che stanno meravigliando lo United Center sono due esempi di giocatore che tutti gli allenatori vorrebbero per se: Loul Deng e Andres Nocioni.

Il primo era atteso, se non attesissimo, dai Bulls. Partito dalla panchina nelle prime uscite, ha subito collezionato numeri pesanti, intesi come doppie doppie, e pur essendo tutt'altro che sgrezzato nel suo modo di giocare, rappresenta senza dubbio il futuro di questa franchigia.

Il secondo è stata una delle scoperte di Atene. La medaglia d'oro conquistata con la sua Argentina se l'è guadagnata fino in fondo, con il sudore, i gomiti, le gambe che ha sempre messo in ogni singola uscita dei suoi, cosa che non ha certo smesso di fare una volta arrivato fra i pro.

Pur non segnando tantissimo (8.3 di media) le sue qualità  vanno ben oltre il mero conteggio dei canestri ed in una lega nella quale la difesa è trattata a volte come un fastidioso interludio fra due attacchi. L'atletismo di questo gaucho ne fanno un giocatore di importanza capitale.

Certamente ad oggi, i Bulls sono una squadra a trazione posteriore. Tutti i nomi fatti fino ad ora appartengono più o meno al reparto piccoli (o presunti tali). E i lunghi dove sono?

Ecco la magagna. Negli scorsi anni la delusione più forte di questa squadra è arrivata dal rendimento dei propri lunghi. Un reparto che a dirla tutta si è riempito di scommesse mai azzeccate che, con la partenza ormai qualche stagione fa di Elton Brand, non ha più visto scendere in campo un atleta vero negli spot di 4 e 5.

I grandi accusati della mancata levitazione dei tori di questi anni sono stati Eddy Curry e Tyson Chandler. Mancanza di voglia, di atletismo di continuità  hanno minato le prime tre stagioni di ragazzi per i quali si era già  speso l'aggettivo di predestinati e che invece hanno fallito la prova con le aspettative di un ambiente troppo ben abituato.

Anche quest'anno le cose non stanno proprio decollando, ma senza dubbio la cura Skiles sta producendo anche nei baldi giovanotti qualche miglioramento.

Affiancando loro un veteranissimo come Antonio Davis i due lunghi non sono certo diventati esempi dell'etica della fatica, ma quanto meno hanno cominciato a portare più sostanza alla causa. In particolare il lavoro sembra avere fatto breccia nella mente di Curry, che ha dato uno standard decisamente più continuo alle proprie apparizioni sul parquet, mentre Chandler continua ad alternare giornate di scintillante facilità  di gioco, specie a rimbalzo, con settimane di opacità .

A completare la rosa infine, non sono da dimenticare Adrian Griffith co-capitano e uomo che nonostante i soli 5 anni di professionismo, è già  possibile definire veterano, e un veterano vero, quell' Eric Piatkowski, il cui tiro da fuori ha già  fatto le fortune nel suo piccolo, di tante franchigie della Lega.

Come finiranno questi Bulls?

Come si suol dire, con la media d'età  che si ritrovano, the sky is the limit, ma anche se per quest'anno non dovesse arrivare la post season (oggi come oggi è a 3 ½ partite di distanza) le basi per un progetto finalmente logico ci sono. Non resta che sedersi e osservare e non dimenticare l'esempio di Miami dello scorso anno: primo mese da 0 - 7 vinte di parziale e poi"

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