Abdul Rauf, oggi a Roseto, ha vestito anche la maglia dei Kings
Inutile nascondere le emozioni, ho davanti un professionista anche per quelle. Glielo si legge negli occhi, in quelle sottili increspature del viso che vengono ad una persona quando parla con gioia di ciò che ama. Attorno alle labbra e agli occhi, tutto parla di basket con passione sul volto di Mahmoud Abdul Rauf.
Il siparietto al quale assisto prima di presentarmi all'ex Chris Jackson è di quelli che difficilmente verranno scordati in una vita passata all'insegna di uno sport. Mahmoud è a bordo campo, vicino alla panchina con intorno tutte le stelle intervenute per l'All Star Game nazionale dell'indomani: James Singleton, Kiwane Goree, Mike Penberthy, Preston Shumpert e Ruben Douglas. Tutti sono intorno a lui e lo ascoltano parlare delle sue avventure nell'NBA: dalla storia dell'inno americano, durante il quale una volta Mahmoud stette seduto per protesta, alle esperienze di college a fianco di Shaq a LSU, passando per l'All Star Game - quello vero - per finire agli aneddoti di mille trasferte e avventure stravaganti.
Mahmoud calamita l'attenzione dei "pargoli" che pendono dalle sue labbra assorti e un po' sognanti: l'NBA è il loro mito e si vede da come ascoltano uno che "ce l'ha fatta" con così tanta attenzione. Lui è lì per quello e non resisto alla tentazione di infilarmi al gruppetto di sognatori perché su quell'aspetto lì non ho davvero niente da invidiare: Mahmoud coinvolge e parla di come tutti fossero concentrati su quel centrone che avrebbe fatto sfracelli e intanto lui andava avanti a 30 di media al college: "a nessuno importava di me! Ci credete? C'era lui, lì in mezzo e si vedeva all'orizzonte che sarebbe diventato grande" e avanti così per quindici minuti buoni. Che serata.
Poi il siparietto finisce e i "ragazzi" vanno sotto le docce: è il mio momento! "Mr. Abdul Rauf!", "Yes?", "may I have a little interview with you?", "Sure, wonderful!", risponde a 80 denti. Eh? Sogno o l'ho detto davvero? Ma, soprattutto, sogno o mi ha risposto davvero così?. Sì. E allora si parte!
Andrea De Beni – Cominciamo dall'esperienza qui in Italia. Come stai vivendo questa fase della tua carriera?
Mahmoud Abdul Rauf - "Oh, è tutto fantastico. Amo questo paese! La gente, i luoghi, il tifo" Qui è tutto fantastico, sai, per me è un po' come essere in vacanza e fare quello che più mi piace."
Tanto, è cambiato dalle tue stagioni a Denver, in NBA, e dai tempi del college. Facendo una panoramica sulla tua carriera, quali sono i momenti che ritieni indimenticabili, quelle esperienze che non cambieresti mai"
Mahomoud - "Ah, bella domanda" Non saprei, ma ti rispondo 'nessuno'. Nel senso che ogni esperienza ha avuto un suo perché nel contesto della mia carriera: gli alti i bassi, ogni momento ha dovuto esistere ed essere proprio così perché potesse esistere il momento successivo. Tutto è stato fondamentale, non ci sono rimpianti, non ci sono rimorsi. Solo tante esperienze che hanno lasciato un grande dono dentro di me".
Lo abbiamo visto quest'estate e, secondo me, continuiamo a vederlo in questa stagione in NBA" L'oceano tecnico sportivo che divide gli States con il resto del mondo, si sta definitivamente restringendo?
Mahmoud - "Mmmmh" In che senso? Ah, cioè, tu dici che vi state avvicinando, giusto? Beh, ragazzi, è innegabile. Qui in Europa i fondamentali sono l'essenza della pallacanestro, poi viene l'aspetto atletico e dello spettacolo. Questo rende meno vendibile questo sport, al contrario che negli USA, però vedi alla fine fare così non paga. Lo spartiacque è Dirk Nowitzki: lui sa fare davvero tutto, non esistono giocatori così, può giocare 4 ruoli, vederlo giocare è davvero uno spettacolo. E qui in Europa, tantissimi lunghi sanno tirare come lui, è pieno di gente con quelle medie da tre. Da noi non c'è l'interesse a lavorare sulla tecnica: quando hai un bel fisico e delle doti fuori dal comune, per loro sei pronto per esplodere e ti buttano nella mischia. E a livello globale, Atene è quello che ci spetta se non danno una regolata. Lo vedi già nei playground: tutti a provare quella mossa lì, quel palleggio spettacolare" Anche io ci vado, al campetto, ma una volta non era così". ("Facile, no?" NdA)
A questo proposito, come non parlare del fenomeno "high schooler"? Se ne vede sempre di più e questo può essere un danno enorme per la qualità dell'NBA e, soprattutto dell'NCAA" O no?
Mahmoud - "Mah, sai, poi bisogna sempre andare a capire cosa sta dietro a queste scelte. Alcuni ragazzi sono obbligati a saltare il college, magari per un discorso economico: sei in crisi, cresci in una famiglia con determinati problemi e non ha senso andare a complicarsi la vita, rischiando di farti male e perdere la chance di vivere giocando. Poi, però, i LeBron capitano davvero di rado e l'NBA si sta riempiendo di prospetti che poi non riescono a combinare un gran che""
(fingo di tossicchiare e sorridendo")" Ehm" Kwame?
Mahmoud – …Ecco, sì, per fare un esempio (risponde ridendo di puro gusto"). Ma non è l'unico, eh! L'NBA rischia davvero di vedere il suo tono tecnico calare, e anzi è già così, ecco perché ci sono sempre più stranieri, gente che alla fine ci insegna a giocare quando una volta era il contrario. Per l'NCAA, beh, non credo che sia la stessa cosa. Il livello scende ma si vede di meno perché è mediamente più basso che in NBA e poi ci sono molti più talenti grezzi che vanno al college per limare o proprio imparare a giocare, ci sono grandi insegnanti e quindi non credo che il livello possa variare di molto".
Abbiamo parlato del passato, chiudiamo con il tuo futuro"
Mahmoud - "Che dirti, a quello non ci penso. Qui faccio le cose che so fare meglio, in un ambiente sereno e pieno di rispetto per il gioco e voglia di fare bene. Ma sai, alla mia età , il business è per certi versi ancora più importante che quando si è giovanissimi: ora ho una famiglia alla quale rendere conto e voglio fare ciò che è meglio per loro, innanzitutto".
Così come era cominciata, la serata finisce bene. Con un sorriso di un atleta come non se ne vedono spesso. In ogni parola di quest'uomo si legge tutta l'esperienza di una carriera, di una vita trascorsa su tutti i campi d'America, di mille battaglie su altrettanti parquet. A 35 anni, alla fine di un percorso che lo ha visto nell'elite del gioco per diverse stagioni, ho davanti un uomo maturo ma non finito, che ha ancora molto da dire, da insegnare e da imparare, un uomo che non ha perso una virgola di passione e di voglia di allacciarsi, per la milionesima volta, le scarpe da basket e far vedere - e anche a 35 anni ne è ben capace - cosa è capace di fare. High five e via a raccontare l'avventura nella Torino gelida che fuori aspetta di essere presa per mano.
So much respect, Mahmoud. So long and thanks of all.
Andrea De Beni
Special Thanks: Gianmarco Pozzecco, Luca Garri, Teo Soragna, per aver dedicato del tempo ad un sognatore, ad Arianna che lo ha reso possibile e a Torino, che è la miglior cornice che conosco.